Foto di Luca Guadagnini

Con “La valigia dell’autore” proviamo a creare un racconto e una mappatura della scrittura per il teatro in italia. Drammaturghe e drammaturghi italiani di questo primo quarto di XXI secolo si raccontano, riflettendo attorno al metodo, agli incontri essenziali, all’immaginario che hanno plasmato sul palcoscenico (G.G.).

Puntata n°1 – Sedici domande a Lucia Calamaro, una delle voci più innovative e amate della scrittura per il teatro, autrice di testi apprezzatissimi come “L’origine del mondo” (premio ubu) e “La vita ferma”, pubblicati da Einaudi.

Dove nasce la prima scintilla della tua scrittura teatrale, l’idea di partenza e l’incipit: in sala o sulla scrivania?

Per me il luogo più importante è la sala, perché Lucia Calamaro come tante persone che scrivono per il teatro è anche regista dei suoi spettacoli. Ci tengo a sottolineare questo aspetto, che per me è molto importante: il fatto che le parole nascono pensate anche dal teatro, dalla scena. Se poi parliamo della scintilla, dell’idea originaria: si innesca in sala o sulla scrivania? Posso rispondere che, in generale, non c’entra nulla né con la sala né con la scrivania: uno ha un dubbio, una domanda, una questione sull’umano sentire, te la porti in giro tutto il giorno, poi fai la spesa, fai il bagno, vai dal parrucchiere, litighi con tuo marito, ti occupi delle tue cose e nel mezzo di un’altra azione questa domanda che ti sei fatta due tre settimane prima, di colpo, trova una forma. Almeno questo è quello che succede a me. Di colpo la vedo. Perché io non immagino le parole, vedo la prima scena ed è poi da lì che si genera lo spettacolo. È una visione che snocciola l’oggetto. Ma non è quasi mai muta. Testo e regia sorgono insieme. Per questo poi non mi servono scenografi, costumisti, gran disegni luci… Ho bisogno che ci sia uno spazio scenico dove immaginare degli attori e quando la vedo, la scena, mi precipito ad annotarla da qualche parte, perché sono totalmente priva di memoria a lungo termine, un po’ come Dory, il personaggio di Finding Nemo, nel giro di poco dimentico ogni cosa. Quindi devo fissarla sulla pagina di un quaderno, da qualche parte, altrimenti poi l’idea non c’è più.

Di solito il primo pensiero arriva mentre penso ad altro. Per questo c’è stato un momento in cui avevo molti quaderni dove appuntavo le cose. Ora invece c’è il telefono, che riempio di note sparse. Prima scrivevo da qualche parte, usavo il computer, qualche volta mandavo un messaggio a mio marito per non perdermi un’idea. C’è da dire che poi non rileggo quasi niente. Se non anni dopo. E mi dico: ma guarda tu. Però.

Ho sempre sperato che un giorno sarebbe arrivato qualcuno a mettere a posto quaderni, file, librerie con copioni, note prese sui libri. Adesso lo so: non verrà mai nessuno a ordinare.

I pensieri si cancelleranno. Le invenzioni. Le cose giuste. Oppure questo è un appello al potenziale aiutante che è li in giro ma che non ho ancora incrociato.

Come funziona la parte di scrittura in solitaria? Dove scrivi? Quante ore al giorno? Hai una routine?

Devo fare una premessa: io divento più o meno stupida dalle 11. Insomma prima di mezzogiorno, finito tutto. Quindi scrivo solitamente di mattina presto, oppure di notte, essendo insonne come – mi pare di capire – la maggior parte delle persone. O forse tutti. (Chissà se qualcuno dorme più naturalmente, se qualcuno sa come fare vorrei che me lo dicesse). Da giovane scrivevo sdraiata a letto, perché alzarsi era faticosissimo. Oggi, invece, se non mi metto seduta non riesco.

Quindi il mio modo di scrivere abituale è seduta al computer, ho la fortuna di avere un tavolo tutto mio dal quale ogni familiare è bandito: nessuno può appoggiare, prendere, spostare, toccare alcunché. È un piccolo territorio della scrittura dove c’è il computer e tutte le cose che servono. È lì che scrivo se sto a casa; altrimenti, se sono fuori, mi metto a sedere da qualche parte, non c’è un luogo in particolare.

