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Pubblichiamo un pezzo uscito su La Stampa, che ringraziamo.

Il primo sogno che la nostra letteratura ha messo in scena è il sogno di Achille. Non credo che nei tre millenni seguenti esistano prove capaci di superarlo. I motivi sono innumerevoli, ma ho l’impressione che possano essere spiegati molto semplicemente. Ossia con l’irruzione di un personaggio a cui solo recentemente è stato dato un nome: inconscio. I fatti sono celebri. Achille, dopo la morte dell’amico più amato, Patroclo, viene preso da un dolore sconvolgente che lo spinge a pensare soltanto alla vendetta. Dopo essersi rifiutato di mangiare e bere, l’eroe dalle caviglie fragili si abbandona alla ferocia, uccide Ettore, cerca di sfigurarne il corpo, quindi torna alla sua tenda e, senza lavarsi dal sangue che lo imbratta completamente e senza tagliarsi i capelli, finalmente accetta “l’odioso banchetto” e cade addormentato.

Nel sogno che vede (così si esprimevano gli antichi) Patroclo lo saluta rimproverandolo: “Tu mi hai dimenticato”. Queste sono le sue prime parole. Non sarebbe possibile interpretarle senza accettare l’idea che in Patroclo c’è Achille stesso, ovvero il suo inconscio. Tutto quel che Patroclo dice all’amico è dunque ciò che Achille sta dicendo a se stesso. Poche cose, in realtà, ma enormi. Quelle che ciascuno di noi deve dirsi quando l’enorme dolore di una morte pretende di essere affrontato.

Dai sepoltura al tuo morto, celebralo in una cerimonia funebre, poi lascialo andare. Non tornerà più da te, non potrete più parlare e abbracciarvi. Finché anche le tue ossa saranno sepolte accanto alle sue, sarete divisi. E tu devi vivere. Non dimenticare te stesso. E per non dimenticare la tua vita, guarda avanti e dimenticalo.

Sono parole durissime e tuttavia piene di vita, purtroppo spesso obliterate dalla devastante immagine dell’abbraccio mancato, l’abbraccio con cui Achille tenta di stringere Patroclo invano, trovandosi in mano solo aria o fumo, prima di svegliarsi. La durezza delle parole gira tutta intorno all’esordio del sogno: la dimenticanza, l’oblio. Nessuno di noi, infatti, vuole dimenticare il morto. Nessuno di noi si sognerebbe di esaltarne l’oblio. E in effetti non è quello che Achille dice a se stesso attraverso Patroclo. Si tratta di un oblio particolare, in effetti. Ovvero l’oblio del dolore. Achille deve mettere da parte il dolore, deve dimenticare il male che ha subito, se vuole tornare alla vita. La vendetta che è scaturita da quel dolore, infatti, non porta vita, ma solo morte.

Per capire meglio ciò che racconta il sogno di Achille, c’è la storia. E poiché sarebbe troppo semplice riferire la geniale prova letteraria immediatamente a fatti della nostra storia recente, è meglio cercare fra le vicende della storia antica, quella del popolo che Omero lo lesse, lo imparò a memoria e lo ricordò per farne un maestro.

È alla fine della guerra del Peloponneso che dobbiamo guardare. Al termine del grandioso V secolo greco, quando le due città più potenti e rappresentative si combattono per quasi trent’anni. Come sappiamo, Atene soccombe. E nell’Atene democratica in rovina, sale al potere un gruppo di dittatori che passano alla storia come i Trenta Tiranni. Sono benvoluti da Sparta e cercano di cambiare la costituzione di Atene in senso oligarchico, ma finiscono per abbandonarsi a crudeltà di ogni genere e la guerra civile che ne segue è tragica. La fine della tirannide e il ritorno al potere dei democratici, non potrebbe però chiudere davvero i conti se non si puntasse a un’amnistia che (escludendo i responsabili primi del sangue sparso fra gli oppositori democratici) riporti la pace e restituisca compattezza alla città. Questa amnistia viene stabilita con una famosissima legge morale densa di significati. Il greco è decisivo visto che il verbo è inesistente in italiano. Me mnesikakein. Potremmo tradurre: non ricordare i mali. Ovvero cercare di dimenticarli, tentare (per quanto è in noi) di abbandonarli all’oblio. Solo dimenticando i mali, infatti, è possibile evitare la vendetta che porta solo morte e tornare alla vita.

Non credo, a questo punto, che servano troppe parole per dire quello che è sotto gli occhi di tutti in questi giorni. La memoria dei mali subiti, coltivata all’eccesso, porta solo morte: vendetta e altri mali, vendetta e morte.

Del resto l’eccessiva memoria dei mali non rende giustizia neppure agli eventi che vorremmo tenere in vita. Perché il passato resti vivo in noi non servono statue né giornate della memoria. La statua uccide chi vuole commemorare. La giornata della memoria, di qualunque memoria si tratti, rende definitivamente privo di vita ciò che in effetti è ormai perduto e che si pretende di celebrare. Vitale è ciò che resta vivo in noi, ovvero l’orrore di cui sentiamo l’inumanità e che ci spinge a una profonda comprensione della legge che impone di non ripeterlo, né subendolo, né riproducendolo. Esattamente ciò che non è avvenuto con la tragedia della Shoah.

 

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Autore

matteonucci@minimaetmoralia.it

Matteo Nucci è nato a Roma nel 1970. Ha pubblicato con Ponte alle Grazie i romanzi Sono comuni le cose degli amici (2009, finalista al Premio Strega), Il toro non sbaglia mai (2011), È giusto obbedire alla notte (2017, finalista al Premio Strega), e il saggio narrativo L'abisso di Eros (2018). Con Einaudi ha pubblicato traduzione e commento del Simposio di Platone (2009) e i saggi narrativi Le lacrime degli eroi (2013), Achille e Odisseo (2020), Il grido di Pan (2023). Per HarperCollins sono usciti il romanzo Sono difficili le cose belle (2022) e il saggio narrativo Sognava i leoni. L'eroismo fragile di Ernest Hemingway (2024). I suoi racconti sono apparsi in riviste, antologie e ebook (come Mai, Ponte alle Grazie 2014), mentre i reportage di viaggio e le cronache letterarie escono su La Stampa e L'Espresso. Cura un sito di cultura taurina: www.uominietori.it

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