“Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”
Luigi Pirandello, “Uno, nessuno e centomila”
È passato poco più di un anno da quel 16 febbraio del 2020, quando la appena insediata Presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, rilasciava un’intervista a La Repubblica: parole impegnative, risucchiate però, dopo pochi giorni, dalle notizie tutte dedicate al dramma del virus che tuttora accompagna, purtroppo, le nostre giornate. Una manciata di mesi che appaiono, ora, quasi di un’altra era: nel frattempo, la Cartabia è diventata Ministro della Giustizia nel nuovo governo Draghi.
Quell’intervista, tuttavia, in quei pochi giorni in cui potè avere rilevanza, si distinse per un concetto che ancora adesso echeggia nella memoria: “Serve una giustizia dal volto umano”, dichiarò la allora neo-Presidente, “che deve bilanciare le esigenze di tutti. Il carcere rispecchi il volto costituzionale della pena e dia al detenuto una seconda chance”.
Il ‘volto’. ‘Umano’, per giunta. Una fisiognomica della giustizia.
Alla luce di quanto è emerso, proprio in quest’ultimo anno, sulle profonde zone d’ombra della magistratura (caso Palamara in primis), quanto suonano retoriche o veritiere quelle parole?
Perchè la Cartabia sentì l’esigenza di sottolineare ed esortare, con quella espressione, la realizzazione di qualcosa che, a ben pensarci, in una democrazia solida dovrebbe essere scontato? Evidentemente perchè questo ‘qualcosa’ non c’è. Ma che cosa, esattamente, manca? Il ‘volto’, cioè il ‘viso’, lo ‘sguardo’ della giustizia? O forse l’aggettivo ‘umano’? O, addirittura, entrambi? Se è il secondo a non essere dato, si desume che la giustizia sia, in sè, ‘dis-umana’, e che quindi solo attraverso uno ‘sforzo’ possa cambiare e divenire ‘umana’. Ma se, a non esserci, è il sostantivo ‘volto’ (dal latino ‘vultus’, sguardo), allora ciò equivale ad affermare che il sistema giustizia non sa guardare, nè farsi guardare: cioè non sa, essenzialmente, comunicare empaticamente. In tal caso, più che sembianze umane, essa dovrebbe piuttosto assumere quelle di una divinità greca, Ananke (la Necessità, il Fato), la dea senza volto, non a caso spesso associata proprio alla giustizia stessa.
Se però si vuole seguire il percorso suggerito dalla Cartabia, i nobili requisiti da quest’ultima descritti, per non essere risucchiati e neutralizzati da una retorica di facciata, possono essere elargiti concretamente solo da un animo realmente magnanimo, cioè dotato di eccezionale generosità e, appunto, ‘nobiltà’. In altri termini, è il giudice in carne ed ossa a dare corpo a parole che altrimenti, nella loro astrattezza, non avrebbero alcun riscontro con la realtà. Se il Diritto è la legge, la Giustizia è il giudice, e il giudice è corpo. E volto. O, non è.
Parafrasando in altri campi, si potrebbe affermare, ad esempio, che anche l’insegnamento o la sanità pubblica devono avere un volto umano, per bilanciare le esigenze di tutti e per rispecchiare il volto costituzionale dell’educazione e della medicina, così da dare una chance a studente e paziente.
Tuttavia, Insegnamento, Sanità e Giustizia, intesi solo come princìpi, rischiano di essere utili, effettivamente, soltanto alla retorica. Tale rovinosa eventualità si verifica se alle dichiarazioni d’intenti non corrisponde, nella pragmatica, una reale umanità empatica di quell’ insegnante, di quel medico o di quel giudice in carne ed ossa. Lo conferma, nel suo campo di competenza, la stessa Cartabia, quando lega in un tutt’uno diritto e persona fisica: “La violazione di un diritto fondamentale, foss’anche di una sola o di poche persone, ha lo stesso peso della violazione dei diritti di molti: è negazione del diritto stesso”. Ma la violazione di un diritto, non nasce forse già, in un contesto relazionale istituzionale, dalla mancanza di empatia da parte di chi detiene una posizione di potere? Anche un solo magistrato, privo di capacità comunicativa ed equilibrio psichico, può far fallire il buon funzionamento del ‘sistema’ Giustizia.
Le istituzioni che hanno a che fare con la vita delle persone, con la ricerca della verità, della conoscenza e della salute, non ammettono eccezioni: le frasi auto-assolutorie, ad esempio, di una giustizia che può sbagliare in quanto ‘umana’, non sono tollerabili all’orecchio comune. L’errore si può accettare come fatto inevitabile e persino pedagogico nella pratica quotidiana, ma non come giustificazione autoreferenziale e per giunta aprioristica. La giustizia non può autodefinirsi ‘umana’ solo quando deve assolvere i propri errori: deve decidersi se essere soltanto una macchina burocratica o anche uno spazio ‘umano’ di relazione in cui si ricerchi la verità costruendo comunicazione empatica tra i diversi ‘attori’.
