Un articolo di Matteo Nucci uscito sul «Messaggero» che prende in esame la controversa figura di Louis-Ferdinand Destouches, meglio noto come Céline. Si è appena concluso l’anno del cinquantennale dalla sua morte: nessuna celebrazione in Francia per questo artista dalla zona d’ombra piuttosto estesa, di contro tanti saggi, biografie e nuove edizioni della sua opera uscite negli ultimi mesi hanno compensato a questa mancanza, a dimostrazione che le parole di sua moglie Lucette Almanzor sul fatto che a lui bastassero i lettori non sono così lontane dal vero.
L’anno delle celebrazioni mancate è passato. Il mezzo secolo dalla morte di Louis-Ferdinand Destouches, meglio noto come Céline, è scivolato via senza festeggiamenti ufficiali, visto lo sdegno che ancora suscitano i celebri scritti antisemiti. Ma a giudicare dalle librerie francesi, dove si affollano riedizioni, studi, biografie, ha avuto ragione piuttosto François Gibault, avvocato esperto céliniano, autore di una monumentale biografia, nonché massimo confidente di Lucette Almanzor, moglie dello scrittore, oggi novantanovenne: “Ha fatto bene, il Ministro della Cultura. Céline non ha nessun bisogno di essere celebrato dallo Stato. A lui bastano i lettori”. I libelli antisemiti, insomma, continuano a far polemica e non è un caso che proprio a essi e soprattutto a “Bagatelle per un massacro” siano dedicate le due novità italiane. Francesco Germinario in Céline: letteratura politica e antisemitismo (UTET) e Riccardo De Benedetti in Céline e il caso delle “Bagatelle” (Medusa) indagano infatti la “zona d’ombra” dello scrittore di pamphlet, e spingono a evitare il luogo comune in base a cui esisterebbero due Céline: da una parte lo scrittore straordinario; dall’altra il pornografo razzista.
Ma per guardare a quest’unità il metodo migliore è certo leggerlo, Céline, e semmai rincorrerlo in un prezioso libriccino, regalo del 2011 italiano. Si tratta delle conversazioni che uno scrittore e giornalista belga, Robert Poulet, ebbe con il reietto, da poco tornato in Francia dopo la fuga in Danimarca e i diciotto mesi di galera, rincorso dalla mai provata accusa di collaborazionismo. Aspettando che anche qui arrivi parte delle nuove pubblicazioni sfornate in Francia, è un piacere seguire Poulet che racconta l’uomo, lo lascia parlare, lo invita a sfogarsi. Il mio amico Céline (Elliot) si apre nel 1956 quando per la prima volta Poulet si affaccia al cancello su Route des Gardes a Meudon, periferia di Parigi. La rete che circonda il villino è rattoppata e percorsa dal filo spinato. La buca delle lettere è spesso zeppa di minacce e insulti. Il piccolo ambulatorio che il Dottor Destouches ha aperto non è molto frequentato ma quando qualche poveretto dei dintorni viene a chiedere una visita, ne esce in genere sorridente perché il Dottore non sa farsi pagare. “Sono tutti al verde più di me” spiega Céline a Poulet, quasi temesse di essere preso per un filantropo. Lui ai suoi soldi ci tiene eccome. Ha scritto solo per procurarsi qualche franco – lo ripete più volte. Aveva anche messo da parte un po’ di denaro spedito poi sotto forma di oro in Danimarca, dove tutto è andato perduto.
