
A seguito delle foto scattate durante la Guerra Civile Americana, Mathew Brady, rispose alle critiche rivolte alle sue fotografie di guerra, ritenute brutali e violente, che “La macchina fotografica è l’occhio della storia”.
La fotografia in quegli anni, nella seconda metà dell’800, era utilizzata per lo più per ritratti, quello dello studio Brady fu tra i primi, se non il primo, reportage di guerra mai realizzato. Ma ritenere la fotografia il risultato dello sguardo dell’occhio della storia, aveva allora, forse più che adesso, molte implicazioni che hanno segnato negli anni successivi, il modo di intendere la fotografia stessa.
La fotografia come documento ha implicato a lungo un rapporto diretto tra la realtà e la possibilità di rappresentarla, possibilità che ovviamente sarebbe risultata artefatta nel momento in cui la rappresentazione della realtà fosse diventata più artistica del dovuto.
Il rapporto tra la realtà e lo scatto, ancora oggi, è oggetto di studio, ad esempio il filosofo americano Kendall L. Walton, scrive:
“Cos’è il realismo fotografico? La trasparenza non è tutta la storia. Il realismo è un concetto dalle molte facce e di esse la fotografia ne indossa più d’una. […] La capacità della fotografia contemporanea di “rivelare la realtà” è particolarmente importante. L’evidenza fotografica è spesso molto affidabile – da qui la sua utilità nei processi e nei complotti di estorsione. Tuttavia questa non è una conseguenza automatica della “meccanicità” del processo fotografico. Deriva piuttosto dal fatto che il nostro bagaglio mentale e le nostre procedure, relativi al fotografico, sono stati standardizzati in un certo modo.”
Dunque cosa avviene con la realtà? Perché è stata standardizzata in un certo modo? E cosa cambia nella percezione della realtà quando si aggiunge una evidente artisticità nello scatto? Per comprendere questo rapporto, complesso da un punto di vista filosofico, ma semplicissimo da un punto di vista percettivo, basta soffermarsi sulle foto di Francesco Faraci, fotografo siciliano che dalla tradizione fotografica della sua terra sicuramente parte per raggiungere una riconoscibilità e uno stile assolutamente personali.
Ma è sulle sue foto che bisogna soffermarsi per comprendere il discorso del rapporto tra la fotografia come documento e la fotografia come produzione artistica, evidenziando come le due cose non siano affatto in contrasto. Nelle foto di Faraci il punto di mediazione è raggiunto proprio nella misura in cui lo sguardo incontra la narrazione.
Le foto, infatti, hanno forza di per sé, ma è nell’insieme che trovano il dialogo che abbandona il documento e diventa racconto, un racconto più ampio che comprende una visione dell’umano sfaccettata, dell’essere terreno e al sacro, dal quotidiano allo straordinario.
Le persone vengono ritratte anche lì dove la povertà diventa una forma estetica d’esistenza. E tutto questo traspare dalle foto che non lasciano indifferente l’osservatore, anzi, si diventa parte di quella narrazione, noi dove siamo nel mondo che ci racconta Francesco Faraci?
Ed è forse proprio a partire da questa domanda che si inizia a lasciare la realtà, la rappresentazione per trovare l’uso del bianco e nero, un uso orientato a non solo a uno stile, ma anche alla capacità di guidare l’occhio di chi guarda attraverso ombre e luci.
Le persone ritratte, proprio a causa del bianco e nero utilizzato, sono più vicine alla realtà dalla quale provengono, ma contemporaneamente diventano personaggi della narrazione. Questo rapporto tra realtà e finzione narrativa muove lo spettatore come in un romanzo, o come il personaggio raccontato in una canzone.
La narrazione è sempre finzione, ma proprio in quanto finzione dichiarata, ammette una certa possibile verità.
Ed è a partire proprio da questo rapporto che si potrebbe chiedere a Francesco Faraci in che modo intende lui il rapporto ambivalente tra la singola fotografia e l’insieme delle sue foto, se non c’è sempre il rischio di perdere qualcosa nel momento in cui si valorizza uno dei due aspetti, o la singola foto, o solo l’insieme senza poi tornare con lo sguardo su ogni singola foto. Parafrasando Brady si potrebbe dire che la macchina fotografica, nel tuo caso, è l’occhio delle storie, al plurale, quelle minori, quelle che non finiscono nei libri di storia, ma che subiscono, spesso, la storia.
Il mio sguardo, prevalentemente, è pre-fotografico. Parte da lontano, dai miei ricordi d’infanzia, permeati da odori e sensazioni che di volta in volta tornano a bussare alla porta, chiedono che si trovi un senso a questo continuo “nostòs”. Il racconto, il mio, non è che una autobiografia. Certo, parto dalla realtà, ma è solo un frammento di essa che diventa fotografia. È una scelta, politica se vogliamo, qualche volta persino inconsapevole. É la pelle che comanda, lo stomaco, l’istinto. Si prende atto del ri-conoscersi, del ri-trovare. Qualcosa che era andato perso, un pezzo di passato, un lembo di me che poi si specchia nell’altro. Il resto della “realtà” rimane negli occhi come i pesci nelle maglie di una rete.
