Pubblichiamo un pezzo uscito sul Messaggero, che ringraziamo.

Nella vasta pubblicistica sull’undici settembre 2001 non esiste nulla di simile al progetto fondamentale realizzato da Garrett M. Graff. Attingendo a migliaia di trascrizioni mai pubblicate, documenti declassificati, interviste originali e storie orali di quasi cinquecento funzionari governativi, primi soccorritori, testimoni, sopravvissuti e famigliari delle vittime, lo storico e analista politico ha assemblato criticamente le memorie sugli attacchi terroristici che hanno spostato gli assetti geopolitici del mondo. Nei racconti la paura si mischia con il coraggio, il dolore è mitigato dalla speranza che non tutto sia stato perso e impressiona l’istinto umano di reazione al caos.

Dal 2016 Graff, già docente della Georgetown University e direttore per l’Aspen Institute del programma sulla cybersecurity e tecnologia, ha intervistato centinaia di testimoni e scandagliato gli archivi statunitensi, portando alla luce la ricchezza di cinquemila storie orali, in precedenza lasciate giacere nei faldoni. La preziosa ricerca, unica nel genere, è stata pubblicata in prima edizione nel 2019 con il titolo The only plane in the sky. An oral history of 9/11 ed è divenuta bestseller nelle classifiche del New York Times e Washington Post.

 

Nelle pagine del libro, strutturato in 64 capitoli e composto da 480 storie, la memoria del trauma nazionale statunitense ha il sapore della polvere che impastava la bocca come il terrore. Nel 2001 Graff aveva vent’anni e si trovava all’università. Nel 2016 da redattore di Politico, con il quale ha vinto il prestigioso premio giornalistico National Award Magazine, ha cominciato a tessere il mosaico di ricordi dell’undici settembre con una serie di interviste a 28 persone che nelle otto ore successive agli attentati erano vicine al Presidente Bush, evacuato e tenuto a bordo dell’Air Force One.

Che cosa è rimasto impresso nelle memorie degli americani?

«La confusione, la paura e l’incertezza vissute. Non sapevamo, quando gli attacchi fossero cominciati effettivamente, quanti fossero stati ed eravamo inermi. La percezione cristallizzata del caos è la chiave per entrare nella profondità della lacerazione e delle sue conseguenze».

Il ritiro dall’Afghanistan chiude l’era plasmata dagli atti terroristici e dalla reazione?

«Siamo immersi nella realtà creata dall’11 settembre, che continua a riscrivere in molti modi la geopolitica e la nostra vita. Avvertiamo gli esiti della paura e della destabilizzazione provocata dall’azione statunitense in Iraq con l’onda lunga dell’ascesa dell’Isis, la Siria, la crisi dei rifugiati alle porte dell’Europa fino alla Brexit».

Dieci dei tredici Marines morti nell’attentato suicida nei pressi dell’aeroporto di Kabul avevano tra i venti e ventitré anni. Che cosa sa questa generazione dell’11 settembre?

«I lettori mi hanno sommerso di messaggi significativi. Ricordo le parole di una militare che nel 2001 frequentava le scuole medie. Mi ha scritto che all’epoca era troppo piccola per capire tutto. Dopo tre missioni in Afghanistan e in Iraq aveva l’urgenza di spiegare e raccontare al figlio ciò che era successo all’America, perché lo aveva lasciato per andare in guerra».

Quale sentimento trasmettono i sopravvissuti di New York?

«È emozionante e commovente soffermarsi a leggere come ogni loro piccola decisione quel giorno abbia marcato involontariamente la distanza tra vivere e morire. Penso allo chef Michael Lomonaco del ristorante Windows on the world, situato ai piani superiori della Torre Nord, che dalle 8.30 sarebbe dovuto essere in cucina».

E invece?

«Quella mattina tardò per acquistare gli occhiali e perse l’ultimo ascensore che lo avrebbe condotto alla morte, come è accaduto a decine di colleghi del locale. Non dimentico la fuga dalla sala delle conferenze del Pentagono avvolta dalle fiamme dopo l’attacco: chi evacuò attraversando l’uscita di sinistra morì, coloro che presero la strada a destra si salvarono».

La frazione di tempo che colpisce maggiormente nei racconti di quella giornata sono i 17 minuti intercorsi dalle 8.46 alle 9.03, tra il primo e il secondo schianto sulle Torri Gemelle. Che cosa emerge dalle testimonianze?

