
di Lorenzo Vargas
A prima vista DUNE di Denis Villeneuve e The Franch Dispatch sono due film profondamente diversi l’uno dall’altro. Avrebbero giusto in comune il genere fantascientifico (in French Dispatch c’è una scena in cui uno scrittore viene pagato), se non fosse che nei loro pregi e difetti, genialità registiche ed escamotage narrativi sono entrambi la mood board di qualcos’altro.
In campo di design, una mood board è un collage di immagini volto a comunicare un’idea generale, un sentimento: un mood. Come strumento va molto forte su determinati social, per esempio Tumblr, che ne ha fatto una forma d’arte (sempre che di arte su Tumblr si possa parlare) o Pinterest, la cui struttura ne rispecchia il concetto.
The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun (vincitore del premio Wertmüller per il miglior titolo di tre righe) è un omaggio metaletterario a un determinato tipo di esotismo statunitense e a quell’arcadia felix di giornalismo d’inchiesta a opera di grandi scrittori, che ho il sospetto sia uno splendido esempio di sindrome del sopravvissuto.
Per chi fosse vissuto sotto una pietra nell’ultimo paio d’anni, invece, DUNE è il terzo tentativo di trasporre su schermo il classico della letteratura di Frank Herbert. David Lynch (già non troppo convinto in partenza) “fallisce” nell’84 perché, come spesso accade, la produzione non sa tenersi le mani tra le terga; segue una miniserie degli anni ’00 di cui non ci piace parlare e infine il tentativo di Villeneuve su cui sarebbe opportuno sospendere giudizio, essendone uscito giusto metà.
Dopo Blade Runner 2049 (un film di cui al massimo si può dire è che è uscito), un gruppo di executive con le facce in penombra, ha ben pensato di affidare a Villeneuve un altro mostro sacro. Dune di Herbert è un libro denso, politico, con un lavoro di worldbuilding immane alle spalle. Nelle 630 pagine di romanzo succede relativamente poco: il grosso della narrazione è costituito da spiegoni sesquipedali senza i quali l’opera si riduce a una riscrittura della vita di Maometto con contorno di vermi delle sabbie.
Villeneuve, ovviamente, non può girare otto ore di voce fuori campo. Già così il prodotto finale ne ha tipo cinquanta minuti, senza coprire nemmeno la superficie dell’argomento trattato e dubito che la situazione migliorerà con la seconda parte. C’è però modo di sospettare che il regista conosca bene il materiale di partenza, perché le immagini portate a schermo sono straordinarie. L’efficacia del lavoro estetico è innegabile, come lo era stata a suo tempo per Blade Runner, ma mancano le 3-400 pagine di spiegoni con cui Herbert davvero ci porta nello spazio. Dove il tentativo di Lynch fu tacciato di affidarsi troppo a una lettura propedeutica del libro, Villeneuve se ne rivela il vero colpevole: intere storie e presupposti latitano, lasciando allo spettatore un vago senso di magniloquenza epica e una trama a tratti inspiegabile. Il risultato, a voler essere generosi, è un artbook di due ore proiettato su schermo, non il contenuto, ma l’impressione di DUNE: il mood.
Torniamo a Wes Anderson, tanto legato all’immaginario che si è costruito in 20 anni di carriera che con l’ultimo film non si preoccupa nemmeno di inserire una trama.