Come funziona la revisione dei tuoi testi? Sono influenzati dal lavoro in sala? Riscrivi scene che vengono provate?

Gli autori, quando sono lasciati a loro stessi, tendono ad essere molto prolissi. Io di solito scrivo monologhi anche di cinque o sei pagine che poi – quando li consegno alla persona per la quale li ho pensati – mi tocca ascoltare per intero. E diventano un’altra cosa. Quando scrivi tiri fuori quello che hai dentro e tutto sembra importantissimo, sei entusiasta di te stessa, dici “Che bella questa cosa!” e continui ad aggiungere. Diventi succube di te stessa. Ma poi, all’ascolto, le cose cambiano. Anche se l’attore o l’attrice che interpretano il monologo sono bravissimi, dodici pagine recitate restano dodici pagine. Occorre tagliare. Per me il banco di prova è questo, nel confronto con la mia natura dissociata di autrice prolissa che sforna pagine su pagine e di regista che misura il contenuto attraverso l’ascolto, si annoia di sé stessa, taglia.

Direi che quello che mi guida è una sensibilità musicale, il testo deve avere un ritmo e una sua musicalità, anche per questo io non metto mai musiche nei mei spettacoli. La musica, per me, sono le parole, i respiri, lo stare degli attori, quel biascicare che hanno certe volte, il modo di parlare, l’accento che usano. È una questione di ascolto. Questo però – ci tengo a precisarlo – non vuol dire che il testo venga riscritto dagli attori: le mie attrici sono le mie attrici, i miei attori sono i miei attori, sono proprio quelli e non altri, ma sono io che decido cosa si tiene e cosa va tagliato del testo. Il testo è qualcosa che gestisco io, ma senza gli interpreti non saprei come dagli forma, perché io scrivo per loro, esattamente per quelle voci e per quei corpi, non scrivo in astratto. Immagino sempre l’attore che pronuncerà le mie parole, anche se poi non dovessi riuscire a lavorare con lui o con lei per problemi di impegni e calendario. Ho bisogno di visualizzare una persona concreta e di scrivere per lei. Gli attori, per me, sono come le muse, le vecchie muse: necessari, fonte di ispirazione.

Carta o computer? Che differenza c’è per te? Il mezzo influenza la scrittura?

Purtroppo adesso siamo passati in questo strano universo della dettatura che è estremamente più veloce perché le penne, l’utilizzo della penna, oramai è raro. Ce le ho sempre appresso, le penne, ma poi quando prendo la carta in mano mi sembra di stringere la tavoletta di Ur, piena di geroglifici incomprensibili, di scrittura cuneiforme, che sono in realtà i miei appunti. Li guardo e mi dico: ma che avrò mai annotato? Non si legge quasi niente, peggio delle ricette dei medici. E finisce che mi chiedo: cosa annoto a fare i miei testi se poi la scrittura a mano è illeggibile? Anche la scrittura col computer mi prende tempo, essendo che sono anziana e un po’ impedita, il più delle volte batto sulla tastiera con due sole dita, gli indici, che rappresentano il fulcro della mia vita pratica di scrittrice.  Ho provato per un paio di anni a dettarmi le cose che mi venivano in mente, ma poi mi subentrava una tale pigrizia nel rileggermi, nel sentire l’incertezza della voce in quelle frasi in cui ricominciano i dubbi, che di quelle note vocali non ci ho mai fatto niente.

Sono quindi condannata ai due indici lentissimi.

Hai dei rituali per la tua scrittura? Scaramanzie?

C’è una dimensione essenziale: il silenzio.

Ma il silenzio assoluto non esiste, non c’è mai, è un ideale irraggiungibile. Ogni cosa che esiste, esiste per fare rumore. Anche il frigorifero ha il suo ronzio, l’interruttore della luce ha il suo piccolo scatto, ogni cosa che cambia impercettibilmente stato ha un suono. Per me trovare il silenzio – che è la condizione essenziale – è difficile. Un silenzio che va protetto anche da tutti gli altri pensieri parassiti rispetto a quello che voglio focalizzare.

