di Nicola Berardinelli

Nel panorama impervio delle pubblicazioni editoriali estive, una gemma dell’editore Giometti & Antonello ruba la scena a tutto il resto. Dialogo sulla musica moderna. Carteggio. Scritti di Busoni con annotazioni inedite di Schönberg è un libro estremamente coraggioso da dare alle stampe nel contesto odierno editoriale e sociale, un atto di fede e di speranza nei confronti di un pubblico sempre più disattento.

Un mercato asfittico, che non sembra cogliere il minimo barlume di luce in fondo al tunnel, nel quale la maggioranza degli editori cerca di sopravvivere accomodando i gusti dei potenziali lettori e osando sempre meno. Questo testo può sembrare un salto nel buio, non solo per la mole di oltre cinquecento pagine dedicate a due nomi poco familiari al grande pubblico, quanto per il contenuto frastagliato – oltre che denso – tale da imporre alcune riflessioni e sollecitarne di altre.

A differenza di quanto possa apparire in prima istanza, questo non è un libro ad esclusiva di cultori della materia o compositori, e non è nemmeno necessario avere delle basi tecniche per apprezzarne il contenuto. La costruzione del volume consente di approfondire non solo le figure e le personalità di Ferruccio Busoni e Arnold Schönberg, tramite i loro carteggi privati, ma anche di capire meglio il loro modo di ragionare, l’importanza di Bach e Mozart, di pesare meglio il valore di altri compositori – quali Beethoven, Haydn, Chopin, Mahler, Mendelssohn, Debussy, Verdi e Boito – respirando, attraverso le memorie ed i saggi di Busoni, i principali protagonisti della nobile scena musicale europea prima e dopo la Grande Guerra.

Non si può fare i conti con il presente se non si ha consapevolezza piena del nostro provenire, questo è l’assioma che ha plasmato la poetica di Ferruccio Busoni, un enfant prodige, precoce sia nelle pubbliche performance musicali che nei brillanti articoli e saggi per L’Indipendente (testata irredentista alla quale collabora dall’età di diciassette anni con pseudonimo di Bruno Fioresucci), che ha vissuto in pieno il periodo di transizione dell’universo musicale a cavallo tra XIX e XX Secolo, tra melodramma e avanguardie.

Busoni, definito da Massimo Mila «spirito curioso del nuovo e aperto a tutte le esperienze moderne», nasce ad Empoli nella seconda metà dell’Ottocento: figlio di Ferdinando, clarinettista toscano, e Anna Weiss, pianista italotedesca. È stato un pioniere – ampiamente riconosciuto da molti suoi colleghi coevi – del pianoforte, ha vissuto principalmente tra la Trieste asburgica e Berlino, e di conseguenza durante il periodo che ha intercorso le guerre mondiali è stato parzialmente obliato nel nostro paese per equivoci nazionalistici (salvo poi venire riscoperto grazie a Luigi Dallapiccola nella seconda metà dello scorso secolo).

È stato costretto a vivere in esilio a Zurigo durante la Grande Guerra, perché non “riconosciuto” né in Germania né in Italia. Proprio le radici italiane e la formazione romantica ne hanno definito il carattere aperto e ben disposto alle novità, ma con una preparazione tecnica e teorica estremamente elevata e fedele a Listz, Mozart e Bach.

L’attenzione e la curiosità verso le propulsioni avanguardiste lo hanno avvicinato a Schönberg, austriaco, teorico della musica atonale e della dodecafonia, in parole povere: un rivoluzionario della composizione. Come tutti i rivoluzionari, Schönberg, di personalità ruvida, spigolosa e determinata, è stato continuamente circondato in vita da detrattori che ne hanno sminuito l’importanza e svilito le composizioni, accrescendo in lui un senso di disagio e persecuzione perpetui.

Ma come sosteneva Robert Schumann «solo il genio riconosce il genio», e forse per questa attrazione tra prodigi, Busoni si interessa alle partiture di un compositore che è sotto la lente d’ingrandimento dei critici e dei colleghi, come dimostrano le oltre trenta pagine di improperi ferali che Nicolaj Slonimskij ha raccolto nel suo celebre campionario di giudizi malevoli (Invettive Musicali edito da Adelphi nel 2025), “privilegio” che non è spettato nemmeno ad Igor Stravinskij, nonostante la scandalosa Sagra della Primavera.

Ad inizio Novecento, in una Berlino in fermento culturale, Busoni è in procinto di organizzare dei concerti sinfonici di “musiche nuovissime”, un cartellone che avrebbe annoverato Sibelius, Bartók e altri nomi di primordine. Schönberg inaugura la corrispondenza proponendo per la rassegna il suo poema sinfonico Pelleas und Melisande, da qui cattura l’attenzione di Busoni, che resta stupito dall’orchestrazione, ma opta per non includere la composizione in cartellone, pur offrendo a Schönberg la possibilità di rimanere in programma con la sua orchestrazione delle Syrische Tänze di Heinrich Schenker.