The French Dispatch è la teatralizzazione dell’ultimo numero di un’omonima pubblicazione a metà tra il Newyorker e l’Internazionale, in occasione della morte dell’editore. In senso stretto, nel film non succede nulla, ma non importa. Ciò che passa è l’impronta estetica, fotografia ironica di un mondo immaginario. Gli articoli non hanno tra di loro fili conduttori e l’unica cosa che lega gli episodi è un sintetico approccio alla trasposizione del linguaggio giornalistico, con una cornice a colori, il contenuto degli articoli in bianco e nero e i virgolettati nuovamente a colori. I narratori sono tutti manifestamente inaffidabili: non sono giornalisti in senso stretto, ma la famiglia trovata di scrittori e addetti ai lavori che abita gli uffici del Dispatch. La stessa scelta dei nomi nel film ci guida verso l’interpretazione di pura estetica. La città immaginaria di Ennui-sur-Blasé (letteralmente Noia sull’Indifferenza) è contemporaneamente un piccolo, pittoresco borgo francese, uno sciatto rudere postbellico e una metropoli talmente popolata da permettersi otto morti a settimana senza fare la fine di Cabot Cove. Allo stesso modo, Liberty (Montgomery county, Kansas, pop. 98 abitanti), che esiste davvero, è sì una desolata distesa di campi di granturco, ma contiene un inspiegabile, gigantesco centro conferenze, una galleria d’arte contemporanea, collezionisti miliardari e un magnate dell’editoria tanto disgustosamente ricco da potersi permettere di mandare il figlio ad aprire una redazione stabile in Francia per un inserto domenicale.
Lo stesso French Dispatch non ha internamente senso, con i suoi abbonati in tutto il mondo, la sua tiratura improponibile, il suo team di geni letterari.
E non importa a nessuno, perché non è quello il punto. Anderson ha creato anche lui una mood board, ma non come nel risultato (voglio sperare) accidentale di Villeneuve.
I lavori di pura estetica (che possono non essere per forza mood board come questi due) non hanno nulla di male, intrinsecamente. The French Dispatch è un film delizioso e DUNE la splendida pubblicità di un profumo. Comunicare soprattutto o solo per immagini è una cifra stilistica, come può essere quella di Jim Jarmusch di indulgere in un dettagliato commento musicale alle riprese.
Il problema, come al solito, è chiedersi cosa stiamo facendo e perché. Come domanda, agli artisti viene posta poco, temo perché loro per primi non abbiano una risposta. Curiosamente è presente in French Dispatch: il personaggio di Jeffrey Wright prima rintuzza l’intervistatore, dicendo che non si chiedono certe cose, per poi fornire la prima parte della chiave di lettura del suo episodio (e forse del film).
Una certa visione della produzione artistica contemporanea vorrebbe le opere slegate dalla necessità teleologica: la morale è per gli sfigati, siamo qui a sfidare le idee (anche quelle corrette), le convenzioni letterarie, gli strumenti espressivi. Ne originano ingegnosi, funzionali meccanismi a orologeria, automi esangui che non servono a nessuno, se non a qualche addetto ai lavori che ne apprezzi la prodezza tecnica, o parallele correnti inverse, cucite su misura del pubblico, dannose nella direzione opposta. Le opere smettono di avere una vita propria e fanno solo ciò che ci si aspetta.
In questo dubbio risiede il motivo per cui, nonostante siano entrambe sostanzialmente le mood board è solo DUNE a risultare zoppo: l’approccio estetico pregna ogni componente del film di Anderson; i fatti, assurdi, contraddittori e stilizzati sono pennellate ulteriori che si aggiungono alle immagini da cartolina. DUNE, invece, ha una trama che chiede a gran voce lo spazio di una serie televisiva, ma a cui è stato concesso (suppongo dai soliti produttori con la faccia in penombra) a malapena quello asfittico di due lungometraggi. Il fine di DUNE (trasporre il lavoro di Herbert), va a sbattere col prodotto finale, una pubblicità di profumi ambientata tra Caladan e Arakis lercia di una kalokagathìa che in Herbert era calcolata e contestualizzata, mentre in Villeneuve scade in codifica spicciola.
Tristemente, la differenza di risultato può essere ricercata nella struttura produttiva: Anderson è una macchina autonoma, il film se l’è scritto, diretto, prodotto e sospetto portasse anche in giro il caffè per gli attori, mentre ho l’approssimativa certezza che il prodotto uscito in sala sia il risultato di estenuanti riunioni di produzione tra Villeneuve e una pletora di portafogli azionari con le gambe: il quesito teleologico è stato posto, ma non aveva nulla a che fare con la pellicola.
Il che è un peccato, perché la ricostruzione dell’opera era magnifica, le musiche evocative, il cast al limite della perfezione.
Mancava giusto il film.
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