
Mi piace il cinema di Christophe Honoré per tutti i dettagli con cui riempie i fotogrammi più silenziosi dei suoi film. Mi piace l’andamento dinoccolato e privo di spigoli dei suoi personaggi maschili. Mi piace l’uso che fa di locandine teatrali ed eventi realmente accaduti con cui riempie le scene minori. Mi piace come la musica, storicamente e privatamente, entri nelle vite dei protagonisti, li faccia cambiare, ballare, piangere, ridere, soffrire come cani. E infine rinascere, trasformando il doppio in una singola unità, che ancora non sa dell’immensa voragine cui è destinato. Mi piace la fiducia che ormai Honoré si è guadagnato e attraverso la quale gli permetto di continuare a farmi tribolare con un nuovo ed empatico ritratto dell’epifania della giovinezza. Mi piace quella sensazione di forte angoscia che abita i momenti più intimi, mi piace apprendere i movimenti causati ora dalla rabbia ora dal piacere. Mi piace il modo in cui Honoré insegna a ricostruire un’adolescenza o una nuova vita quando tutto sta crollando. Qualcuno gli contesterà un abuso di emozioni eppure è esattamente quel suo modo strabordante e dolce e malinconico e brutale di far titillare lo spettatore che rende il suo cinema travolgente e sincero. Penso a tutta la filmografia, e penso all’ultimo film, Le Lycéen (The Winter Boy), uscito in Italia lo scorso 28 aprile, e riconosco una scrittura frammentata, testimone di una solitudine ricercata, di un tentativo (non sempre vincente) di esaurire il dolore.
Lucas (uno strabiliante Paul Kircher) sta vivendo serenamente il suo ultimo anno di collegio e non vede l’ora di godersi le meraviglie di Parigi dove già vive suo fratello maggiore, Quentin (il sempre solidissimo Vincent Lacoste, divenuto quasi attore feticcio di Honoré), che fa l’artista, e divide un piccolo appartamento con l’amico Lilio (un granitico e sensuale Erwan Kepoa Falé); i suoi genitori si prenderanno cura di tutto. Sarà bello. Ma poi, un giorno, un’improvvisa tragedia strappa via tutto ciò che Lucas dava per scontato, lasciandolo pieno di rabbia e disperazione, e proiettando il suo futuro nel caos. Quentin è perso nel suo stesso dolore, e vorrebbe proteggere il fratello dalla rottura che lo sta distruggendo. La loro madre, Isabelle (una straordinaria e muscolare Juliette Binoche), non sa come tradurre il trauma vissuto dal giovane uomo che sta crescendo davanti ai suoi occhi. Lucas dovrà in qualche modo, arrancando, sbagliando, trovare la propria strada da solo, cercando conforto in una Parigi freddissima e rosata, che si sta ancora riprendendo dalla pandemia.
Honoré plasma con eterna grazia il dolore perché di dolore è fatto: dalla perdita di un amore come avveniva in Plaire, aimer et courir vite alla perdita del padre che attraversa Le Lycéen, i tormenti vissuti personalmente non possono che essere sublimati e quasi condotti altrove, in uno spazio che diviene solo del regista e del suo pubblico. Il candore dei suoi personaggi, giovani uomini o adolescenti troppo maturi, si scontra coi terremoti carnali dei loro vissuti, con gli abissi delle loro esperienze, rimanendo intatto. C’è sempre il privato in Honoré ma stavolta l’impressione è che mai niente sia stato così personale come questo film che racconta l’Honoré prima di Parigi, delle recensioni, del Cinema. Re-imparare a vivere, a essere: assieme alle vite scritte e sceneggiate, sembra farlo anche Christophe. E in parte lo facciamo tutti noi che gli permettiamo, ancora una volta, di farci del male. Le Lycèen – dedicato al padre – è un film duro, scorticato e gelido, odora di sigarette fumate al mattino, asfalto e felpe sudate. Due ore in cui Honoré non si limita a sfiorare i dirupi dell’umano, ma filma, con la sua macchina da presa tremolante, i volti degli attori con ferocia vicinanza, ne sonda l’animo e l’incarnato, liberando le mani e i corpi che si intrecciano selvaggiamente.
La levità con cui Honoré disvela i talenti – prima di Vincent Lacoste, ora di Paul Kircher – e dirige un’attrice intensissima come Juliette Binoche, lo porta a un livello di maestria e sicurezza tale da poter scherzare all’interno del dramma senza risultare ridicolo, offensivo, stonato. Risuona fortissimo tutto il lavoro cinematografico che ha svolto negli ultimi anni, e risuona la sua volontà di offrire un lenitivo a chi, come lui, ha subito una perdita così centrale. Alcune ferite impiegano decenni a rimarginarsi, soprattutto se le lacrime continuano a cadervi sopra, riaprendo la carne ma il taglio che ha vissuto Honoré – e con lui il suo Lucas – non teme alcuna ellissi narrativa, alcuna battuta, alcun cambio di tono. “Credo che in fondo, ci buttiamo sempre in un film perché ci manca qualcuno, perché improvvisamente o vagamente sentiamo un vuoto che stiamo cercando di riempire con un film. Ecco, io stavo decisamente vivendo un momento in cui mio padre mi mancava di più”, l’elemento autobiografico sembra donare a Honoré un nuovo modo di girare, la camera a mano per la prima volta lo proietta in una dimensione diretta e disarmante. Essere a proprio agio col dolore offre infinità possibilità di declinarlo e raccontarlo, nel più autentico modo possibile.
