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di Federica De Paolis

È la storia nota – ma di cui molti forse non conoscono i dettagli – dell’inquietante morte di Stefano Cucchi. L’arco narrativo è quello di una settimana. Dal giorno dell’arresto al giorno del decesso. Sette giorni, in cui il ragazzo viene portato in carcere con venti grammi di Hashish e due di cocaina: è un ex tossicodipendente uscito dalla comunità di San Patrignano.

Alla caserma dei carabinieri Cucchi, non è preoccupato mentre il maresciallo lo interroga, reagisce solo quando gli dicono che andranno a casa, per una perquisizione. Il suo unico pensiero sembra quello di non addolorare la famiglia. La visita nel cuore nella notte, nell’appartamento dei genitori, non porterà a nulla. I carabinieri escono dalla casa rassicurando la madre, probabilmente l’indomani lo rilasceranno. Stefano, oscilla tra sfrontatezza e obbedienza. Sfida il minimo sindacale le forze dell’ordine, si leva le mutande al secondo sollecito, non guarda nessuno negli occhi.

Al rientro in caserma i tre dell’arma lo spingono in una stanza, la porta si chiude e la macchina da presa resta trenta secondi fissa sul corridoio. Non assistiamo al pestaggio. Il regista, sceglie di non immaginare: si attiene ai fatti. Gli hanno rotto due vertebre e fracassato la faccia, le ecchimosi riportate sul volto invece di assorbirsi si aprono e si scuriscono ogni giorno di più, assieme al dolore dilaniante che iniziamo a provare; Stefano rifiuta le cure, non denuncia l’aggressione da parte dei carabinieri, si chiude in un silenzio ottuso e muto, non riesce più a urinare, non mangia, non beve: fuma solo qualche sigaretta e chiede ossessivamente del suo avvocato.

Un avvocato che non arriva mai, sollecitato anche dalla famiglia: madre, padre e sorella. Una famiglia amorevole ma anche stanca (quante ne hanno viste con Stefano) preoccupata ma non disperata. Una carrellata di medici e infermiere – che alternano gentilezza a disinteresse, antidolorifici a rimproveri. Una manciata di giorni, nei quali le porte del carcere non si aprono a un padre e una madre, che non hanno notizie, che chiamano, vanno, risuonano e si sentono respingere con una scusa sempre diversa: ci vuole il permesso del tribunale, l’assenso del giudice.

La farraginosa macchina burocratica non lascia scampo assieme a un’indifferenza corale e obbrobriosa, l’epilogo è noto: Stefano muore accucciato nel suo lettino come un cane randagio. Alessio Cremonini, ha costruito un film essenziale e perfetto, un occhio che ricorda quello preciso e ascetico dei fratelli Dardenne, spartisce la grammatica della denuncia con precisione: non indugia, non inventa e non ricama. Il ritratto di Cucchi non è quello del bravo ragazzo remissivo e paziente, anzi: è un animo contradditorio, che s’isola nel suo letto e volta le spalle all’indifferenza. Magistrali i dialoghi come gli interpreti. Borghi, in stato di grazia: la luce della vita si spegne nei suoi occhi giorno dopo giorno dissolvendosi in uno sguardo vuoto e abbacinante, il corpo magro e verticale che si staglia sulla TAC come Cristo sulla croce; la voce piccola e innocua come l’originale, che sentiamo alla fine. «Allora… io mi dichiaro innocente per quanto riguarda lo spaccio… e colpevole per quanto riguarda la detenzione. Per uso personale»

Bravissimo Max Tortora, nel ruolo del padre, stanco, dolente e consapevole. Milvia Marigliano (la madre); Jasmine Trinca (identica a Ilaria Cucchi); assieme a una rassegna di ruoli minori: infermiere, carabinieri, poliziotti, dottori tutti meravigliosamente in parte. Un film che smuove nello spettatore un dolore insostenibile, assieme a una paura immensa e nera, che ha la faccia mostruosa di questa nostra Italia.

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1 commento

  1. Un film di grande tristezza.. Sicuramente da vedere anche se ancora non ho avuto la possibilità di farlo. Grazie dell’intensa descrizione

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