Qualsiasi rumore, anche un ciao, una chiave nella toppa, una notifica, la penna che cade, mi sembrano  fastidi intollerabili, perché mi interrompono. Quando scrivo mi urtano tutti, ma proprio tutti, in modo indiscriminato, perché faccio fatica ad agganciare quello stato mentale che mi permette di buttar giù questioni a modo mio. E uno volta che l’ho agganciato, se non ci sto dentro per un paio d’ore di seguito, ricade chissà dove. Speriamo che nessuno mi interrompa oggi. Questo è il mio pensiero quando ci provo. Ma se accade, devo ricominciare con tutte le mie routine diversive di non so cosa, quel “mi alzo, mi siedo, sfoglio quel libro, quel quaderno, fisso fuori, fisso lo schermo, fisso una pellicina, la mordo via”… L’occhio vaga, vaga che è una bellezza e non cerca niente, perché non sa cosa cercare visto che la cosa da trovare è dentro.

E poi tutti interrompono: anche quando sembra che non fai niente, perché magari ti stai mettendo lo smalto e invece sei lì lì per acchiappare il tuo pensiero. È difficile che l’altro capisca che stai lavorando quando sei li che scarabocchi coccinelle sul quadernetto, con spuntoni e asinelli monchi circondati da scritte tipo “Che palle! Che arci palle!”… Come spiegare che è propedeutico? E chi te lo fa fare, soprattutto…

Insomma: scrivere non è una pratica che ti aiuti  nella socievolezza. Quello lo fa il teatro.

Gatti, figli, famiglia, amici. Che tenerezza. È povera gente quella che sta vicina a coloro che hanno la scrittura come mezzo. Si finisce per essere sempre a sproposito. Io non ci starei. Sono molto antipatica quando scrivo. Poi no.

Qual è il testo teatrale che nella tua carriera ha rappresentato il momento di svolta? E perché?

Sarà sempre Tumore, il testo che ho dedicato a quella che era la mia migliore amica che è morta a trentaquattro anni, Virginie Larre, che mi piace ricordare anche dopo tutti questi anni, perché si tratta di un lavoro di vent’anni fa. Grazie a quello spettacolo ho capito che il teatro può fare delle cose, ho capito la sua potenza simbolica, evocativa, meravigliosamente riparatrice, fondante di universi, ho capito che la vita ci lascia buchi e ferite e squarci e guai – anche cose belle però, ma quelle vanno bene così – ma ecco, dove la vita non arriva può arrivare il mondo interno, la grande potenza del creare, che è molto sottovalutata in questo Paese, ed è invece molto molto molto importante per la vita quotidiana di ogni essere umano. Quel testo ha riportato in vita per me la mia amica, che poi è una delle cose che il teatro fa, è il suo strano rapporto con i morti, con gli spettri, con i fantasmi, è una dimensione nascosta che evoca simbolo e segno. Ecco: quello è stato il testo che ha messo a fuoco questa cosa e, per questa ragione, è per me ancora il più importante.

A quale dei tuoi testi sei più affezionata? E perché?

Questa è una domanda che capisco e non capisco, perché i figli sono figli. Ci sono alcuni lavori la cui genesi è stata disastrosa, ma poi l’esito è stato inaspettatamente perfetto.

Quale dei tuoi lavori è stato il più difficile? E perché?

Parto da una premessa. A parte Riccardo Goretti, che è un po’ il mio attore di sesso maschile più emblematico, con gli attori maschi in passato non ho lavorato benissimo. Oggi la cose sono diverse, ma fino a pochi anni fa gli attori maschi non erano molto a loro agio con questa natura bossy, “comandona”,  “faccio tutto io” un po’ autoritaria che che ho. Ce l’ho soprattutto in sala prove, a dire il vero. Posso capire che sia più complicata per i miei figli o per mio marito, però in sala prove, dove ho il ruolo della regista, le cose sono diverse. Se un testo l’ho scritto, se sono io a dirigerlo, vorrai fare quel che dico io o no? In qualche caso la risposta, incredibilmente, è proprio “no”. C’è stato un caso particolarmente difficile: è stato quando stavo lavorando a Diario del tempo, un testo che di recente è diventato un libro edito da Fandango. Nel gruppo di lavoro c’era un attore, Roberto Rustioni, che verso i tre quarti del periodo di prova si sedette a un tavolino e mi disse tu non sei una drammaturga, tu non sai fare la regia, eccetera. Il senso del discorso era che non sapevo fare nulla, che secondo lui ero completamente squinternata.

