
di Eugenio Giannetta e Luca Momblano
E – Ho scritto più volte queste parole nella mia testa, come nella brutta copia di una lettera d’amore mai spedita, poi mi sono arreso. Ho guardato in un angolo immaginario della mia mente e ci ho visto una montagna di carta sbagliata appallottolata di fianco a un cestino.
In ognuno di quei fogli l’incipit rispondeva a una domanda da tema delle scuole medie: dopo l’uscita del sesto e ultimo libro de La mia battaglia, “Fine” (Feltrinelli), fai un bilancio di cosa rappresenta Karl Ove Knausgård per te.
Dopo svariati tentativi e altrettanti fallimenti, l’epifania. Knausgård è il mio Miles Davis, come si fa a spiegarlo? In quel momento ho capito che avrei voluto raccontare il mio personalissimo Knausgård non solo attraverso le 4.115 pagine e i sei anni che abbiamo passato assieme, ma attraverso la sua musica. Ho cominciato a cercare – pagina dopo pagina – ogni passaggio in cui fosse stata citata una band o una canzone. Senza pretese di esaustività, perché potrei essermi sbagliato, come accade ogni qualvolta si stili una lista così vasta, in un mare aperto in tempesta: alla fine ho contato 103 artisti.
Ho creato una playlist su Spotify e per ognuna delle band o dei singoli musicisti chiamati in causa ho inserito in lista il brano più ascoltato. Poi ho aggiunto le singole canzoni citate sparse qua e là ed è saltato fuori un viaggio musicale lungo nove ore e ventuno minuti, diviso in 132 brani. Ho ascoltato la playlist per alcuni giorni di seguito, cercando di coglierne il senso e interpretarne il filo conduttore, ma nulla. Era come fissare per ore le DrawingHands di Escher o perdersi nei dettagli della Torre di Babele di Bruegel. Un’operazione che in matematica algebrica equivarrebbe alla Lemniscata di Bernoulli, simbolicamente rappresentata da un otto sdraiato.
Il paradosso di questo lavoro di ricerca, però, è stato non riconoscermi più in nessuna delle singole sottolineature, orecchie alle pagine, segni o appunti presi a matita sull’interno delle diverse quarte di copertina che si sono susseguite. Ci sono due colpevoli: da una parte il tempo trascorso, dall’altra l’elemento umano, che come spiega lo stesso Knausgård nel suo ultimo volume, possiede un limite interiore e uno esteriore e “tra di essi si trova la cultura, che rappresenta ciò in cui appaiamo noi stessi”.
In Knausgård – mi ha detto una volta una persona – tutto sembra essere davvero importante, e insieme niente lo è così tanto: “Era come se io esistessi su più livelli – scrive Knausgård – che di colpo si erano messi a funzionare in contemporanea”.
Ecco come si può spiegare il fatto che la letteratura, in qualche caso, sia più importante della vita stessa, e come si giustifica che ricordi vaghi raggiungano talvolta una forma di verosimiglianza, pur mancando di autenticità. Ma ha davvero importanza – nel complesso – questa sorta di “inaffidabilità” narrativa? Io direi di no, anche perché di fatto il mondo non “è qualcosa di diverso dalle rappresentazioni che noi abbiamo di esso?”. La risposta, credo, sta tutta qui: “Il compito della letteratura non è l’esaustività, è la costruzione dell’inesauribile, perlomeno quando riguarda quella letteratura che ha come meta di rappresentare la realtà, e la nostra reazione costantemente mutevole e fluttuante a questo”.
Al termine di questo lungo ciclo di riflessioni e domande senza risposta, ho infine deciso di chiedere l’aiuto di un amico del cui giudizio musicale mi fido più di ogni altro. Gli ho fornito la lista completa della musica presente nei sei volumi e gli ho chiesto di scegliere sei musicisti, band, artisti, con un criterio che si potesse distinguere nel marasma, fosse anche la casualità. Sei come i libri, e per ognuno di essi un incontro o uno scontro, un momento o un ricordo, una sottolineatura o una macchia di caffè, per raccontare quanto tutto ciò che abbiamo fatto insieme io e il mio personalissimo Knausgård, “in fondo non era nulla, eppure era tutto”.