I cani abbaiano, le tartarughe si affannano in giro per il giardino sbrecciato, la moglie Lucette accoglie le ragazzine iscritte ai suoi corsi di danza, il pappagallo si fa la sua cantatina, rigorosamente in casa perché fuori irrita un vicino (“pensi che se prendeva un po’ d’aria in terrazza il vicino incacchiato accendeva il giradischi. Un disco che glielo raccomando. Speciale, fatto apposta. Una rara scelta di urli e casini vari, che manco gli zulu. Non faceva mica una piega: contro il pappagallo? L’altoparlante! Automatismo perfetto”). Via via, Céline dà confidenza a Poulet. Comincia a raccontargli la fatica immensa con cui scrive (“ogni frase la ricomincio dieci, venti volte… E quei cretini credono che improvviso… Tutto calcolato al millimetro, miei cari!”), ritmi che viaggiano su dieci pagine al mese “soffrendo, sbuffando” sotto gli occhi del gatto. Spiega la cura con cui ha creato il proprio stile paragonandolo ai merletti che faceva sua madre (Sono scomparsi dalla circolazione. Per farli ci voleva un tempo enorme. Oggi li fanno a macchina”), pur di andare in presa diretta sulle sensazioni (“San Giovanni dice che in principio era il verbo. (…) Io invece dico: “Al principio era l’emozione”). Ritorna più volte su una questione centrale: la verità si dice arrangiandola, barando, perché “bisogna modificarle, le cose vere, per dire la verità”. Questo è il segreto e Céline lo sputa alla maniera sua: “Per non essere falso, come tutti, io sono andato al di là del vero. E vi ho incastrato!”
Poulet segue il suo interlocutore mentre, a poco a poco, ne diventa amico. Lo invita a decantare il corpo delle donne, lo lascia autodenigrarsi (e commenta: “ogni volta che si autodenigra, voi state all’erta e indagate: immancabilmente scoprirete una segreta delicatezza”), lo spinge a ridere della società letteraria, lo pungola sui suoi pamphlet (“sono in realtà libelli contro la guerra”), gli fa ricordare gli inzi. Quando era soltanto un medico dei bassifondi e il suo manoscritto, scartato da Gallimard, finì sotto gli occhi esterrefatti di Denoël che si dimostrò subito pronto a tutto e che per prima cosa dovette rintracciare l’autore, visto che le cartelle di Viaggio al termine della notte erano state recapitate in forma anonima. Arriva, infine, anche il tempo per parlare della morte. “Ce l’ho sempre davanti, la morte” dice lui, i capelli spettinati, lo sguardo limpido, camminando in lungo e in largo per la casa. “Per il momento mi basta proteggere mia moglie dai dispiaceri che avrà quando non ci sarò più. (…) Mica mi rattrista, ‘st’assillo, mica mi paralizza, come invece tanti morti-vivi che ci giocano a nascondino, con la putrefazione”. Il momento sarebbe arrivato pochi anni dopo. Il mondo lo venne a sapere con tre giorni di ritardo. Si era raccomandato alla moglie di non dirlo, di non chiamare un medico, di spedirlo in una fossa comune. Su ques’ultimo punto, Lucette non ebbe la forza di accontentarlo.
Matteo Nucci è nato a Roma nel 1970. Ha pubblicato con Ponte alle Grazie i romanzi Sono comuni le cose degli amici (2009, finalista al Premio Strega), Il toro non sbaglia mai (2011), È giusto obbedire alla notte (2017, finalista al Premio Strega), e il saggio narrativo L’abisso di Eros (2018). Con Einaudi ha pubblicato traduzione e commento del Simposio di Platone (2009) e i saggi narrativi Le lacrime degli eroi (2013), Achille e Odisseo (2020), Il grido di Pan (2023). Per HarperCollins sono usciti il romanzo Sono difficili le cose belle (2022) e il saggio narrativo Sognava i leoni. L’eroismo fragile di Ernest Hemingway (2024). I suoi racconti sono apparsi in riviste, antologie e ebook (come Mai, Ponte alle Grazie 2014), mentre i reportage di viaggio e le cronache letterarie escono su La Stampa e L’Espresso. Cura un sito di cultura taurina: www.uominietori.it
bellissimo articolo.
bello al quadrato. e splendida la citazione “ogni volta che si autodenigra, voi state all’erta e indagate: immancabilmente scoprirete una segreta delicatezza”. Sulla fatica di scrivere penso che un pochino barasse …
Prima di diventare scrittore,Celine fu studente in medicina e come tale dedicò la sua tesi ad un eroe scientifico dell’Ottocento:Filippo Ignazio Semmelweis,debellatore dell’infezione puerperale.Ne trasse poi un testo
bellissimo che nel raccontare la tragica storia di questo medico anticipa la vita stessa di Celine
Proprio. Sta fissa, io, mai avuta. Mi basta cacare bene e non penso alla morte, né ai vivi. E non mi ungo di burro la chioma.