La sala prove, quando non ci si intende, può essere un habitat caratterizzato da un’enorme violenza. Lo è stato in quel caso. Stavamo tutti male per un motivo o per l’altro, anche Federica Santoro, bravissima, direi geniale, ma in quel momento attraversava un periodo tremebondo. E insomma… È anche per evitare queste dinamiche che io di solito cerco di creare un’atmosfera “amichettona”, compagnona. Mi piace un teatro fatto in questo modo. Non sempre si può, ma a me piace cosi. Gli interpreti, le attrici e gli attori, sono per me le persone che mi aiutano a tirare su questo mondo immaginario. È come la costruzione di una casa: queste persone vengono lì tutti i giorni, con te, affinché tu possa edificare quel luogo che hai immaginato. Per mettere in piedi un’impresa del genere l’ambiente deve essere bello, gradevole, allegro, divertente, non può essere una tortura, qualcosa che viene inflitto. La violenza è qualcosa che non sopporto e in quel caso il processo di lavoro, o meglio la relazione, è stato violento. Grazie a Dio è un’esperienza che non si è quasi mai più ripetuta. Poi ogni tanto risuccede, ma si ha più mestiere, si tira avanti e lo spettacolo viene fuori lo stesso.

Queste poche esperienze di “non-comunella” mi hanno comunque fatto riflettere molto sul mio rapporto con gli attori, che sono un elemento importante per la mia scrittura. Ho capito che devono essere persone che mi stanno molto simpatiche, qualcuno con cui si può andare allegramente a bere una birra, a volte basta anche questo, non ci deve essere per forza una grande intimità. Ma l’allegria è essenziale, perché aiuta la cooperazione. Bisogna volersi bene, almeno a teatro, dentro la sala prove, bisogna volersi molto bene.

La tua scrittura e il tuo metodo sono cambiati nel tempo? Come?

Direi di sì. Grazie a Dio, uno qualcosa impara con la pratica, no? La pratica teatrale è una grande maestra. All’inizio si è lenti, incerti, caotici. Certe nottate. Oggi anche c’è caos, ma so che poi arrivo dove devo arrivare e quindi non mi agito. So che la forma arriverà e quindi aspetto di avere domani migliori intuizioni con quella materia fantasmatica che abita il fare teatro. Oggi sono più disciplinata, impiego meno tempo in ogni passaggio, so quando una cosa funziona e quando non funziona, evito di mettere in essere comportamenti disturbanti per la creazione. Evito cose che mi fanno perdere tempo. Questo è certamente un aspetto che è cambiato: prima non ci pensavo, ogni atteggiamento quotidiano o spontaneo era in qualche modo lecito, ora penso agli effetti che potrebbe produrre sul lavoro in prova e di conseguenza evito, evito, evito. Evito le prassi negative. Anche questa è una disciplina artistica, in qualche modo.

Per quanto riguarda la metodologia di scrittura vera e propria posso dire che l’effetto di questa maturazione mi ha portato ad avere un rapporto differente col tempo di gestazione. Ad esempio, adesso non ho solo un progetto, ne ho tre o quattro, scrivo pezzi, scene, materiali, lì metto lì, oppure li posiziono di là, faccio come dei grandi cassetti, dei grandi contenitori sparsi, a seconda degli argomenti e degli interpreti a cui sto pensando. È una conseguenza di come è congegnato il sistema produttivo, è quasi impossibile avere un progetto solo, perché se poi non si fa ti trovi senza lavoro. Si sta sempre su tre o quattro cose contemporaneamente, provando ora a piazzarne una, ora a concretizzarne un’altra.

Nel momento in cui un progetto accelera produttivamente allora può capitare che debba concentrarmi soltanto su quello. Ma può succedere che arrivo in sala prove, qualcosa non funziona, e un pezzo viene tagliato di netto, messo via, perché ti rendi conto che non è adatto a quello che stai facendo. Anche se magari ha una sua forza. E allora lo conservo, perché non è detto che non possa essere utilizzato da qualche altra parte. Non è detto che esisterà davvero un momento in cui potrai riutilizzarlo, ma non è detto nemmeno che non possa accadere, magari anche dopo molto tempo, dopo una decina d’anni. L’importante è capire se funziona per il progetto in cui lo stai utilizzando.

Cos’è per te oggi la drammaturgia? Di cosa deve occuparsi? Cosa la distingue dalla letteratura e dalla scrittura per il cinema?

