All’incirca al trentaseiesimo minuto di Intervista, penultimo film di Fellini uscito nel 1987, il personaggio di Sergio Rubini – che in un gioco di specchi interpreta se stesso ma anche Fellini da giovane – , entra negli studi di Cinecittà e rimane incantato osservando un enorme frontale che riproduce un cielo azzurrissimo. Sospesi a diversa altezza su due piccoli ponti attaccati con le funi ai tralicci del soffitto, stanno due pittori di scena che muovono i pennelli fischiettando Biondo corsaro. “Stanno a prepara’ un firm grosso”, sottolinea l’assistente che introduce Rubini nel magico mondo del cinema.
Il film grosso Fellini lo aveva già fatto, ne aveva fatti molti e si apprestava a chiudere una carriera costellata da Palme e Leoni d’oro, Oscar, e infiniti altri premi. In Intervista, Fellini celebrava palesemente se stesso, il suo cinema, i suoi esordi, con una dichiarazione d’amore a Cinecittà, alla potenza del cinema, ai suoi attori. L’immagine dei due pittori intenti a dipingere la finzione che è il cinema ripiomba fortemente quando oggi, in sala, trentasei anni dopo Fellini, arrivano i titoli di testa de Il sol dell’avvenire, il nuovo film di Nanni Moretti. Anche qui, come in Intervista, c’è Roma, c’è la manovalanza della troupe che dirige e si fa dirigere, ci sono gli elefanti, i circensi, i cortei, i cestini e i cornetti, ci sono i nemici da riconoscere e combattere, c’è la realtà che si fa finzione e gli attori che interpretano se stessi. Non credo ci sia mai stato così tanto Fellini e così tanta voglia di comédie in un film di Moretti, intento a restituire molto più di un sorriso sulle labbra di un altro.
Il sol dell’avvenire parla di un film che Giovanni – l’uomo che ha sepolto Michele Apicella, e forse più semplicemente lo ha mandato in pensione – sta girando; si tratta di un film sovversivo (come gli ricorda divertito il Pierre di Mathieu Amalric), e sta a noi decidere se legare questo moto rivoluzionario al film che Giovanni sta girando o al film che Moretti ci sta mostrando. Sul set di Giovanni è il 1956 e si respira un clima politico rovente che vede il PCI assistere passivo all’invasione sovietica dell’Ungheria. La sezione Antonio Gramsci del Quarticciolo, guidata dal segretario un po’ ottuso di Silvio Orlando e dalla passione dei militanti tesserati fra cui la ribelle Vera (una Barbora Bobulova splendida e lucente) – pronta a sdoganare l’indisciplina di partito ventun anni dopo il celebre “È stata una serata inutile, con questi dirigenti non vinceremo mai” di Piazza Navona, invita così il circo Budavari (lo stesso Budavari che Moretti invitava a marcare con un certa veemenza in Palombella Rossa) a Roma come gesto di vicinanza. La possibilità di intraprendere un percorso autonomo rispetto al diktat sovietico arriverà dopo molti ciak, battute sbagliate, baci non richiesti, e spaccherà l’equilibrio di facciata del Partito, invocando la rottura dell’unitarismo internazionalista e la condanna dell’invasione. Ma la politica andrà a intrecciarsi con il privato di Giovanni che sembra tardare ad accorgersi delle falle che abitano il suo matrimonio con Paola, produttrice cinematografica alle prese con un film pieno di basica violenza – uno di quelli che la gente vuole, che la gente guarda.
Possiamo dirlo senza indugi, Il sol dell’avvenire non è esattamente un film. È una Sacher enorme, da mangiare in 95 minuti e preparata per gli amanti delle paranoie, delle cadute, delle boutade che Michele Apicella, Giovanni o Nanni Moretti ci hanno regalato negli ultimi quarant’anni. È un gioco simile a una matrioska, pensata e scritta – anche se forse non lo ammetterà mai – per il suo pubblico. Se è un film, lo è perché attraversa quelli precedenti, e porta lo spettatore a scovare dettagli e tic già visti altrove. Moretti riempie il girato di auto-citazioni e visioni che portano il pubblico a giocare con lui e a prendere appunti, tanti sono i momenti riconoscibili del suo vocabolario.
