
Anni fa ho frequentato per qualche tempo una ragazza turca che era venuta a vivere a Roma per completare i suoi studi. Era bella, era sveglia, aveva una famiglia molto liquida alle spalle, scorte di rakı in abbondanza e una casa affittata in zona centrale; parlava anche un italiano senz’altro migliore del mio turco, composto da poche parole che lei si era messa in testa di insegnarmi e io ho fatto presto a dimenticare: cosa sarebbe mai potuto andare storto? Eppure lei viveva a Roma un po’ da turista, o da ospite, vale a dire come se non credesse fino in fondo alla scelta che aveva fatto. Una volta mi regalò una raccolta di poesie d’amore di Nazım Hikmet; un’altra volta, un romanzo intitolato La bastarda di Istanbul. Erano entrambi dei messaggi. Un giorno se n’è andata all’improvviso, portandosi via tutte le cose che avevo lasciato a casa sua.
Non avrei potuto conoscere una migliore impersonificazione della Turchia di quel periodo, che si candidava a fare il suo ingresso nell’Unione Europa ma al tempo stesso sceglieva di farsi governare dal neonato partito dell’ex sindaco di Istanbul, ancora poco conosciuto all’estero, Recep Tayyip Erdoğan. Oggi la Turchia appare un paese che ha fatto diversi passi indietro in termini di diritti politici e civili, soprattutto dopo il fallito colpo di stato del 2016, e i negoziati con l’UE iniziati nel 2005 proseguono più che altro per inerzia; ma questo processo di allontanamento era inevitabile? Credo che la storia avrebbe potuto benissimo prendere la direzione inversa, e resta a testimoniarlo la produzione cinematografica turca degli ultimi due decenni, ricchissima di opere di straordinario valore.
Sono film passati un po’ inosservati in Occidente. Al contrario di altri movimenti cinematografici che negli ultimi vent’anni hanno catturato l’attenzione del mondo – come il Nuevo cine mexicano di Alfonso Cuarón, Alejandro González Iñárritu e Guillermo del Toro, o la Noul val românesc di Cristi Puiu, Radu Jude e Cristian Mungiu – la più recente stagione del cinema turco non può neanche contare su una denominazione sotto la quale raccogliere i suoi principali autori. Il più conosciuto è probabilmente Nuri Bilge Ceylan, grazie anche ai ripetuti premi ricevuti a Cannes con Uzak (2002), Le tre scimmie (2008), C’era una volta in Anatolia (2011) e Il regno d’inverno (2016); ma oltre a lui sarebbero da citare Reha Erdem, Özcan Alper, Palin Esmer, Semih Kaplanoğlu e tanti altri ancora. Tutti spesso interessati a raccontare, più che la metropoli di Istanbul, la Turchia remota e rurale, e con essa le difficoltà ma anche le aspirazioni di un paese; tutti capaci, soprattutto, di usare storie particolari per affrontare questioni universali, come sempre fa la grande arte.
Due titoli renderanno bene l’idea. Autumn (titolo originale: Sonbahar, 2008) di Özcan Alper racconta la storia di Yusuf a partire dal momento in cui esce dal carcere e torna nel paese in cui è nato; più che un paese, in realtà, un gruppo di case sperduto in mezzo alle montagne. Lo aveva lasciato per studiare all’università, ci torna per cercare un punto da cui riprendere la sua vita dopo gli anni trascorsi in cella, senza però trovarlo: suo padre è morto, i vecchi amici si sono trasferiti altrove, la sua ragazza di un tempo è ormai la moglie di qualcun altro. In prigione oltretutto si è ammalato, e adesso lo perseguita una tosse che non promette nulla di buono. Nel tentativo di tirarlo su di morale, l’unico amico che gli è rimasto lo porta in città e con una scusa lo convince a fermarsi a dormire in albergo e a tornare in paese solo il giorno dopo, e ingaggia una prostituta perché gli faccia visita in camera. Yusuf la fa entrare, però non ha voglia di fare sesso – o forse sì, ma non così – e passa la notte con lei a parlare.