Mi piacerebbe avere un opinione chiara al riguardo. Prima ce l’avevo. Quella me piena di assertività oggi mi fa tenerezza e nostalgia. Bei tempi, quando una aveva capito. Adesso, con la pratica, con le cose del mondo, le mutazioni, lo sdoganamento di quasi tutto, il tutti dappertutto sempre a guardare-leggere-fare-vivere… beh, non ce l’ho più. Mi sento confusa. Sono completamente priva di teoria programmatica. Avanzo al buio, alla cieca. Avanza l’animale che in me. E l’animale non fa teorie. Campa. 

Quali sono i testi teatrali di “maestri” che ti hanno influenzato o che hai amato di più?

Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, è stato un testo fondamentale. A diciotto anni pensi di poter vivere solo di quella roba lì, una materia violenta, l’ideale di un teatro dove la gente cade morta, sgozzata, sanguina, avverte un dolore atroce, un atroce piacere, tutto. I suoi scritti sono talmente potenti che io, verso i diciotto anni, ero convinta che quello fosse l’effetto che doveva avere ogni cosa a teatro: vedere il pubblico e gli artisti che rotolano per terra, urlano, si strappano i capelli, fanno all’amore insensatamente. Artaud è stato certamente un maestro, ma allo stesso tempo è stata una deviazione: il percorso per tornare a un’altra idea di teatro, dell’effetto che deve o non deve avere sullo spettatore, è stato lungo.

Poi c’è una signora che mi piace ricordare, che si chiama Sylvia Plath. Una poetessa morta suicida, potremmo dire che siamo sempre sempre nella linea di Artaud, allegria mai. Ma gli autori allegri non lasciano nelle creature la stessa impressione dei grandi disperati. Ecco, Sylvia Plath, grande disperata, secondo me sintetizzava molto bene una condizione femminile non all’altezza, non alla pari, cioè, di quella maschile. Ha anticipato molte questioni, scriveva negli anni Sessanta. E poi ovviamente c’è Samuel Beckett. Oddio, “ovviamente” non lo so, ma per me Beckett è una materia ineludibile a teatro. Direi che questi tre nomi, questi tre numi, sono i più importanti.

Quali sono gli spettacoli importanti della tua vita di spettatrice?

Due persone molto più solari dei precedenti, con due spettacoli molto più solari. Una è Pina Bausch. Le vidi a Buenos Aires quando avevo ventun’anni: all’epoca vivevo a Montevideo, presi il battello per arrivare fin lì. Ecco c’è anche questo aspetto “eroico” dello spettatore giovane che si mette in viaggio, che compie una piccola impresa, fa dei chilometri, prende traghetti, navi, barche, riesce in qualche modo ad accaparrarsi un biglietto, perché in quella fase della vita i biglietti costano sempre troppo, quando non hai una lira tutto è sempre “troppo”.

Io mi cercai un hotel, feci la fila perché i biglietti erano quasi esauriti e ne erano rimasti pochi. Già riuscire ad entrare fu qualcosa di epico. E poi c’erano i ballerini di Pina Bausch, la loro luce, quell’allegria, quella vita. Stiamo parlando di Pina Bausch nel pieno del suo splendore e della sua maturità, a cavallo tragli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, con un ensamble di lavoro incredibile. Tutta l’epica che circonda questi eventi dopo, nella vita d’artista, non aiuta moltissimo, perché ogni cosa sembra immensamente più bella di ciò che fai tu. Ma come esperienza di spettatrice fu davvero memorabile.

L’altro artista memorabile è stato Bob Wilson con il suo Wozzeck, che ebbi modo di vedere a Parigi, con le musiche di Tom Waits. C’era l’orchestra che suonava dal vivo, gli attori che se non ricordo male recitavano in danese, ma anche se non capivo il testo non era essenziale perché non c’era assolutamente nulla da capire con le parole, era semplicemente un’esperienza bellissima, che ha ridisegnato la mia idea di luminosità, di luce artistica. Quando hai la fortuna di entrare in contatto con un oggetto che è semplicemente bellissimo, questa esperienza ti resta fortemente impressa. E in qualche caso ti salva la vita.

Cosa non deve mai fare un’autrice o un autore teatrale?