Si ride di gusto quindi a battute che – ben comprendo – fanno ridere solo gli accoliti della setta morettiana. Perché criticare un sabot (“Non sono scarpe serie. Se si coprono le dita non si può lasciare scoperto il calcagno”) dovrebbe scatenare questo moto comico che mi porta, assieme al signore seduto nella fila davanti, a sbottare in una sonora risata? Perché conosciamo quell’attenzione feticista, l’abbiamo fatta nostra, la custodiamo gelosamente e, nell’esatto momento in cui il suo creatore ce la ripropone con quel tono rabbioso eppure burlone, ci entusiasmiamo, ebbri di una gioia bambina che si perde nei dolci mangiati durante il rito della visione di Lola di Jacques Demy, nelle meringhe alla nocciola “tonde e gentili”, nei balletti mimati in mezzo al traffico romano, nelle canzoni italiane perfette per il training con la troupe (Nanni Moretti che canta Noemi è una cosa di cui forse non sapevamo di avere bisogno, e anche uno dei momenti più iconici del film), nelle riflessioni sull’amore di un nevrotico a cui tutti rimproverano di non saper amare. Ma come potrebbe reagire un non morettiano alla visione de Il sol dell’avvenire? Come si possono spiegare certe battute, certi silenzi spezzati, certi aggettivi, certe canzoni e certi balletti di gruppo a chi non apprezza decenni di linguaggio morettiano? Spiegare Moretti non è forse la sconfitta più triste, per noi che invecchiamo con lui e con lui siamo qualcosa di simile a una comunità, a un corpo che danza con le braccia spalancate? Quindi sì, questo è un film fatto solo per alcuni, che annoierà e non si farà capire da moltissimi altri, in una scelta radicale e politica che non sente più l’urgenza di trovarsi a suo agio con la minoranza ma desidera unicamente essere d’accordo con la propria idea di cinema.
Moretti gioca, scherza, ride, – Dio come ride bene Moretti!, penso mentre mostra i denti e muove le mani -, strabuzza quegli occhi ragazzini che non lo abbandonano mai, balla e canta, stonatissimo come al solito. Siamo di nuovo in compagnia di un Nanni verboso, cattivo, fazioso, esilarante, sfacciato, pieno di tutti quei tic che ci hanno portato ad amarlo e a citarlo durante le cene con gli amici o a odiarlo immensamente. Senza compromessi, una coerenza la sua ai limiti del testardo. Torna il Nanni con la fobia di amare ma che non riesce a stare da solo, il Nanni che ha bisogno degli altri ma poi sono gli altri a fargli capire che in realtà lui si serve di loro. Moretti fa le pulci alle storture della nostra società, iper violenta, da piattaforma, e fa le pulci al vecchio Partito Comunista, chiuso nella rigida e bigotta ignoranza che invade il privato e non riconosce né rispetta un amore omosessuale. Il fantasma di Pasolini è lì, ignorato, abbandonato senza ritegno dai dirigenti del PCI mentre il segretario conservatore e pavido, interpretato da un meraviglioso Silvio Orlando, osserva con disgusto le mani di due giovani militanti sfiorarsi. Perché il partito interroga e sviscera il privato, la fedeltà o meno alla linea, con questionari a raffica che fanno riflettere sul peso da dare a una tessera, un pezzo di sé che divieni anche di altri.
Il sol dell’avvenire è la quintessenza di Moretti, è un’esperienza che solo chi conosce e ama la filmografia morettiana può comprendere a pieno, e si badi bene, non vi è niente di snob o filosoficamente complesso in questo. È semplicemente una questione di dna cinematografico, una cosa che si acquisisce negli anni, con le attese tra un film e l’altro, con la lettura delle interviste rilasciate per grazia di Dio. Potrebbe essere tutta una grande, divertita e grottesca provocazione di un Moretti infastidito dalle pesanti critiche mosse al precedente Tre Piani, bistrattato un po’ ovunque, un film a cui si dava la colpa di non essere per l’appunto morettiano. “Dov’è Nanni? Chi lo ha rapito” il sottotesto ad alcune recensioni negative. E oggi Moretti sembra dirci, “Volevate Moretti? Eccolo, tutto Moretti minuto per minuto” tornando a farsi gioco di quella famosa stroncatura firmata Dino Risi che gli chiedeva di scansarsi. L’onnipresenza di Moretti ne Il sol dell’avvenire è funzionale e imprescindibile: tutto ruota attorno al suo corpo alto, alla sua voce dritta e monocorde, alle pause interrotte dalle sue stesse subordinate, tutto ruota attorno ai minuti in cui scompare e lo spettatore ne avverte subito la mancanza.