Da qui si innesca un fitto carteggio – non continuativo – tra Busoni e Schönberg, aperture, incomprensioni, che danno vita ad un assiduo dibattito tra visioni della musica e della composizione estremamente competenti e preparate: due accademici che si trovano a confutare le tesi altrui, a lasciar sedimentare delle risposte nel tempo lento che richiede la lettura di una lettera e la scrittura di una risposta, senza scendere nella frenesia che veste i tempi attuali. Un dibattito sano e costruttivo nel quale la dinamica assolutista delle tifoserie da stadio decade.

«Scrivere è pulito, parlare è sporco», con questo pensiero di Deleuze si può rapidamente sintetizzare quanto offerto dal carteggio tra Busoni e Schönberg: non si è al riparo dai fraintendimenti, ma sicuramente alcune posizioni vengono argomentate con una logica più lineare rispetto a come avrebbero potuto svilupparle a voce. È formativo constatare come in un tempo lento, come quello in cui si trovano gli attori del libro, fosse sviluppata l’attitudine alla dialettica mai tracimante nella mancanza di rispetto altrui; posizioni solide che trovano terreno fertile nell’intelligenza dell’interlocutore.

Il tempo lento è lo stesso che viene richiesto da Schönberg per la composizione e per il quale non riesce a rispondere alle lettere di Busoni, o al contrario è lo stesso tempo che viene richiesto da Busoni quando gli impegni per i concerti in giro per il mondo lo rendono temporaneamente irreperibile. L’irreperibilità all’altro è un concetto a noi oramai estraneo e lontano, le telecomunicazioni hanno tagliato le nostre solitudini, annullato le distanze.

Se da un lato siamo costretti ad una socialità sterile, dall’altro vi è un livellamento verso il basso della capacità produttiva e cognitiva dell’opera d’arte. Cresciuti con l’epifania warholiana dei quindici minuti di celebrità e giunti al secondo di fama – ancor più effimera – dello scroll nei social media, ci troviamo in un limbo statico in cui è premiata una creazione frutto di casualità, mentre da Dialogo sulla musica moderna emerge che la creazione non è frutto di un’azione estemporanea, bensì la combinazione di tecnica al servizio di una accurata preparazione teorica.

Per Marshall McLuhan Il mezzo è il messaggio, la sempre più rapida evoluzione dei media ha di fatto stravolto la dinamica creativa e ricettiva di ognuno di noi, instaurando un meccanismo oggidì al riparo dalle critiche, perché la critica è spuntata, debole, e non attecchisce nello slime che raccontava e cantava Frank Zappa.

Invece le critiche tra Busoni e Schönberg proliferano all’interno del testo, alcune sono sotterranee, altre esplicite. La reazione ad esse – che fossero più o meno giuste – è tendenzialmente costruttiva ed elegante, senza mai tirarsi indietro, soprattutto Schönberg: nei momenti di critica feroce subita dai detrattori e nel periodo senza un editore che ne promuovesse i lavori, ha la capacità non trascurabile di difendere la visione del proprio mondo e le composizioni da cui provenivano, senza retrocedere. Questo approccio non ha minato i rapporti, ambo le parti si sono spese nel mutuo supporto, con la ricerca attiva da parte di Busoni di un editore per Schönberg, o con la proposta di Schönberg a Kandinskij di includere Busoni all’interno del Cavaliere Azzurro.

Confrontarsi con il volume di Giometti & Antonello pertanto è un conforto non solo nell’aiutarci a ridefinire il concetto di genio, decisamente inflazionato nell’epoca presente (Busoni, così come Schönberg, poteva meritare tale appellativo senza scadere nel tritacarne dell’iperbole gratuita), ma anche nello sviluppare una coscienza attiva, per interpretare le dinamiche dei musicisti e compositori ai loro tempi, senza il filtro odierno che magnifica ed esalta ogni autore esistito ed ogni sua opera prodotta.

In questo, ne consegue un ritorno alla capacità analitica di giudizio, che induce ad avanzare senza timidezza dubbi su opere – all’apparenza – incontestabili di mostri sacri provenienti dal Pantheon della musica classica e contemporanea. Un senso di critica ragionata, attraverso gli occhi di Busoni e Schönberg, in grado di emanciparsi dalla visione del pensiero comune discettando sui passaggi a vuoto di Beethoven, Wagner, Debussy, o semplicemente soffermandosi sulla lista dei motivi per il quale Mozart è da considerarsi il genio, o ancora aiutandoci a riscoprire l’essenzialità di Bach per l’impalcatura su cui si è costruita la musica che è arrivata a noi oggi.

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