Nella storia dell’Italia del dopoguerra, il ‘volto’ della giustizia si è ‘incarnato’ – per usare un’espressione di Piero Calamandrei – in figure di giudici spesso agli antipodi tra loro. Da un lato il burocrate, retaggio della cultura fascista, che non si sporca le mani con la realtà, che non incontra le persone ma si interfaccia solo con le carte, custode della censura e del potere istituzionale, chiuso nella difesa della tradizione o ingabbiato in teoremi giudiziari spesso infondati o insostenibili: sotto di lui cadranno intellettuali come Pier Paolo Pasolini (la sua vita fu risucchiata in un labirinto giudiziario senza soluzione di continuità, persino post mortem) e Aldo Braibanti, o personaggi dello spettacolo come Enzo Tortora e Lelio Luttazzi, riconosciuti innocenti dopo calvari giudiziari e detentivi.
Dal lato opposto, troviamo l’eroe che paga con la vita il proprio attaccamento al dovere (una triste conta se ne registra dagli anni ’70 in poi tra attacchi terroristici e mafiosi), o l’anticonformista che viene punito dallo stesso potere che rappresenta, per aver magari incarnato il proprio ruolo, per citare ancora Calamandrei, cercando “di introdurre nelle formule spietate delle leggi la comprensione umana della ragione illuminata dalla pietà”: se tra i primi emergono nella nostra memoria collettiva, di sicuro ancora vividamente, le figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, si perdono invece nell’oblio le sagome di giudici che hanno tentato, a loro modo, di dare un volto umano al diritto ma che, proprio per questo, sono stati puniti. Tra questi ultimi, si staglia Dante Troisi, autore, nel 1955, di quel “Diario di un giudice” che gli procurò un’accusa, da parte dell’avvocato (nonché deputato fascista) Titta Madia, di diffamazione della magistratura, avallata ufficialmente dall’allora Ministro della Giustizia Aldo Moro e terminata con una condanna di censura, primo di vari provvedimenti disciplinari che, infine, spinsero lo stesso Troisi a dimettersi dal suo ruolo nel 1974. Lo “scomodo” togato uscì quindi volontariamente di scena proprio nello stesso decennio in cui, paradossalmente, i giudici, forse per la prima volta, osavano scendere dal proprio isolato arroccamento per storicizzarsi ed entrare così nel tessuto vivo della società, come dimostrato, ad esempio, dagli aderenti a Magistratura Democratica. Anche questi ultimi tuttavia conobbero, in un clima iperconflittuale, l’ostracismo dell’epurazione e dei provvedimenti disciplinari, nonostante le coraggiose prese di posizione di autorità dell’epoca come il Presidente della Corte Costituzionale, Francesco Paolo Bonifacio, che non si stancava mai di rimarcare il carattere antifascista della magistratura nel rispetto del dettato costituzionale (argomento, quest’ultimo, oggi purtroppo archiviato nel museo della storia giudiziaria italiana).
In mezzo a questi estremi, sussistono tanti passaggi contraddittori e traumatici, spesso lastricati di dolori ed incomprensioni reciproche tra giudici e cittadinanza: le stragi impunite, da Piazza Fontana in poi, o i casi mai risolti dal punto di vista giudiziario, come quelli, per rimanere nel decennio degli anni di piombo, di Valerio Verbano e Giorgiana Masi; o, ancora, le indagini chiuse forzatamente in modo ufficioso più che ufficiale, con motivazioni decisamente risibili e contrarie ad ogni logica: ci si riferisce qui, in particolare, al caso di Giuseppe Pinelli. Tutte queste vicende, ed altre ancora, hanno evidenziato una magistratura che troppo spesso ha abdicato al proprio ruolo di ricostruttrice di verità, delegando tale compito, nel migliore dei casi, agli storici.
Non sembri superfluo riportare a galla questi fatti che solo in apparenza appartengono ad un passato lontano: per la valenza traumatica che hanno avuto, e per il vuoto incolmabile e lo scollamento insanabile che hanno lasciato nel rapporto tra la giustizia e il resto della società, essi sono entrati nell’immaginario e nel dna civile, culturale ed emotivo della collettività italiana, accrescendo spesso, in quest’ultima, un senso di distanza e di mancanza di fiducia nei confronti del potere giudiziario.
