Pubblichiamo un estratto dal capitolo iniziale del libro La saggezza delle Folle di Joe Abercrombie, uscito per Mondadori, volume conclusivo della saga L’Età della Follia, dove il fantasy grimdark si fonde con le prospettive steampunk e le rivolte economico-sociali della modernità. La traduzione è di Edoardo Rialti.

«Sai una cosa, Tunny?»
Gli occhi lievemente iniettati di sangue del caporale scivolarono verso Orso. «Vostra Maestà?»
«Debbo confessare che mi sento piuttosto soddisfatto di me stesso.» Lo stendardo del Risoluto si increspava alla brezza, il cavallo bianco

rampante e il sole dorato che scintillava, il nome di Stoffenbeck già cucito tra le famose vittorie di cui era stato testimone. Quanti Grandi Re avevano cavalcato in trionfo sotto quel pezzo di stoffa sfavillante? E ora – nonostante fosse stato inferiore di numero, deriso e ampiamente sotto- valutato – Orso si era unito ai loro ranghi. L’uomo che nei libercoli degli oppositori veniva soprannominato il Principe delle Mignotte era emerso, come una splendida farfalla da una putrida crisalide, per diventare il nuovo Casamir! La vita assume strane pieghe, certo. Soprattutto la vita dei re.

«Dovreste essere maledettamente soddisfatto di voi stesso, Vostra Maestà» esclamò il Lord Maresciallo Rucksted, e pochi uomini sapevano più di lui come sentirsi compiaciuti. «Avete sconfitto i vostri nemici fuori dal campo di battaglia, li avete sbaragliati su di esso e avete fatto prigioniero il traditore peggiore di tutti!» E lanciò un’occhiata soddisfatta alle sue spalle.

Leo dan Brock, quell’eroe che pochi giorni prima era sembrato un uomo troppo grande per il mondo intero, adesso era tenuto in un misero carrozzone con le finestre sbarrate, che avanzava sbatacchiando nel codazzo di Orso. Ma ciò che andava imprigionato di lui risultava meno massiccio di prima. La sua gamba guasta era stata sepolta sul campo di battaglia assieme alla sua reputazione rovinata.

«Avete vinto, Maestà» disse Bremer dan Gorst, per poi zittirsi e fissare accigliato le torri e i camini di Adua che si avvicinavano.

«L’ho fatto, nevvero?» Un sorriso spontaneo si insinuava sul volto di Orso, di iniziativa tutta sua. Non riusciva quasi a ricordare l’ultima volta che era successo. Il Giovane Leone, pestato a sangue dal Giovane Agnello. La divisa sembrava calzargli meglio rispetto a prima della battaglia. Si massaggiò la mascella, lasciata incolta da qualche giorno a causa di tutta quella tensione. «Dovrei farmi crescere la barba?»

Hildi spinse indietro il suo grosso berretto per valutare dubbiosamente quegli spelacchi.

«Ti riesce?»

«È vero che ho spesso fallito in passato. Ma si può dire lo stesso di molte altre cose, Hildi. Il futuro sembra un luogo del tutto diverso.»

Forse per la prima volta in vita sua era ansioso di scoprire cosa questi potesse serbare per lui – persino di affrontare quel bastardo e costringerlo a prendere le forme che desiderava –, così aveva lasciato il maresciallo Forest a rimettere in ordine la divisione del Principe Ereditario devastata dalla battaglia e aveva cavalcato verso Adua con un centinaio di uomini a cavallo. Doveva raggiungere la capitale e dare una raddrizzata alla nave dello Stato. Coi ribelli schiacciati, poteva finalmente intraprendere il grande giro dell’Unione e salutare i suoi sudditi come un vincitore regale. Poteva scoprire cosa fare per loro, come migliorare le cose. Si chiese teneramente con quale nome le folle adoranti lo avrebbero acclamato. Orso il Risoluto? Orso l’Impavido, il Muro di Pietra di Stoffenbeck?

Sedette comodo in sella, cullato dolcemente, e trasse una bella boccata dell’aria frizzante dell’autunno. Visto che una brezza da nord stava respingendo i vapori di Adua, non ebbe nemmeno bisogno di tossire.

«Finalmente capisco cosa intende la gente quando dice di sentirsi come un re.»

«Oh, io non mi preoccuperei» disse Tunny. «Sono sicuro che ti sentirai di nuovo sconcertato e impotente in men che non si dica.»

«Senza dubbio.» Orso non poté fare a meno di guardare ancora una volta verso la coda della colonna. Il Lord Governatore d’Angland ferito non era il loro unico prigioniero importante. Dietro il carro-prigione del Giovane Leone sferragliava la carrozza pesantemente sorvegliata che ne conteneva la consorte incinta. Era la mano pallida di Savine quella che si stringeva il davanzale? Al solo pensiero del suo nome, Orso trasalì. Quando l’unica donna che avesse mai amato aveva sposato un altro, e poi lo aveva tradito, si era crogiolato nel pensiero di non potersi sentire peggio. Poi aveva scoperto che era la sua sorellastra.