L – I bulimici in consumo musicale si dividono in due categorie: gli eternamente insoddisfatti che riflettono su una delle sfere della cultura pop – come probabilmente su altro – la ricerca di un possesso che non è mai abbastanza e gli enciclopedici per i quali è la conoscenza a non essere mai abbastanza. Una delle sottocartelle di questa seconda schiera include a pie’ pari autonarcisisti e eteronarcisisti (estremità opposta degli insoddisfatti cronici, i quali spingono loro stessi costantemente al ribasso).
Dunque lo scrivo subito: non conosco ancora la sciolina nelle pagine delle opere – o è un’opera unica? – di Karl Ove Knausgård, ma conosco gli occhi e le parole di chi ne è rimasto ammaliato e intrappolato. Ho d’istinto preteso la lista delle musiche citate nei vari volumi, perché mi viene così, perché ci casco sempre. Ho ricevuto in cambio una pioggia di nomi, una selva che effettivamente è una vita, e non ancora tutta. Perché se è vero che nessuno cambia, le nostre colonne sonore – anche incidentalmente, da esseri umani – cambiano continuamente. Knausgård non è Dio e quindi la lista di cui sopra racconta chiaramente un processo, consapevoli che sono poi le fotografie sonore cucite sul testo, tanto più in un racconto che riguarda sé stessi, a fare da elemento decisivo circa l’atmosfera, in particolare l’atmosfera emotiva.
Non potendo al momento fare io diversamente che riceverlo asciutto e senza azioni di contorno, l’elenco ha fatto breccia, ha fatto anzi da onda, costringendomi all’angolo man mano che scorrevo i nomi degli artisti e dei gruppi, alcuni scritti due o tre volte. Ogni nome andava subito ricollocato. E ne sono combattuto. Da una parte icone di genere e di scene, punti di riferimento per filoni e scuole, in molti casi maestri superati (per successo e in qualche caso anche per livello) da taluni dei loro allievi culturali. Li ho inseriti nella seconda colonna lasciandone una libera, perché qualcosa mi diceva che non fosse la scelta giusta per questa introduzione: Wall of Voodoo, Leftfield, Happy Mondays, Mercury Rev, Pixies, Beastie Boys. Probabilmente avrei voluto scrivere di questi, ma questo errore non mi era concesso. Io dovevo scrivere di un uomo che non conoscevo e che – oltre a non essere il sottoscritto – non è neanche un critico musicale che forgia per mestiere giudizi storici sull’arte più penetrante, se parliamo di tessuto sociale, del Secondo Dopoguerra.
Sei, come i volumi fino a Fine. Dai Black Sabbath a JoshRouse, c’era totale varietà, forti spigoli e poco mainstream. Ma sei dovevano essere. E non dovevano essere casuali: gli ascolti definiscono l’individuo. Due minuti più tardi avevo completato la prima colonna, quella probabilmente giusta: David Bowie, Prince, The Doors, Bjork, The Smashing Pumpkins, Roxy Music. Il primo minuto l’ho speso a ricontrollare se ricordavo bene a proposito dei Roxy Music del dandy numero uno Bryan Ferry. Al che ho sostituito gli Smiths, perché il narcisismo era la mia chiave nascosta per Knausgård, l’avevo focalizzata nitidamente. Con voracità. E Morrissey ammiccava a Dorian Gray più di quanto lo facessero le sue parole e la musica della sua band. Non era abbastanza, in questo caso: è successo di rado nella vita artistica di Moz, non se la prenderà per una premessa votata a parlare di qualcun altro.