Ne è la prova il ‘volto’ della magistratura attuale, che si svela in un sottobosco di correnti in lotta tra loro per la spartizione del potere, lontano anni luce dalla definizione auspicata da Marta Cartabia e sempre più vicino, invece, all’immagine profetica dipinta a suo tempo da Leonardo Sciascia, il quale vedeva, nell’ammantarsi del terzo potere dello Stato in una pseudo-religiosità da notabili sempre più arroccata e clientelare, una tragica rinuncia alla sua essenza necessariamente laica.
Qual è quindi, oggi, nell’Italia degli anni ’20, la fisionomia della Giustizia? E in quale relazione essa si trova con il tessuto sociale? Le traumatiche esperienze storiche sopra accennate portano a pensare che ci troviamo nel pieno di una incomunicabilità, di una profonda incomprensione reciproca, dovuta principalmente alla mancanza di una sana identità della magistratura italiana. Serviranno diverse generazioni ed estese palingenesi culturali per elaborare il lutto di questo mancato reciproco rapporto.
Per costruire un nuovo sentiero in tal senso, è necessario, a parere di chi scrive, considerare anche un elemento che non sempre viene messo in rilievo: la formazione dei funzionari dello Stato, giudici, insegnanti, medici o altro che siano. E per formazione qui non si intende quella relativa alla concreta e specifica professionalità ‘tecnica’ del ruolo (che si dà per scontata), ma quella concernente le competenze psicologiche e le caratteristiche personali. Un giudice la cui struttura di personalità non sia impostata sulla centratura verso l’altro in modo empatico ed equilibrato è destinato, già in partenza, a fare danni e a creare vuoti, ‘buchi’ comunicativi nel sistema giustizia, così come l’insegnante che non sia in grado di comprendere i bisogni di un alunno o di una classe, creerà crepe profonde in quegli studenti e nel sistema scuola nel suo complesso. Lo stesso dicasi per il medico nei confronti del paziente.
Se il magistrato come persona, difatti, è il primo a non ‘assumere un volto umano’, allora nessuna dichiarazione di intenti potrà mai rendere possibile non solo il più nobile di tali princìpi, ma persino il più elementare tra essi. Il primo tassello per l’umanizzazione di un apparato burocratico non può che passare attraverso la sensibilizzazione degli individui che lo rappresentano. In altri termini, chi sceglie una professione che implichi la responsabilità istituzionale di avere a che fare con la vita delle persone, dovrebbe essere formato psicologicamente, perché il suo lavoro ha a che fare con l’uomo: imputato, studente o paziente che sia.
Tali figure professionali, e, nella fattispecie, particolarmente quella del magistrato – che può influenzare in modo irreversibile l’esistenza dei cittadini – dovrebbero garantire la propria centratura psicologica attraverso periodici screening di personalità e percorsi psicoterapeutici formativi.
Questo concetto venne espresso mirabilmente dallo scrittore Giuseppe Berto nella presentazione al libro “Operazione Montecristo” che Lelio Luttazzi, vittima innocente di una giustizia senza volto (tantomeno umano), scrisse nel 1970 a seguito della sua ingiusta esperienza detentiva:
“A chi deve rispondere, il magistrato, se sbaglia? E’ una mia vecchia idea che, in una società bene organizzata, tutti coloro che hanno responsabilità sociali (insegnanti, medici, sacerdoti, poliziotti, magistrati) andrebbero psicoanalizzati prima di essere immessi nella professione. Una psicoanalisi addirittura discriminante, perché certe tendenze negative che fanno parte della natura di ciascuno di noi (sadismo, volontà di potenza, narcisismo, esibizionismo), alle volte, quando siano presenti in misura esuberante, ci spingono a scegliere professioni dove possano meglio soddisfarsi rimanendo al coperto”.
E, ‘al coperto’, nessun ‘volto’ sarà mai visibile.
Psicoterapeuta, docente e scrittore, nonché appassionato e cultore di musica, cinema e filosofia. Ha iniziato il viaggio nella scrittura con articoli e libri di psicologia; poi, dopo aver seminato qualche racconto breve per Feltrinelli e Giovane Holden, è saltato sui vagoni musicali, scrivendo sulle riviste “Musica e Dischi”, “Classix!” e “Classic Rock” e pubblicando, insieme ad Andrea Angeli Bufalini, il volume La Disco. Storia illustrata della discomusic (Arcana 2014). Dopo un’entrata in sala cinematografica con il saggio biografico Gian Maria Volonté. Recito dunque sono (Edizioni Clichy 2018), è ritornato sul dancefloor con La Storia della Disco Music (Hoepli 2019), scritto a quattro mani di nuovo con Andrea Angeli Bufalini. Attualmente collabora con la rivista MicroMega.