L’odore delle baracche disseminate fuori dalle mura di Adua non contribuì a ridurre la sua nausea improvvisa. Si era immaginato gente comune tutta intenta a sorridere, bandierine dell’Unione sventolate da bambini lentigginosi, piogge di petali profumati gettate dalle bellezze sui balconi. Aveva sempre storto il naso di fronte a tali sciocchezze patriottiche quando erano rivolte ad altri vincitori, ma non vedeva l’ora che fossero dedicate a lui. Invece, figure cenciose fissavano torve dall’ombra. Una prostituta che masticava una coscia di pollo rideva da una finestra sformata. Un mendicante davvero in pessimo stato sputò vistosamente sulla strada mentre Orso passava al trotto.

«Ci saranno sempre malcontenti, Vostra Maestà» mormorò Yoru Sulfur. «Chiedete al mio padrone. Nessuno lo ringrazia mai per i suoi crucci.»

«Mmmh.» Sebbene, a quanto Orso potesse ricordare, Bayaz era sempre stato trattato con assoluto rispetto servile. «Qual è la sua soluzione?» «Ignorarli.» Zolfo considerò impassibile gli abitanti dei bassifondi.

«Come formiche.»
«Giusto. Non lasciamo che rovinino l’atmosfera.» Ma era un po’ tardi per questo. Il vento sembrava essersi raggelato, e Orso si sentiva crescere quel familiare formicolio di preoccupazione dietro il collo.

Il carrozzone diventava ancora più buio. Le ruote sferraglianti cominciarono a rintoccare. Al di là del finestrino sbarrato, Leo vide sfilare i lastroni di pietra tagliata e capì che stavano attraversando una delle porte di Adua. Aveva sognato di entrare nella capitale alla testa di una parata trionfale. Invece eccolo arrivare chiuso in un carro-prigione che puzzava di paglia stantia, ferite e vergogna.

Il pavimento sobbalzò, causandogli una pulsazione agonizzante nel moncone della gamba, spremendogli lacrime dagli occhi irritati. Che fottuto idiota era stato. I vantaggi che aveva gettato via. Le occasioni che si era lasciato sfuggire. Le trappole in cui era caduto.

Avrebbe dovuto mandare affanculo quel vigliacco traditore di Isher nel momento in cui le sue inutili ciance avevano spinto verso la ribellione. O, meglio ancora, avrebbe fatto meglio ad andare direttamente dal padre di Savine e raccontare tutta la storia a Vecchie Grucce. Così sarebbe rimasto l’eroe più celebrato dell’Unione. Il campione che aveva battuto il Grande Lupo! Non lo scemo che aveva perso contro il Giovane Agnello.

Avrebbe dovuto ingoiare il suo orgoglio con Re Jappo. Lusingare, flirtare e fare il diplomatico, offrire Westport con una risatina, scambiare quell’inutile pezzo di territorio dell’Unione con tutto il resto e sbarcare nel Midderland con truppe styriane alle spalle.

Avrebbe dovuto portare sua madre con sé. Il pensiero di lei che lo implorava sul molo gli faceva venire voglia di strapparsi i capelli. Lei avrebbe rimesso in ordine quella baraonda sulla spiaggia di sbarco, avrebbe gettato un’occhiata limpida alle mappe e fatto fluire gli uomini verso sud, arrivando prima a Stoffenbeck e costringendo il nemico a una battaglia già persa.

Avrebbe dovuto mandare la propria risposta all’invito a cena di Orso sulla punta di una lancia, attaccare con ogni uomo disponibile prima del tramonto e spazzare via quel bastardo bugiardo sull’altura, facendo a pezzi i suoi rinforzi al loro arrivo.

Anche quando l’ala sinistra di Leo aveva fatto cilecca e l’ala destra si era sbriciolata, avrebbe comunque potuto annullare quella carica finale. Adesso almeno avrebbe avuto ancora Antaup e Jin. Avrebbe avuto ancora la sua gamba e il suo braccio. Forse Savine avrebbe saputo trovare un accordo. Era l’ex amante del re, dopo tutto. Da quanto Leo aveva visto alla propria stessa esecuzione, probabilmente persino quella attuale. Non poteva biasimarla. Gli aveva salvato la vita, no? Per quel che valeva, ormai.

Era un prigioniero. Un traditore. Uno storpio.

Il vagone aveva rallentato a un’andatura scattosa. Sentì delle voci più avanti, che cantavano, sbraitavano. I leali sudditi di re Orso, usciti ad applaudire la sua vittoria? Eppure non sembrava affatto una festa.

Il cerchio di scherma era stato la pista da ballo di Leo. Adesso patì un vero calvario solo a raddrizzare la gamba che gli restava, in modo da afferrare le sbarre della finestra con la mano buona e tirarsi su. Quando sentì la brezza fredda sul viso e strizzò gli occhi a scrutare una strada torbida di fumo industriale, il vagone si arrestò con uno scossone.

Strani dettagli lo colpirono. Persiane di negozi sfondate, porte rotte che pendevano dai cardini, rifiuti sparsi per la strada. Pensò che un mucchio di stracci all’ingresso di una porta potesse essere un vagabondo addormentato. Poi, con un timore strisciante che per un istante gli fece dimenticare il proprio dolore, cominciò a pensare che poteva trattarsi di un cadavere.

«Per i morti» sussurrò. Un magazzino era stato bruciato, le travi carbonizzate spiccavano come costole di una carcassa piluccata. Sulla facciata annerita qualcuno aveva scritto un motto in lettere alte tre piedi.

È IL MOMENTO.

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

redazione@minimaetmoralia.it

Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente

Articoli correlati