Ogni volta che si legge un nuovo libro di Emmanuel Carrère si aziona una sorta di riflesso che porta naturalmente chi legge a chiedersi quale forma dell’io dello scrittore si troverà davanti. Non basta, almeno non del tutto, il genere letterario di riferimento perché, come lo scrittore ci ha abituato, tutto è sempre il contrario di tutto e non c’è mai certezza assoluta, come testimoniano bene i tormenti religiosi di Il regno, la pericolosa sovrapposizione costeggiata tra personaggio e autore in Limonov, la crisi di identità del protagonista della storia di finzione di I baffi o il racconto che muove dalla depressione di Yoga.
La straordinaria capacità di trasformazione di Carrère in un prisma capace di attirare, processare e restituire riflessi e caratteristiche di altri uomini, mescolandoli con ciò che identifica il suo essere, rende l’interrogativo sempre interessante perché in questa particolare forma di letteratura sta un intero modo di osservare, abitare e rifondere la realtà con tutti i suoi personaggi. Questo metodo di lavoro emerge bene nei lunghi e complessi ritratti costruiti nel tempo da Carrère, come quello di Jean-Claude Romand, protagonista di L’avversario, l’omicida che ha vissuto per anni una vita non sua, o di Philip K. Dick, protagonista, tra realtà e finzione, di Io sono vivo, voi siete morti, tutti uomini animati da un’impossibile focalizzazione e dall’occasione che offrono di aprire spaccati sull’identità stessa dello scrittore.
«Quando penso alla letteratura, al genere di letteratura che faccio, di una sola cosa sono fermamente convinto: è il luogo in cui non si mente» recita un breve passaggio di Yoga che risuona leggendo il nuovo libro di Carrère, V13 (pubblicato sempre da Adelphi con la traduzione di Francesco Bergamasco), la cronaca del processo ai responsabili (i complici e un sopravvissuto) degli attentati che il 13 novembre del 2015, la «mille e una notte dell’orrore» la chiama Carrère, hanno invaso la vita vera di Parigi, devastando la città, dal Bataclan ai bistrot fino allo Stade de France: qui, davvero, Carrère non mente.
Lo scrittore, che aveva già pubblicato in forme più brevi questi resoconti dal processo, ha partecipato a quasi tutte le udienze, ascoltando e incontrando le storie delle vittime, degli imputati e della corte (alla distinzione tra questi tre gruppi di personaggi risponde la divisione in capitoli del libro) e qui restituisce il materiale orale magmatico, frammentario, ripetitivo e terrificante (e che acquisisce un suo lessico, come emerge dal racconto di Carrère, perché l’Iraq non è una «discarica di jihadisti», la vicinanza alla morte per le ferite è uno stato di «morte imminente» o un volto sfigurato, irriconoscibile, viene definito come «un grande fracasso facciale») attraverso una chiave che potremmo definire “umana” o, ancora meglio, “secolare”.
Perché per quanto le azioni folli dei terroristi islamici sfuggano alla nostra possibilità di comprensione nella stessa misura in cui, probabilmente, sfugge anche la possibilità di comprendere il dolore dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime, tutto ciò che è accaduto ha una matrice umana profondissima, forse inspiegabile, ma che un lavoro come V13, e tutta la letteratura che vuole definirsi tale, deve provare a conoscere. La letteratura in questo caso ha la possibilità di corteggiare gli spazi bianchi dell’esistenza, di provare ad avvicinare il mistero di azioni e sentimenti che non appartengono all’esperienza comune e che, per questo, necessitano di trovare un proprio linguaggio per essere avvicinati.
Si tratta di un tipo di “male” che solo con grande difficoltà può essere sezionato, studiato e trasposto sulla pagina e che probabilmente necessita per la sua comprensione di un orizzonte più ampio, che non presti il fianco alla singolarità e ai distinguo. Forse anche per questo, tra le poche citazioni che punteggiano questo testo, Carrère fa riferimento a una formula della filosofa Simone Weil sulle tipologie di male e di bene, delle definizioni che si prestano bene anche a illustrare i sentimenti di chi si trova ad ascoltare la violenza e lo scempio di quelle ore e a interrogarsi su quale sia il mistero più grande di quei momenti, essere pronti a morire per uccidere o a morire per salvare: «Il male immaginario – ha scritto Weil – è romantico, romanzesco, vario; il male reale incolore… desertico, noioso. Il bene immaginario è noioso; il bene reale è sempre nuovo, meraviglioso, inebriante».
A un certo punto, mentre sfilano gli imputati, con alcuni che scelgono il silenzio e altri che parlano per cercare di lenire le pene che si stanno per spalancare davanti a loro, Carrère, immerso dentro queste deposizioni, riflette proprio sulla necessità di provare a capire: «Abbiamo dimenticato – scrive Carrère – il grande precetto di Spinoza: non deridere, non compiangere, non condannare, comprendere soltanto». Mosso da quella curiosità che segna l’intrigo di sua opera, in V13 Carrère si fa cronista e mette la sua parola al servizio della storia e della comprensione di questa, affascinato, come ammette, sia dai colpevoli che dalle vittime («Per le vittime si prova pietà, ma è dei colpevoli che si cerca di capire la personalità»), un’inclinazione facilmente comprensibile se appunto si inserisce tutta la ricerca dello scrittore dentro quello spettro di senso che pare irraggiungibile quando si parla dei motivi che hanno scatenato gli attacchi di Parigi.