Gli altri nomi annotati erano senza volerlo un puzzle già completo: con La Morte del Padre è subito The End declamata dall’esibizionismo di Jim Morrison; il soggetto di Un Uomo Innamorato possono essere tutte le maschere di Bowie e l’eccentricità resa pubblica per amarsi ed essere amati; con L’Isola dell’Infanzia si finisce dritti sulla forza individualista e femminile di Bjork; Ballando al Buio è come quando hai ascoltato la prima volta 1979 degli Smashing e volevi muoverti esattamente come lo spirito di Billy Corgan, che tanto nel gruppo fa tutto lui; La Pioggia Deve Cadere è per forza viola ed è per forza quella di un uomo solo al comando del suo io, fino a togliersi il nome (e anche il nome d’arte) come accaduto a Prince (e non dimentichiamo che, come spiega lo stesso Knausgård in un’intervista rilasciata a 7 del Corriere qualche tempo fa, il suo cognome dovrebbe essere Pedersen: una lunga storia…). Infine c’è Fine. Il tramonto. Che tanto poi il sole – fin che si è vivi – tornerà. La Avalon dei Roxy Music.
E tutto quadrava come ancora tutto quadra. E tutto ci porta a chi ammira sé stesso e le proprie conquiste musicali con compiacimento. Alla categoria dei bulimici enciclopedici che vogliono vivere di sapere, di modelli, di idoli e di sfide irraggiungibili. Quindi, probabilmente, dentro le case di uno scrittore che si chiama Karl Ove Knausgård.
E – La morte del padre | “Quando la comprensione del mondo aumenta, non solo diminuisce il dolore da esso causato, ma anche il senso”. Questa breve riflessione, posta a poche pagine dall’inizio del primo dei sei volumi di Knausgård, ne definisce tutta o quasi la poetica. L’infanzia e l’adolescenza passate a fissare la giusta distanza dalle cose e poi l’età matura, nella quale il tempo fluisce più rapidamente. E poi ci sono la paura, la rabbia, le ossessioni, l’insicurezza e la vergogna, che accompagnano l’io dell’autore e di ognuno di noi. Infine c’è un padre, nocciolo di ogni cosa, che si piega alla forma, perché “lo scrivere riguarda più il distruggere che il creare”.
L – La fine di qualcuno che nelle nostre esistenze è sempre esistito implica ogni volta, inderogabilmente, almeno un interrogativo. Il lutto – qualunque sia la nostra età e qualsiasi sia la qualità del legame – spinge e persino obbliga a crescere nonché a confrontarci con un contesto aggiornato, se non totalmente nuovo. “Driver, where you taking us?” è la domanda nella fine recitata da Jim Morrison e dai Doors ai loro esordi. Ultima traccia del primo e omonimo album del 1967 – non a caso verrebbe da dire – che di fatto segna il passaggio dal sogno del ragazzo rampante alla realizzazione dell’età adulta, con tutto ciò che ne comporta. Anche artisticamente è poi stato così.
Un passaggio quasi iconoclasta, come da aspirazione di milioni di giovani ascoltatori, e qui per Knausgård la scelta si fa piuttosto convenzionale, se non fosse che pare in perfetta simbiosi con la capacità rara di saper distruggere attraverso la scrittura. Che può, nel parallelo, corrispondere all’immersione emozionale estraniante dei mantra musicali più provocanti ed espressivi. “Father – Yes, son – I want to killyou”. Uccidere tutto, distruggere tutto, sputare fuori tutto. Per poi capire che in fin dei conti si tratta di una lotta contro sé stessi. D’altronde, anche l’esibizionismo lo è.