A questo punto scopriamo per quale motivo era finito in carcere, e assistiamo a una scena incredibile. Lei gli chiede «Quindi hai speso i migliori anni della tua vita in galera perché volevi il socialismo?», e fa questa domanda con candore, senza alcuna intenzione di irriderlo. Lui resta in silenzio. Il primo piano sul suo viso dura una manciata di secondi ed è indecifrabile: forse vorrebbe insultarla, forse darle completamente ragione, forse non pensa nulla, forse pensa al nulla, forse alla sua vista si sono sostituite altre immagini, quelle della guerriglia urbana, delle molotov e delle bombe carta, o magari quelle delle torture subite in carcere – gli stessi ricordi che spesso tornano a turbare le sue notti. Lei ha giusto il tempo di fargli una carezza, aggiungere con un sorriso «Sei pazzo?» e alzarsi dal letto per andare a fumare una sigaretta affacciata alla finestra, e la scena termina. È difficile non restare ammirati dalla ricchezza di quei pochi minuti, ugualmente carichi di umorismo, tenerezza e disperazione, e allo stesso tempo capaci di denunciare sia la repressione del dissenso in Turchia e ovunque nel mondo, sia il reato più odioso che esista, quello d’opinione.
Anche Reha Erdem, già autore di almeno un paio di capolavori con Bes vakit (2006) e Hayat var (2008) ha qualcosa da dire sul clima che si respira in Turchia nel suo ultimo lavoro, Hey There! (titolo originale: Seni buldum ya!, 2021): qui, interpretato da Serkan Keskin, già nel ruolo del migliore amico di Yusuf in Sonbahar, troviamo Felek, un ingegnoso hacker truffatore che, chiuso in casa per via del lockdown, appare in video sui computer di una serie di altri personaggi spacciandosi per un funzionario del governo, muovendo loro accuse a volte fondate, a volte improvvisate sul momento, allo scopo di estorcergli del denaro. Sarebbe un gustoso film sul senso di colpa e sull’irresistibile fascino della confessione, se non fosse in primo luogo un magnifico esempio di cinema ai tempi della pandemia – di un cinema Covid si potrebbe dire, che come il cinema Dogma segue una precisa serie di regole, dettate però da un virus e non da due intellettuali danesi.
La regola principale è ovvia: nessuno dei personaggi – o degli attori – può mai incontrare gli altri, e così il film si compone quasi interamente di videochiamate tramite Zoom. Il grande merito di Reha Erdem sta nell’aver realizzato una commedia leggera che è anche un bignami di teoria cinematografica. Se una delle dicotomie essenziali del cinema distingue l’inquadratura come cornice, vale a dire come costruzione che esiste solo a beneficio dello sguardo dello spettatore, e l’inquadratura come finestra, accompagnata invece da un costante rimando a un fuoricampo, qui si opta decisamente per quest’ultima, perché l’immagine trasmessa via Zoom nasconde o rivela sempre qualcosa, in un gioco di inganni condiviso da truffati e truffatori, sempre pronti a scambiarsi di ruolo. Un altro rilevante dualismo in gioco è poi quello tra schermo come strumento che serve a mostrare – come nella sala cinematografica – e schermo inteso come protezione, con duplice riferimento ai mezzi con cui siamo costretti a comunicare durante la pandemia e agli inganni al centro della trama del film.
Non sorprende che il miglior requiem per i movimenti di contestazione degli anni Novanta e il primo riuscito esperimento di cinema realizzato in lockdown vengano dalla Turchia. Gli autori del cinema turco negli ultimi due decenni hanno prodotto opere capaci come poche altre di rappresentare e interpretare il mondo in cui viviamo; i loro lavori sembrano insomma provenire da un’ucronia in cui il paese ha trovato una collocazione geopolitica ben diversa da quella attuale, riflettendo molto la cultura e i valori della vicina “vecchia Europa”, e ben poco le tendenze autoritarie delle tante nuove “democrature” – per usare l’efficace termine coniato da Eduardo Galeano – sparse qua e là per il globo, dalle quali sarebbe lecito aspettarsi principalmente produzioni cinematografiche intrise di propaganda. Questi film ci invitano insomma a non associare immediatamente la Turchia odierna solamente a Erdoğan, ma a pensare anche a quanto hanno saputo e sanno ancora dirci il suo cinema e i suoi registi. Sia Autumn che Hey There! sono attualmente in programmazione su Mubi.
Gilles Nicoli è nato a Roma sette giorni prima che Julio Cortázar morisse a Parigi. Scrive soprattutto di libri, cinema e videogiochi.
Io non conosco il cinema turco, ma sono stato a Istanbul e ti confermo che di Turchia ce ne sono almeno due