Annoiare. Non si può annoiare il pubblico. Che noia, che noia terribile sono certe volte gli autori contemporanei, ma pure le autrici, mamma mia. Sicuramente pure io. Quando col senno di poi me ne accorgo, mi vergogno tantissimo. Non ci si può prendere così sul serio tanto da non capire che si finisce per annoiare chi ci viene a sentire. Le persone che vengono a teatro fanno uno sforzo, escono di casa e vengono a sentire me, le mie parole, quindi penso di avere un immenso dovere verso di loro. Dovrò dire qualcosa di intelligente, qualcosa di sensato, qualcosa che interessi, ma anche qualcosa che distragga, un movimento che desti l’attenzione, come si fa certe volte con i gatti, qualcosa che, insomma, non lasci la persona con la sensazione di essere da sola, con la testa sprofondata nella poltrona, anche se è in mezzo agli altri. Per la miseria, qualcosa gliela devo pure dare agli spettatori!

Quando mi accade di trovarmi di fronte a uno spettacolo dove si vede che il creatore o la creatrice non ha pensato per nulla agli spettatori – non succede sempre, ma qualche volta accade – beh, ecco lì mi arrabbio. È amorale, anti etico e, aggiungerei, cafonissimo.

Cosa non può mancare in un testo teatrale che consideri ben fatto?

È difficile dirlo. Forse ci sono due cose che ritengo essenziali, o meglio, l’incrocio di due fattori. La prima risiede nel testo, oppure nel nucleo del lavoro, perché uno spettacolo che valga la pena di vedere deve essere in qualche modo “epifanico”. Deve metterti di fronte a un qualche tipo di rivelazione, qualcosa alla quale tu non avevi pensato prima, un’esperienza che non avevi ancora fatto, qualcosa a cui da sola non eri in grado di arrivare.

E poi uno spettacolo deve darti l’idea, la sensazione visibile, che la persona che lo ha ideato ci ha messo impegno, lavoro, è stata per molto tempo appresso a un’idea. Qualcosa a cui, lei per prima, tiene. È la sensazione che, poi, tiene sveglio lo spettatore, che quando viene a teatro può avere i suoi problemi, i suoi pensieri, oppure dei bisogni corporali come essere affamato. Se lo spettatore arriva con la sesazione della fame ma, guardando lo spettacolo, se ne dimentica, vuol dire che ha davanti qualcosa che ha catturato il suo interesse.

Aggiungo una riflessione. Io, personalmente, non ce la faccio più a guardare spettacoli che mi dicono che la vita è brutta, che moriremo tutti, che era inutile nascere, che la speranza non c’è. Che la vita è uno schifo e che l’umanità fa altrattanto schifo. Mi sembra ovvio. Un pelino facile. Certo che la vita fa schifo, certo che la vita è dura. E dove risiederebbe il lavoro dell’artista nell’affermare tutto ciò? Dammi una chiave migliore per vedere le cose. Se non lo fa l’artista, che artista è? A che serve la sua arte se non è in grado di operare sulla realtà?

Si può davvero insegnare a scrivere un testo teatrale? Fino a che punto?

È una questione complessa e per affrontarla ho bisogno di partire da lontano. Ha a che vedere con un retrodiscorso che accompagna la mia visione opaca e confusisima del teatro, connessa al tema dei morti, degli spettri, dei simboli a cui facevo riferimento prima. È qualcosa che aleggia sulla crazione teatrale. Siamo reincarnazioni, siamo personaggi, voci degli altri, parole di altri. Questo pensiero, che in parte ha le sembianze del pensiero magico, o dell inconscio collettivo junghiano,  interessa anche il modo in cui si trasmette il sapere.

Per quel che mi riguarda, in termini di insegnamento, faccio con gli altri quello che faccio con me stessa: comunico degli “evita”, scoraggio dal mettere in atto comportamenti che finiscono per essere di ostacolo alla creazione. Perché ho una teoria secondo la quale il mondo, la gente, può ricervere al massimo il venti percento di te, forse il quindici. Mi rendo conto che è una teoria un po’ facilona, ma sono convinta che grosso modo sia così. È inutile dare tutto, dare il cento percento di te stesso, perché nessuno lo vuole. Nessuno vuole il tuo cento per cento, è meglio se lo tieni per te, è una cosa da gabinetto, impudica. È molto meglio dare subito il venti percento che può arrivare, quello buono, la bella copia di te, il tuo distillato. Nella scrittura è sempre fondamentale togliere. Questo non è ricevibile, questo non lo vogliamo sapere, questo non ce lo dire. Il mio insegnamento, dunque, si limita al consiglio di cercare una voce più chiara, all’esortazione a togliersi un po’ di mezzo.

