Immagine: Joan Fontcuberta. Cultura di polvere, installation view, Museo Fortuny. La mostra chiude il 10 marzo 2024.

Quando si alza il sipario sulla fotografia, nella maggior parte dei casi è il soggetto a catalizzare sguardo e pensiero. Posa, atmosfera, tecnica di ripresa, obiettivo, tempo di esposizione contribuiscono a delineare un perimetro visivo entro il quale si staglia il soggetto, qualunque esso sia. Ma cosa succede nel momento in cui l’oggetto fotografico guadagna sostanza? Qual è la sua cornice e, soprattutto, il suo destino?

Ad avventurarsi sul terreno scavato da simili interrogativi è Joan Fontcuberta (Barcellona, 1955), protagonista della mostra veneziana allestita negli ambienti al pianterreno del Museo Fortuny, un tempo studio e laboratorio del geniale Mariano Fortuny y Madrazo. Le passioni policentriche dell’illustre padrone di casa – abile sperimentatore in ambito pittorico, scenotecnico, tessile, fotografico ‒ impregnano tuttora le pareti della dimora museo, custode della ricchissima collezione di famiglia, stabilendo un legame a distanza con la pratica e l’indagine di Fontcuberta. Nelle mani dell’artista catalano la fotografia diventa infatti un organismo mutevole, da porre costantemente in discussione grazie a un approccio che affonda le radici in una intelligente – e a tratti ironica – sfida al dato di fatto.

Ne è conferma la “materia prima” da cui trae origine la mostra lagunare, riscoperta dallo stesso Fontcuberta durante la sua residenza d’artista a Roma presso l’ICCD – Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione. Potendo attingere da una delle più vaste raccolte di fotografie storiche in Italia, Fontcuberta ha scelto di accendere la luce su materiali che versano in condizioni critiche. Si tratta di oggetti fotografici il cui “corpo” è deteriorato dallo scorrere delle epoche e dall’attacco di microrganismi vivi e implacabili come muffe, microbi e funghi.

A finire sotto i riflettori sono alcune delle fotografie originali realizzate dal principe Francesco Chigi Albani della Rovere fra il 1896 e il 1943, poi confluite nel cosiddetto Fondo Chigi donato dagli eredi all’istituto romano nel 1970. Interessato a ritrarre il paesaggio circostante con piglio quasi scientifico, il nobile autore giocava con i limiti della fotografia, erodendoli a suon di fotomontaggi e salti mortali cromatici. Anche in questo caso il legame a distanza con Fontcuberta è palpabile. L’artista spagnolo sembra raccogliere il metaforico testimone dal suo predecessore, esaltando ciò che abitualmente si vuole tenere lontano dai propri occhi: gli esiti traumatici del deterioramento.

“Questo lavoro analizza l’agonia materiale della fotografia” ‒ dice Fontcuberta a Francesca Fabiani, curatrice del progetto di residenza e autrice del testo riportato nel libro d’artista che accompagna la mostra. “La fotografia è un dispositivo di memoria legato alla materia. Il suo deterioramento materiale genera una fotografia paradossalmente ‘amnesica’, senza più memoria. L’immortalità simbolica della fotografia pertanto si è rivelata falsa, anch’essa è destinata a scomparire”.  Non a caso il lavoro compiuto da Fontcuberta presso l’ICCD è parte integrante di Trauma, la ricerca condotta dall’artista nell’arco degli ultimi anni per riflettere sulla sofferenza che investe l’oggetto fotografico.

Fontcuberta non agisce sulle piccole lastre in vetro che riportano in negativo le immagini volute dal principe Chigi – prologo della mostra ‒, ma le espone, cogliendo e ingrandendo le cicatrici impresse dai decenni e dagli organismi fioriti in presenza della gelatina ai sali d’argento sul retro della lastra. L’artista si limita a isolare un frammento della composizione fotografica e a renderlo protagonista di un racconto visivo destinato a concludersi, forse, soltanto in seguito al definitivo annientamento del corpo fotografico.

Le dodici light box al centro della mostra Cultura di polvere sono prelievi da un passato che cessa di essere tale nella misura in cui la pelle fotografica che lo sigilla è riconosciuta come epidermide modificata non solo da ciò che è stato – la critica di Fontcuberta alle teorie di Roland Barthes echeggia inevitabilmente sullo sfondo ‒, ma anche da ciò che continua a essere, a riverberarsi nel presente e a muoversi verso il futuro.

Tempo, deterioramento, corpo della fotografia che si riduce in polvere, la stessa capace di offuscare il Grande Vetro di Duchamp nel celebre scatto fotografico dell’amico Man Ray datato 1920. Quella fotografia, denominata emblematicamente Élevage de poussière, innesca l’ennesimo rimando che scandisce la mostra veneziana di Fontcuberta, il cui titolo, in prima battuta, era Coltura di polvere. Dall’allevamento (élevage) di polvere alla coltura di “colonie batteriche che nel loro indaffarato agire producono polvere e detriti”, definite tali dalla curatrice Fabiani nel già menzionato libro d’artista a corredo dell’esposizione, il passo è breve e il comune denominatore è la patina di particelle leggere e implacabili in grado di rendere tangibili gli effetti di un’entità organica solo di riflesso come il tempo.

 

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Autore

atestino@minima.it

Arianna Testino si è formata tra Bologna e Venezia, laureandosi al DAMS in Storia dell’arte medievale-moderna e specializzandosi allo IUAV nel settore dell’arte contemporanea. Giornalista pubblicista, è stata caporedattrice per Artribune, dove ha lavorato per quasi un decennio. Svolge docenze nell’ambito della scrittura per il web ed è consulente nel campo editoriale. Nel 2012 ha pubblicato il saggio Michelangelo Pistoletto. L’unione di vita, parole e opera (Damocle Edizioni), nel 2016 Un regard sur l’art contemporain italien du XXIe siècle (con Marco Enrico Giacomelli) sulla rivista Ligeia, dossiers sur l’Art e nel 2023 il saggio Gli artisti che smettono (Castelvecchi Editore).

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