Procedo per accumulo, nel senso che ad ogni fotografia chiedo di essere racconto di per sé, così che poi, messe insieme, formino un unico e grande racconto, che inevitabilmente resta incompleto, ma è tuo. Rispecchia ciò che avevi da dire in quel preciso istante. Tengo sempre a mente “La Recherche” di Proust o la commedia umana di Balzac. Romanzi, che da libro a libro sono legati da un filo. Così vedo le mie fotografie, il mio modo di farle. Sei tu nel flusso delle cose del mondo. Parte di essa.
La seconda domanda che mi piacerebbe farti è proprio sull’uso del bianco e nero, la tradizione fotografica offre molti riferimenti classici sull’uso di questa tecnica, anche grandi fotografi siciliani hanno usato il bianco e nero sapientemente, quanto è difficile trovare, come sei riuscito a fare tu, una voce soggettiva così forte? In maniera più semplice, forse utile anche a chi vuole iniziare a fare foto e sta leggendo questa intervista: come si costruisce uno stile?
Non ho un’idea precisa su come si costruisca uno stile. Mi riesce difficile pensare che esista un decalogo o una ricetta. Credo che ognuno di noi abbia dentro la propria voce. Il proprio modo di dire le cose che proviene dalla nostra formazione, dalla nostra curiosità. Poi c’è il problema della sensibilità, dell’empatia. Cos’è realmente lo stile? A quali canoni corrisponde? È difficile da dire. Se esiste un modo per costruire uno stile è il lavoro costante. La capacità di non mollare alla prima storta occasione. Trovare la voce è un viaggio difficilissimo, ma che vale la pena di intraprendere per imparare a sentirsi, per scoprire cose di te che fino a ieri non sapevi di possedere. Non credo molto nell’ispirazione, ma solo in quei momenti di grazia che di tanto in tanto, mentre siamo impegnati a cercare qualcosa che non troveremo mai, ci accompagnano. Lo stile non sei altro che tu e quello che hai dentro, credo.
Tu hai lavorato spesso con musicisti, solo per citarne due, Lorenzo Jovanotti e Achille Lauro, nel momento in cui la tua fotografia incontra altre forme d’arte, come la musica appunto, ma non solo, che tipo di contaminazioni ricevi? e in che modo queste si riflettono sullo stile o sullo scatto?
Considero un privilegio potermi, di tanto tanto, contaminarmi con la musica. Di ritmo è fatto il mondo, la musica è ovunque ed è quell’eco di tamburi che spesso mi capita di inseguire. Un suono lontano che è l’energia stessa di tutte le cose. È l’energia che ricevo. Cerco, nella musica come nella fotografia, quell’elemento che spalanca le porte alle possibilità di un altrove, lo stesso che permette a te che guardi di non fermarti alla superficie, ma di entrarci dentro e spingerti a intraprendere un cammino che porti, chissà poi se davvero lo fa o è un sogno, una utopia, all’essenza di noi stessi.
In ultimo volevo chiederti qualcosa sui corpi delle persone fotografate, nonostante siano sempre in un contesto che fornisce loro, come ho provato a raccontare nell’introduzione, una forza narrativa, si percepisce nella tua fotografia un’attenzione per i corpi, da quelli dei ragazzi a quelli delle signore, a quelle degli uomini per la strada o su una spiaggia. Anche alla luce delle foto che hai realizzato l’estate scorsa, tra la prima e la seconda ondata di Covid.19, in che modo il corpo che fotografi interagisce con te e con la fotografia che poi noi vediamo?
I corpi sono la geografia antropologica della realtà umana. Nel mio caso, di una realtà umana, spesso meravigliosamente popolare, che via via si va estinguendo, sempre più assoggettata alle leggi della modernità. Fare attenzioni ai corpi mi permette, quindi, di mappare una memoria che potremmo chiamare corporale. Ci sono facce, occhi, movenze, che codificano un vissuto. Che narrano delle vite degli altri prima che venissero mercificati. Ed è lì, nelle conformazioni di quei corpi che mi perdo, nella loro osservazione che di per sé racconta una storia.
Il corpo poi è il mezzo attraverso il quale si prendono le fotografie. Non la macchina fotografica, ma il gesto, spesso definitivo e teatrale del premere il pulsante dello scatto. La fotografia è un corpo a corpo, più vicini siamo più quei corpi si contaminano, scambiano informazioni, entrano in empatia, svelano il mondo.
(Copertina: foto di Francesco Faraci)
Luca Romano è nato nel 1985 a Bari dove insegna filosofia ai bambini. Scrive di letteratura e filosofia per Huffington Post Italia, Finzioni Magazine e Logoi.ph.