E – Un uomo innamorato | L’amore è un tema centrale in Knausgård: Tonje, che in qualche modo rappresenta la Norvegia e la prima parte della sua vita; Linda, la poetessa che lo incanta e da cui ha tre figli: Vanja, Heidi e John; Hanne, l’amore del liceo, la cui risata risuona identica anche molti anni dopo. In alcune teorie psicologiche esiste un modello di polarità definito ‘semantiche’. In modo spicciolo, Knausgård potrebbe essere ‘incasellato’ nella semantica della libertà. Da una parte un forte desiderio di appartenenza familiare, dall’altra un bisogno di evadere. Un’altalena, insomma, in cui però sia lui a dettare tempi del volo e della spinta. Ma Linda è una luce, un bagliore capace di rendere tutto “più evidente, più facile, più leggero, più vivo”.
L – L’amore è trasformista, che ci piaccia ammetterlo o meno. Nasconde la stragrande maggioranza dei nostri segreti. E se tutte le facce che proviamo nelle diverse generazioni dell’amore fossero immagini del nostro cambiamento esteriore, saremmo il carnevale rappresentato nel corso degli anni – senza scrupoli e senza troppo pudore – da David Bowie. Addirittura, quelle maschere possono arrivare a far tendenza. Ma sono “solo” volti, espressioni. E qui subentra il loro opposto, l’estetica di ogni uomo innamorato, un’estetica interiore che può chiamarsi amore dell’anima: Soul Love, in uno dei capolavori firmati dal Duca Bianco, il quale trasla sé stesso nel corpo di Ziggy Stardust. Ogni amore è un mondo diverso, è un modo diverso. L’estetica del cuore che batte – e batte forte quello di Knausgård – è ineluttabile: sta nella realtà in cui siamo cresciuti, la madrepatria; sta nella poesia; sta nei gesti naturali, minimi, portentosi, della persona della quale in quell’istante dell’esistenza si è follemente innamorati. O si è convinti di esserlo.
Bowie è perfetto e confusivo allo stesso tempo, un po’ come le righe di ogni autobiografia che non voglia provare a nascondere le verità della natura umana: “All i have is my love of love, and love is not loving”. Ovvero l’egocentrismo che mira ad avere tutto: l’amore di cui si ha bisogno, ma soltanto quando ne si ha bisogno.
E – L’isola dell’infanzia | Il terzo libro è emblematico da un punto di vista narrativo, soprattutto per uno scrittore di post-fiction. Inizia nel 1969 e Knausgård è nato nel 1968. Dopo alcune pagine, la dichiarazione: “Ovviamente io non ricordo niente di quel periodo”. Eppure in quel periodo c’è un germe di quel che sarà: le prime letture voraci, la scuola, la famiglia, il rapporto con la natura e con Yngve, suo fratello. E poi c’è questo: il momento in cui appena dopo un tema la maestra spiega a Karl Ove che non tutto ciò che sappiamo degli altri lo possiamo raccontare. E lui allora scrive così: “I sentimenti sono sentimenti, a sette come a settant’anni. Sono sempre importanti”, mentre “la memoria non è affatto una misura affidabile e responsabile di una vita”. La chiave, infine, sono le sensazioni. Nel passato di ieri e per sempre.
L – “There is definitely no logic to human behaviour / but yet so, so irresistible” canta candidamente (e innocentemente) la giovane stella di Bjork. Non lei, proprio la sua stella. Ma cosa avrà potuto mai vedere e capire nella sua giovinezza relegata ai confini obbligati dell’Islanda? Come fa a dirlo? Come fa già a saperlo? Probabile che in realtà lei non ricordi nulla di così preciso e razionale dei suoi primi 17 anni di vita. Eppure lo grida al mondo, e il mondo si convince che quell’isola dell’infanzia ha prodotto un nuovo modo di essere donna di successo. Il germe pare essere il medesimo di Knausgård – e non perché il freddo norvegese somigli a quello islandese – ovvero un essere umano capace di esprimere precocemente i propri sentimenti, così come escono e soprattutto così come arrivano all’adulto. A undici anni l’una era già un piccolo fenomeno in patria, l’altro lavorava (senza coscienza?) per diventarlo: “And there’s no map / And the compass wouldn’t help at all”. Insomma, succede non così di rado che non siano gli strumenti canonici a indicare la via per la consacrazione. Ci si arriva un po’ da soli, un po’ perché non ci si fa condizionare e un po’ (tanto) perché c’è qualcuno che ci ascolta. O che ci legge.