Nei film del cineasta francese c’è sempre un sacco di musica e si balla molto: anche in questo caso l’importanza delle canzoni e della danza nei momenti di sconforto sembra acquisire nuova potenza, trasformandoli in elementi terapeutici. Dai synth insistenti degli Orchestral Maneuvers in the Dark al pop italico di Toto Cutugno fino alla canzone cantautorale che sceglie il nostro Andrea Laszlo De Simone come padre poetico. Honoré affida alla scrittura cristallina e all’arpeggio neorealista di Conchiglie l’ultimo saluto alla vita di prima, al dolore sconosciuto, facendo cantare e suonare a Lucas quel canto di consapevolezza e quiete:
Ti sei un po’ spaventatoproprio come pensavo vedrai, non serve a nienterintanarti in te stessosiamo solo conchigliesparse sulla sabbia niente potrà tornare a quando il mare era calmo
La composizione dei personaggi così come l’impeccabile narrazione fuori campo di Lucas coinvolge lo spettatore nella storia dall’inizio come solo Honoré sa fare. Lucas non ha padroni ma nello stesso tempo non ha certezze. Ha troppo dolore. Ha l’amore di Isabelle e di Quentin, ma non ha braccia per stringerlo. Sembra quasi di sfogliare un libro e scoprire il luminoso personaggio di un romanzo; l’ascesa di Lucas, così bello e sfacciato, così schietto, fragile eppure prontissimo, a indossare una corazza chiamata futuro, ora che ha toccato con mano la più temibile durezza della vita. La persistente profondità del dolore, il suo devastante, improvviso ricorrere, gode di una straordinarietà che nessuno vorrebbe toccare.
A un certo punto Quentin, il fratello maggiore di Lucas, gli si rivolge con aria serissima e pronuncia una delle battute più sincere di tutto il film, “Non si può mandare tutto a puttane per la tristezza”. Ed è esattamente ciò che faranno tutti coloro che sono rimasti, lottando con l’angoscia e il tormento che scendono come nebbia pesante. Lucas sembra lottare doppiamente poiché si convince di aver ricevuto un segnale. un presagio di morte. Prima dell’incidente, quando era tutto “intatto”, Lucas non aveva bisogno di spiegarsi né di spiegare le sue scelte, i suoi errori. E invece adesso, come una dichiarazione rilasciata alla polizia, il meraviglioso Paul Kircher sentenzia: “Mi chiamo Lucas. Sono uno studente delle superiori e la mia vita è diventata una bestia feroce a cui non posso più avvicinarmi senza che mi morda”. Lucas racconta la sua storia alla telecamera, e cerca di dare un ordine agli eventi ma non ha il benché minimo controllo della sua storia. L’immaturità non è solo evasione, piuttosto una specie di sopravvivenza. Honoré mantiene per Lucas un carattere tremolante e incompiuto. Con le sue guance lisce da bambino, il fraseggio goffo e il sorriso disarmante, Lucas illumina il film e i movimenti di chi gli sta accanto. Incapace di articolare il dolore che lo divora, mostra una sensualità selvaggia e spontanea che si riflette in quell’indefinibile stato dell’adolescenza in cui si passa dalle risate alle lacrime, dall’ingenuità all’oscurità, dal romanticismo alla carnalità più spinta. Un limbo pirotecnico cui fa da contraltare la fermezza dell’inverno.
Già, Honoré torna a filmare d’inverno e l’inverno: dopo La Trilogie de l’hiver con Dans Paris, Les Chansons d’amour e La belle personne, il freddo di questa bizzarra educazione sentimentale gioca costantemente con le sfumature del colore rosa. Rosa e bianchi sono i fiori sulla croce che segna il luogo dell’incidente. Rosa è il colore del maglione di Lilio, dei fiori che porta Lucas per Quentin. Il rosa – anestetizzante e fluo – è il colore dell’incontro fugace tra Lucas e il giovane amante parigino. Rosa sono i maglioni di Isabelle, Quentin e Lilio. Infine, rosa è il colore delle guance che si animano nelle giornate più fredde. La sublime luce invernale con i suoi tanti riflessi e bagliori che rendono l’immagine cangiante incontra il bagliore di un primo crepuscolo dispiegandosi nei toni pastello del rosa, con una fotografia – maestosa, firmata da Rémy Chevrin – che vive sulle pelle, sulla carnagione degli attori. Christophe Honoré si è fatto inverno, con tutta la sua premura di padre e figlio, un inverno che abbraccia i pomeriggi bianchi e interminabili, e che alla fine consola, alla fine fa trovare la pace, si fa motore e spinta di una levità ritrovata, di una rinnovata capacità d’amare. Col suo film più intimo e doloroso, indiscutibilmente il più difficile, Honoré ha fatto qualcosa che destabilizza perché pare essere l’unica cosa capace di metterti in condizione di guadagnare la libertà che desideri, per te, e per gli altri. Una relazione umana col cinema che tasta meticolosamente il polso a una scrittura teatrale, quasi shakespeariana. Centoventidue minuti che possono cambiare le regole del gioco. Un’opera d’amore che non può invecchiare perché formata da due semplici e necessari elementi, un giovane uomo e la sua vita.