I racconti delle vittime che costellano e riempiono decine di udienze sono chiaramente ricche di ripetizioni (il rumore di qualcosa che sembra un petardo e che si rivela essere un colpo di arma da fuoco, i corpi aggrovigliati al Bataclan, il senso di colpa di chi è rimasto vivo che si incarna in un volto: «il volto di qualcuno che invocava aiuto, che forse avrebbero potuto soccorrere e non hanno soccorso. O perché dovevano soccorrere qualcun altro, qualcuno che amavano, qualcuno che veniva prima. O per salvarsi la pelle, perché loro stessi venivano prima. Quelli che hanno agito così non se lo perdonano. Alcuni lo dicono, con parole strazianti»), ma quando Carrère, rispettoso, si sofferma su questi tragici aspetti ricorrenti, sembra emergere, dal nugolo di sangue e sofferenza, un’idea straordinaria di letteratura e, di conseguenza, anche la concezione più profonda, e quasi sacrale, che Carrère ha dell’arte del raccontare.
Scrive infatti Carrère che in realtà in queste storie nonostante gli eventi siano accomunati da condizioni simili non ci sono e non ci possono essere ripetizioni perché gli stessi momenti «ciascuno li ha vissuti con la sua storia, con le sue conseguenze, con i suoi morti, e li racconta adesso con le sue parole». Emerge quindi una sorta di naturale parzialità, che si trasforma però nella scrittura di Carrère in una rivendicata parzialità, condensabile nella scelta di cosa raccontare e cosa lasciare nell’ombra inseguendo però sempre «l’accento della verità».
Infatti se, come sottolinea Carrère, viviamo in un mondo post-storico dove le nostre vite e le nostre morti sono fatti individuali ed è stato smarrito il senso della collettività («soltanto in una società vedova del collettivo e della Storia siamo così singolari e così limitati a noi stessi») solo il salto di stato concesso dalla letteratura può aiutare a provare interesse per i singoli imputati di questo processo, «che restano in silenzio perché non riconoscono la nostra giustizia oppure recitano un catechismo che a noi appare demenziale», non perché non siano interessanti, aggiunge Carrère, ma perché l’interesse che prova verso di loro «non appartiene al piano individuale ma a quello della Storia», la Storia «avec sa grande hache» come scriveva Perec in un icastico gioco letterario: «Quel che m’interessa è il lungo processo storico che ha prodotto questa mutazione patologica dell’Islam. Giro, continuo a girare intorno a questa frase così sbalorditiva e così profonda uscita, del tutto inaspettatamente, dalla bocca di Salah Abdeslam: quel che non va in questo processo è che non si fa nessuno sforzo per capire i jihadisti. “È come se si leggesse soltanto l’ultimo capitolo di un libro: il libro bisognerebbe leggerlo dall’inizio”».
Quando ripensa a questa frase a Carrère torna alla mente la deposizione di un superstite del Bataclan: «Mi aspetto che quel che ci è accaduto diventi un racconto collettivo». Probabilmente allora il senso più profondo di V13, e della scelta di Carrère di partecipare alle lunghe sedute che hanno occupato interamente i suoi giorni per mesi e mesi, sta all’interno dell’orizzonte tracciato da queste due direttrici: da un lato la Storia, quella con la “S” maiuscola di cui parlava Elsa Morante, «lo scandalo che dura da diecimila anni», che lo sforzo della letteratura deve provare a leggere sin dall’inizio per capire, dall’altro invece il tentativo di edificare e scrivere questo racconto collettivo.
Si tratta ovviamente di ambizioni «smisurate» e, probabilmente, destinate a fallire, ma che cos’è la scrittura, e questo emerge anche dalle altre opere di Carrère, dal suo inseguimento continuo di personaggi inconsueti che covano le paure e i turbamenti che costellano ogni vita, se non il tentativo di accarezzare l’abisso che spalanca la storia e il suo racconto? In V13 l’animo dello scrittore si muove continuamente tra rabbia, commozione, frustrazione, sforzo di capire e rispetto, mentre la scrittura prova continuamente a mantenere la sua fermezza, il suo compito più alto, raccontare per spalancare degli altrove e andare oltre la finitezza della comprensione umana: «è per questo che siamo qui».
Matteo Moca è dottore di ricerca in italianistica e insegnante. Scrive, tra gli altri, per Il Tascabile, Il Foglio, Domani, L’indice dei libri del mese, Blow Up e il blog di Kobo. Ha pubblicato le monografie “Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett”, “Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi” e “Un’esigenza di realtà. Anna Maria Ortese e la dipendenza dal fantastico”