I dialoghi dei personaggi che stanno girando il film-nel-film, così come quelli dei familiari di Giovanni, aspettano sempre il ciak della sua inton-azione!. Moretti fa Moretti – sadico con il trapezista che resta in sospeso, sfrontato con il giovane regista di Orchi, remissivo e onestissimo con la figlia a cui confessa di essere dipendente da antidepressivi e sonniferi da ben dieci anni – e non c’è cosa più centrata e lucida che Moretti potesse fare, dopo il mezzo disastro di Tre piani. Moretti scrive un film sull’uomo che di mestiere fa il regista anche quando recita da attore. L’arte e la vita si confondono e mostrano così un’opera complessa, metanarrativa, stratificata come una baklava. Perché no profetica: come già era accaduto con le dimissioni del Papa, Moretti sembra anticipare, attraverso le immagini dei carri armati sovietici in Ungheria quella che è stata l’invasione russa dell’Ucraina, e come se non bastasse, si diverte a farci sobbalzare citando un orso in fuga in Trentino e l’urgenza che tutti avvertono di doverne parlare – cosa che ci rende impossibile non pensare alle attuali vicende dell’orsa JJ4.
Si riflette sul cinema, sulla morale e sull’etica dell’estetica. È un film sul senso di divisione, ricercato e imposto, sia questa politica, ideologica o personale. Moretti indaga attraverso le crepe che stanno lacerando Giovanni, Paola, il partito, il set di un film non suo. Nel momento in cui decide, non resistendo a un impulso che ci riporta ancora una volta a voler bene a un uomo tendenzialmente insopportabile e inadeguato, di interrompere le riprese della scena finale – nella banalità amorale di un’esecuzione – del film violento prodotto dalla moglie e di tenere letteralmente in ostaggio l’intera troupe, cita Non uccidere-Breve film sull’uccidere di Kieslowski (peraltro disponibile su MUBI, qualora voleste rivedere quella scena lunga sette minuti) e nel momento in cui Moretti racconta i film degli altri (in questa occasione lo fa anche per La caccia di Arthur Penn, “un film bellissimo” di cui mima la caduta di un Marlon Brando “gonfio, massacrato di botte”), realizzo che sostanzialmente amo il suo cinema per l’amore viscerale che lui stesso ha nei confronti del cinema degli altri. Moretti è uno che continua a guardare tanti film, vecchissimi, nuovi, li studia, li esamina chirurgicamente e se li racconta a voce alta per capirli meglio. Ecco, è in quei momenti che alcune cadute di stile (il fastidioso ingresso di Renzo Piano, Chiara Valerio, Corrado Augias che ricorda il cameo di Marshall McLuhan in Io e Annie), alcune nostalgie passatiste un po’ forzate (le etichette dell’acqua sembrano fare il verso ai cetriolini Spreewald di Goodbye, Lenin), scompaiono e Nanni ci ricorda, prendendosi in giro, che “nella vita due o tre principi bisogna pur averli”. Lui li ha, noi come stiamo messi? Moretti è autoreferenziale come non mai eppure anche profondamente autocritico in quella che è a tutti gli effetti una grande commedia umana dall’ipertesto denso e appassionato.
Se in Intervista era la televisione a irrompere senza rispetto nel mondo del cinema, a cannibalizzarlo tanto da piegare il duo sacro Mastroianni-Masina a un prestarsi per orrendo spot pubblicitario, ne Il sol dell’avvenire è Netflix il nemico che detta nuove regole e spazza via i tempi e gli spazi del cinematografo. Il mondo stava cambiando nel 1987 e Fellini se ne era accorto, e il suo “Non si interrompe un’emozione!” suona quasi fratello del morettiano dissenso nei confronti delle scene brutte che “sono brutte, non si fanno e basta”.