E – Ballando al buio | Ballando al buio è il libro più duro, ricolmo di tristezza e solitudine. Diciottenne, appena uscito dal liceo, Knausgård va a vivere nel nord della Norvegia per iniziare la sua carriera di scrittore. Lascia un mondo conosciuto per diventare adulto. È un libro spartiacque, che insegna quanto difficile possa essere conciliare vita e scrittura, e quanto il buio (non solo metaforico nel villaggio di pescatori di Fjordgård) possa avvolgere e confondere ogni cosa. Tante persone che scrivono si chiedono: quand’è che posso definirmi uno scrittore? Quando pubblico? Quando, semplicemente, scrivo? Quando lo faccio per mestiere? Io, credo, quando scrivendo si fallisce. E nonostante tutto si continua a farlo.
L – L’animo errante sfocia giocoforza nella solitudine. Si parte dal soffocamento delle metropoli, si attraversano strade, paesi, campi e orizzonti. Si cerca, senza averlo chiaro, il proprio spazio. E infatti corrisponde sovente a uno spazio occluso, autobloccante, dove si fanno i conti con ciò che si desidera e la possibilità concreta di ottenerlo. Ma dove si andrà a parare, chi lo sa. È una dimensione fantasmagorica e orrorifica allo stesso tempo, che fonde creatività e autocritica, paura di spiccare il volo e paura di non farcela. È tutta una dicotomia: “With the headlights pointed at dawn / we were sure we’d never see an end to it all”, a denti stretti, come Billy Corgan, come gli SmashingPumpkins che entrano nelle tv e nelle vite senza focus delle camerette di fine millennio scorso. Un brano che è tutto un andare a zonzo, senza notte e senza giorno. Ci sarà mai un vero punto di arrivo? E se sì, comunque “…noi non sapremo mai dove riposeranno le nostre ossa / nella sabbia, credo / dimenticate e assorbite dalla terra sottostante”. Nel mondo di Knausgård a un certo punto le parole e le risposte non soffiano più nel vento che fu di Bob Dylan, bensì penetrano. E diventano inscalfibili. È forse questo il momento nel quale ci si può definire scrittori?
E – La pioggia deve cadere | In tre parole: rock and roll. La scrittura può essere tanto soddisfacente quanto deludente e a vent’anni anche le cose più piccole diventano immense, teatrali, epiche, fondamentali, uniche e totalizzanti: “Quando scrivo voglio che sia una questione di vita o di morte”. Tuttavia, essere una rockstar (proprio come in scrittura) significa fare i conti e scendere a patti con i demoni interiori, con gli scheletri nell’armadio, con i tanti irrisolti dell’infanzia che così profondamente può influenzare, con i suoi ricordi distorti, l’intera narrazione di una vita. Si può entrare in contatto con sé stessi e soffrire, si può ignorare ogni cosa e soffrire, si può osservare con finto disinteresse e chiudersi, abusare di alcol, trasformare il quotidiano in un dramma continuo. E alla fine, soffrire, ancora soffrire. Knausgård sceglie quest’ultima via. Il minimo comune denominatore è la sofferenza, finché non arriva un momento in cui bene e male trovano un loro equilibrio. E tutto (o quasi) trova pace.