«In quello spazio temporale è svanita l’innocenza dell’America e la paura si è radicata nelle coscienze. L’impatto iniziale è stato considerato un incidente dovuto a un guasto tecnico o al malore del pilota di un piccolo velivolo. New York non si fermò. Le persone continuarono a raggiungere i posti di lavoro. Al Campidoglio di Washington e al Pentagono videro le immagini e tornarono alle riunioni di routine. Il Presidente Bush era in Florida e proseguì la visita nella scuola Emma Booker».

Quale fu l’effetto del secondo crollo?

«Gli Stati Uniti realizzarono che si trattava di terrorismo e reagirono come chi ha paura. Prima di questi attentati il Paese non esprimeva la paura nello spazio pubblico. Negli ultimi venti anni la società è stata trasformata dalle fobie e dall’angoscia non solo della minaccia di matrice islamista. La violenza interna è esplosa come testimonia l’escalation delle sparatorie di massa di questo ventennio. Si è diffusa l’idea di non essere al sicuro in nessun luogo».

Tra le storie del libro impressiona l’evacuazione marittima di Lower Manhattan. Chi è Michael Day?

«Un giovane tenente della Guardia costiera che riuscì a organizzare la messa in sicurezza di cinquecentomila persone. Un’operazione più grande degli inglesi a Dunkerque. L’appello radio fu essenziale: tutte le imbarcazioni disponibili conversero per evacuare le persone terrorizzate dall’onda di polvere e detriti che volavano ovunque. Arrivarono traghetti, pescherecci, moto d’acqua, imbarcazioni da diporto. Day racconta di aver infranto più regole quel giorno che in trent’anni di carriera».

Chi svuotò lo spazio aereo statunitense?

«Ben Sliney era al primo giorno di lavoro come direttore delle operazioni dell’Amministrazione Federale dell’Aviazione. In novanta minuti vietò il decollo di qualunque aereo e soprattutto determinò l’atterraggio di 4500 vettori che indipendentemente dalla destinazione furono costretti a rientrare nell’aeroporto più vicino. Gran parte dei protocolli furono stabiliti nell’emergenza».

La memoria dell’11/9 è separabile dalla successiva “Guerra al terrore”?

«Non credo. La storia ha varcato i confini dell’America. Il mondo si è sempre più diviso dopo i passi falsi commessi in questa lunga lotta».

L’obiettivo di un esito politico e militare differente in Afghanistan era realistico?

«Da diciotto anni la questione è sempre stata il quando e come avremmo perso. Non sono mai esistiti piani realistici per uscire bene da quel contesto. Nessuno ha mai creduto in un governo afghano centralizzato con un esercito in grado di controllare tutto il paese in un periodo di tempo ragionevole. Tuttavia non immaginavamo che sarebbero crollati in undici giorni».

La coincidenza del ventennale amplifica il senso del ritiro?

«Sì. I predecessori del Presidente Biden, incapaci di uscirne, hanno mantenuto la guerra a una bassa intensità. In politica i simboli contano, e lui ha finalizzato il ritiro a un costo alto nel periodo più emblematico».

La paura come ha cambiato la politica statunitense?

«Questa è un’eredità triste. All’inizio il Presidente Bush pose attenzione, affinché la guerra contro Al Qaida non diventasse una crociata ostile ai musulmani. Uno dei primi luoghi in cui Bush si recò fu una moschea in Virginia e insistette su questo aspetto. La distinzione non ha retto. Parte della politica statunitense ha preso una strada viziosa contro i migranti, accentuando l’islamofobia».

È possibile congiungere gli attentati del 2001 all’assalto al Campidoglio del 2021?

«Sì. La retorica del Partito Repubblicano, che ha cambiato volto con Trump, e dell’estrema destra è fiorita sulle macerie delle Torri Gemelle e sulle paure della società, accentuando il razzismo».

In che modo New York si avvicina all’anniversario?

«Il 9/11 Memorial and Museum aiuta a capirlo. È un luogo complesso e controverso, perché prova a narrare una storia irrisolta. Gli effetti del trauma devono ancora essere svelati pienamente».

 

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Autore

gabrielesantoro@minimaetmoralia.it

Gabriele Santoro è giornalista professionista dal 2010. Ha lavorato per Adnkronos, gli esteri di Rainews24 e Tv2000. Dal 2009 collabora con Il Messaggero. Scrive per il venerdì di Repubblica, Minima&moralia, Il Tascabile – Treccani e l’Osservatorio Balcani – Caucaso. È autore del saggio inchiesta «La scoperta di Cosa nostra. La svolta di Valachi, i Kennedy e il primo pool antimafia» (Chiarelettere, 2020), della guida narrativa «111 luoghi di Roma che devi proprio scoprire» (Emons, 2022) e di «Tutti i colori del rosso» (Feltrinelli, 2024)

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