Moretti/Giovanni è faticoso sì, e ingombrante, è l’elefante più grosso nella stanza, ha un carattere terribile (“No, è delizioooso!”, ribatte lui in una delle scene più divertenti del film), eppure esattamente come Paola, la moglie che va di nascosto dallo psicologo, non riusciamo a lasciarlo. L’eccellente nevrotico sembra guardarsi allo specchio e realizzare con lucidità che è ancora fatto male, come si ripeteva in Ecce bombo, placidamente seduto su una panchina a Piazza dei Quiriti, “Sono fatto male, non do nulla alle persone, mi disprezzo, come sono fatto male! Come sono fatto male!”. Moretti nasce Moretti, e anche dopo aver invocato l’aiuto di sua madre esattamente come fanno i bambini, non può che morire tale. E a noi, tutto sommato, va benissimo così, provando un languido disagio che deriva dai nostri tentativi di essere meno nevrotici, meno faticosi, di imparare ad amare meglio.
Alle volte si ha la sensazione che Giovanni, e quindi Nanni, sembri chiedersi “dove ho sbagliato?” ripercorrendo la propria storia, personale e cinematografica, e quella della sinistra. Forse per la prima volta sembra anche riuscire a trovare una risposta che guarda con speranza al futuro, un cambiamento individuale e collettivo, che ripensa e riscrive la Storia, modificando le scelte degli altri (in questo di Togliatti che dal non meritarsi un primo piano finisce per sfilare nel trionfante finale) facendoci vivere un’utopia. Il cinema ha spesso descritto la Storia, ma oggi si tratta di cambiarla: Moretti vi riesce perché semplicemente prova a immaginarne una più bella. Ed è in quel momento che mi ritrovo con gli occhi lucidi, e il respiro dei presenti in sala sembra bloccarsi. L’ucronia che spesso abbraccia il cinema – penso a Bellocchio e al finale di Buongiorno, notte, tenero e al tempo stesso lacerante, con Aldo Moro che abbandona sulle proprie gambe il covo delle BR – qui permette a una storia che doveva finire con un cappio al collo di Silvio Orlando – deluso e triste, lui che da tutta la vita si era preparato a girare la scena di un suicidio – di approdare a un lieto e gioioso momento corale, in cui il sogno d’amore di Vera riesce a prevalere sull’ideale partitico e sulla concezione di morte suggerita da Giovanni. A Moretti il disincanto dell’età fa davvero benissimo.
Chissà dov’è, qual è, anzi chissà se esiste davvero “l’avvenire radioso” tradotto dagli amici francesi – che giustamente hanno tributato a Moretti una delle più belle locandine degli ultimi vent’anni, cogliendo il tono comico, il potere evocativo e simbolico di un grande “aggiornamento” elettrico che il progetto grafico italiano ignora completamente. Quel finale corale, comunardo e commovente, apre al dubbio circa la natura testamentaria di questo lavoro. Mi auguro non accada ma se così fosse, con gli occhi bagnati e il fazzoletto rosso al collo, saluteremo a nostra volta con la mano e il cuore un po’ rotto, quel magnifico corteo della vita che sono i suoi film. Sempre cantando e ballando, mentre gira la testa ma è tutto bellissimo.

Un articolo bellissimo che fa venire voglia di tornare a vederlo una seconda volta, e una terza ancora… Grazie!
Io lo farò senz’altro perché la prima volta ho rispettato lo spirito malinconico e crepuscolare suggerito dalla locandina italiana, invece la seconda volta lo vedrò con l’ispirazione radiosa della versione francese. Oltre il due.
Ecco. piangevo al cinema e piango davanti a questa recensione che più mia di così non potrebbe essere. il film già avevo deciso di rivederlo, perché troppe cose mi sembravano essermi sfuggite ad una prima visione. ma mi sono scoperta più francese che italiana, morettianamente parlando, perché io sono uscita dalla sala con gli occhi lucenti, non solo per le lacrime di commozione, ma soprattutto di gioia. E, sì, a Nanni la maturità, che non è solo disincanto ma anche serenità conquistata, fa proprio bene. E anche a noi, cresciuti in qualche modo con e come lui. ❤️
NANNI MORETTI… CI ACCOMPAGNA A NOI DEGLI. ANNI 70..DA 40ANNI..QUANDO VEDO I FILM DI NANNI RIVEDO.. TUTTE LE SENSAZIONI VISSUTE.. IN QUEGLI ANNI..É UN REGISTA KE TI DICE VEDI.. IN QUEL PERIODO.. CI SI COMPORTAVA COSÌ E TU TI CI RIVEDI.. AL 10O/100 GRAZIE.. NANNI MENO MALE. CHE ESISTI…