D’altronde, se rifletto al modo in cui io ho appreso quelli che oggi sono i miei riferimenti, i miei strumenti di lavoro, devo riconoscere che non c’è stata alcuna forma strutturata ma totale casualità. Si tratta di un’avventura bellissima e sdraiata: l’avventura della lettrice. Ho iniziato a leggere quando ero ancora molto piccola e posso dire di aver avuto diecimila maestre e maestri. Ogni cosa che ho letto è mio maestro. E si tratta di un’avventura solitaria, privata, intima, silenziosa. Anche perché ciò che accade nella testa non sempre è oggettivabile. È solo più tardi che ti rendi conto che un libro, un autrice, un oggetto letterario ha dato forma al modo in cui componi le tue cose.

Non è qualcosa che apprendi. Io non ho mai frequentato corsi di scrittura creativa; l’unico apprendimento strutturato che riguarda la scrittura a cui ho preso parte sono i temi sui banchi di scuola. Chi è che non ha fatto un tema? Tutti scriviamo, tutti abbiamo una pratica di scrittura all’inizio del nostro percorso scolastico (mentre non tutti ballano danza classica o suonano uno strumento). La scuola pubblica, in Italia, fa sì che tutti si cimentino con la scrittura di un tema fin dalla tenera età. Da sempre abbiamo questo rapporto con la penna, che oggi magari si trasferisce agli strumenti digitali, ma è la stessa cosa. Tutti dobbiamo sottoporci a quella riflessione minima che consiste, ad esempio, nel raccontare come sono andate le vacanze. Ed è lì che ti chiedi e ora cosa scrivo, cosa dico, faccio sempre le stesse vacanze da nonna, quest’anno cosa mi posso inventare? Un dialogo con una mucca? Ecco che si attiva la fantasia. Io credo che la scuola, che magari è criticabile su tante questioni, sia uno strumento insostituibile per attivare la creatività nella scrittura. L’unico vero momento strutturato, anche se può sembrare rapsodico, perché segue l’andamento spaiato di quei temi un po’ casuali che ti assegnano le professoresse. Devi inseguire uno stato d’animo, imparare a raccontarlo. È un bacino di pratiche molto concreto. Quando cresci devi solo capire come fare a ripercorrerlo.

Se vuoi aggiungi una tua riflessione.

Davvero no… Sono dentro un vuoto di pensiero della parola. Porterà a qualcosa, lo so. È sempre andata così. Ma per ora aspetto. E faccio pensare l’immagine. Ma qui ci sono solo parole.

* * *

Questa intervista nasce da una conversazione avvenuta allo Spazio Tondelli di Riccione, nell’ambito del TTV organizzato da Riccione Teatro, nell’ottobre del 2024. La versione che pubblichiamo è stata ampliata e rielaborata appositamente per la rubrica “La valigia dell’autore”.

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Autore

grazianograziani@minimaetmoralia.it

Graziano Graziani (Roma, 1978) è scrittore e critico teatrale. Collabora con Radio 3 Rai (Fahrenheit, Tre Soldi) e Rai 5 (Memo). Caporedattore del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha collaborato con Paese Sera, Frigidaire, Il Nuovo Male, Carta e ha scritto per diverse altre testate (Opera Mundi, Lo Straniero, Diario). Ha pubblicato vari saggi di teatro e curato volumi per Editoria&Spettacolo e Titivillus. Ha pubblicato l'opera narrativa Esperia (Gaffi, 2008); una prosa teatralizzata sugli ultimi giorni di vita di Van Gogh dal titolo Il ritratto del dottor Gachet (La Camera Verde, 2009); I sonetti der Corvaccio (La Camera Verde, 2011), una Spoon River in 108 sonetti romaneschi; i reportage narrativi sulla micronazioni Stati d'eccezione. Cosa sono le micronazioni? (Edizioni dell'Asino, Roma, 2012). Cura un blog intitolato anch'esso Stati d'Eccezione.

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