L – “Ciò che sappiamo concretamente è che a ridosso dei 30 anni era ormai estraniato, esausto e in qualche modo ormai psicotico. Scrive anche una sorta di manifesto che è una ego-bomba circa sé stesso, un uomo di mezza età che reclama disperatamente di essere il migliore, non proprio la cosa più dolce e convincente che si potesse fare. Ma allo stesso tempo vale anche l’effetto contrario, macho, teatrale, trionfale: più insisti sull’unicità e su una possibile invulnerabilità, più sembra che tu in realtà stia combattendo” [citazione liberamente tratta da “It Gets Me Home, Thi sCurving Track” di IanPenman]. Lui non è Knausgård, ma Prince Rogers Nelson che esibisce il brano My Name is Prince. Più autoreferenziali di così non si può, una volta giunti allo zenit di un dramma artistico che si misura infine con la metafora della pioggia, addirittura viola. Di rabbia, di abbandono e di desideri che non si possono nemmeno sfiorare: “You say you want a leader / but you can’t seem to make up your mind / I think you better close it / and let me guide you”. Lascia che ti guidi nella pioggia viola. È questo il patto con il diavolo del rock, il diavolo della cultura popolare: se non siamo amanti, e non siamo amici, e non siamo più niente, cosa siamo se non l’idea che si sono fatti gli altri, migliaia, milioni, di noi? Per non soccombere nel giudizio si è costretti a non distinguere – almeno per un attimo – tra bene e male, giusto e sbagliato.
E – Fine | Il libro della maturità. Knausgård si specchia. Sta per essere pubblicato il primo volume e riceve i pareri e i commenti delle persone coinvolte. Tutto diventa quasi come un metaromanzo. Un po’ come quando Bastian, ne La storia infinita, si rende conto di essere parte di quello che sta leggendo. Fine è un libro colto, denso, ricco di rimandi letterari e riflessioni, da Paul Celan ad Ayn Rand, passando per Peter Handke e per una lunga dissertazione sul MeinKampf; non bisogna dimenticare che il titolo originale de La mia battaglia, in inglese poi tradotto My struggle, in norvegese era invece Min Kamp. Da una parte il male assoluto, dall’altra il mettersi in condizione di affrontarlo, in un confine spesso labilissimo. Dice bene la traduttrice Margherita Podestà Heir, nella sua nota finale: “Tradurre Fine è stato come scalare una montagna. Mi sono serviti pazienza, dedizione, coraggio, umiltà. Poi, mentre procedevo, mi sono resa conto che un quinto elemento era altrettanto necessario: la libertà”.
L – Quando finisce un viaggio. E il punto di partenza non corrisponde al punto di arrivo. O per meglio dire: quando si finisce un percorso. Ci si eleva. Ci si guarda intorno e ci si guarda dentro, con qualcosa nel bagaglio che si fa pesante: “Now the party’s over / i’m so tired”. Ci va una certa eleganza per spiegare che si è diventati in qualche modo migliori, per di più se i luoghi sono non-luoghi e comunque sempre secondari all’indice di fatica. Ci andrebbero un divano e un papillon, la voce come quella di Bryan Ferry “when the samba takes you / out of nowhere / and the background’s fading / out of focus” per godersi la scena di un Knausgård finalmente svuotato che ha raggiunto la sua Avalon. La copertina poi: un elmo medievale, diciamo un vichingo, e un falco. E un lago. E la nube a filo d’acqua. E la terra all’orizzonte. “Yes the picture’s changing / every moment / and your destination / you don’t know it”. E lo sguardo rivolto al tramonto, che potrebbe anche essere l’alba di un saggio e torbido secondo inizio.
Eugenio Giannetta, classe 1986, è autore e giornalista professionista dal 2018. Laurea in Lettere e Master in comunicazione sociale con relazione finale sul rapporto tra etica e comunicazione. Dal 2016 ha una collaborazione continuativa con le pagine culturali di Avvenire. Collabora inoltre come consulente per la comunicazione con varie realtà editoriali e del Terzo settore. Suoi articoli appaiono e sono apparsi su numerosi siti e riviste tra cui Vanity Fair, Harper’s Bazaar, Esquire, Elle, Marie Claire, Artribune, La Stampa.
Un grazie sincero per questo articolo. Sono a un terzo di “Fine” e completerò il libro con la tua playlist in sottofondo. Complimenti!