Il 9 Ottobre 1963, alle ore 22, milioni di metri cubi di roccia e terra del Monte Toc franarono nell’invaso della diga del Vajont generando un’onda che distrusse in un tempo minimo – quasi sospeso –, cose, case, luoghi, mondi, e causò la morte di 1910 persone, lasciandone tante altre nel vago limbo dei dispersi.

A sessant’anni dalla tragedia, che è da allora e per sempre un vuoto di senso e un crogiolo di dolore per la memoria collettiva, e veneta in modo particolare, e bellunese in modo eminente, Antonio G. Bortoluzzi dà alle stampe, per Marsilio, Il saldatore del Vajont.

Fin dalla prima pagina è chiaro quali saranno le direttrici principali lungo le quali l’autore dipanerà la sua narrazione: da una parte, le parole testimoniali di chi a vario titolo c’era allora, parole che come sedimenti fanno roccia dura a sostegno del racconto di Bortoluzzi, della sua legenda privata; e dall’altra, appunto, l’esperienza dell’autore, ora nella misura di fatti e storie d’infanzia: amici, famiglia, luoghi, azioni, eventi; ora nel resoconto della visita fatta in questo presente chiassoso e profano, alla centrale, alla diga, alla frana, cioè ai luoghi fisici attorno ai quali gravitano ancora le forze telluriche, seppure dormienti, di quella notte.

Le due direttrici si intersecano nel piano del racconto: è seguendo la traccia della visita durata un giorno che Bortoluzzi trova modi e voce per tornare alla tragedia, in un’operazione che è ad un tempo di traduzione delle parole altrui, parole memoriali; e di distanziamento, attraverso il puntellamento del narrato con episodi della propria storia personale e con i dati crudi forniti dai numeri, che si fanno volumi, consistenze, estensioni, pesi, nomi.

Del Vajont, della porzione di Storia che il Vajont circoscrive, non è possibile creare storie. La potenza tragica e reale aggetta ancora su tutto e tutti, colonizza l’immaginario rendendolo indicibile in qualsiasi finzione narrativa, e lasciando lo spazio a una sintassi comunitaria che può essere litania, recitativo, denuncia:

In mezzo a questa distesa si comprende che il Vajont è la tragedia simbolo della modernità, tanto da diventare l’omerico canto collettivo di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato nel grande fare dell’umanità.

Piuttosto, Bortoluzzi si mette di fronte alle cose, e poi alla pagina, con un senso apparentemente ingenuo di stupore che deriva tanto dalla sarabanda delle cose accadute quanto dall’insensata conduzione umana dei propri casi.

Bortoluzzi è uno scrittore del lavoro e partecipa di un’etica del lavoro sempre più rara e che si potrebbe davvero riassumere col titolo del suo romanzo precedente, Come si fanno le cose. Nella visita alla centrale di Soverzene questo aspetto traspare palesemente. Il protagonista, saldatore alter-ego dell’autore, rimane abbacinato dalla grandiosità del progetto, vede nei lucidi metalli inalterati dal tempo la potenza del sapere umano, gioisce delle soluzioni tecniche e non può non cedere alla tentazione di ammettere che le costruzioni dell’ingegno hanno resistito alla forza prepotente e ferale che ha invece annientato luoghi e persone. Ma questo è insieme segno della tracotanza di chi si crede simile a dio, di chi sedotto dal fascino della sfida dimentica l’ortoprassi.

Perché è di questo che, in sintesi, il libro parla. Della ingiustizia somma di un dolore che viene dall’incapacità di fare le cose per bene, dalla abulia di mestieranti e decisori, ai quali va fatta risalire una colpa originaria inemendabile.

In un simile spaesamento dell’immaginario, ridotto al silenzio dalla realtà fattuale, sta anche la debolezza del libro; nell’adesione di narratore e uomo che non riesce – come accaduto nei precedenti libri di Bortoluzzi – a scartare e sublimare il dolore, arrendendosi all’affetto ammutolente che l’immensità dolente della tragedia ha sull’inventore di storie.

L’esame dovrebbe prevedere solo due cose che sappiamo fare tutti: camminare e contare, come abbiamo imparato da bambini, uno, due, tre, quattro, cinque, fino al numero delle vittime del Vajont che qui sono ricordate. Non è facile, bisogna ricominciare più volte perché ci si confonde, e si perde il conto; trecento, settecento mille, milleseicento… Serve prendere appunti, ripartire, provare a concentrarsi sulle file, sulle diverse aree. Dopo aver contato oltre le millenovecento lapidi si è come storditi, esausti. E sempre più increduli.

Parafrasando, ma non molto, Il saldatore del Vajont confessa che di fronte all’immanità non c’è modo né mondo da inventare, e quella parola che sa farsi altrove e altrimenti storia, qui cede al thauma, a un angosciato stupore che fa ricordare e contare, tradurre ed enumerare, traslare e indicare. La migliore resistenza è ancorarsi alle cose reali, ai nomi dei luoghi della tragedia, ai cognomi sulle lapidi, ai metri degli alberi, alla consistenza del cemento armato usato nella centrale, alle crepe nella diga, perfino all’elencazione salmodiante dei piatti in menù nella trattoria dove il gruppo di visitatori della centrale va a pranzo, assieme; insomma, a qualsiasi cosa capace di trattenerci nel mondo e impedire di annichilirci nella mancanza di senso che ha il male.

______________

Intervista a Antonio G. Bortoluzzi, di Alberto Trentin

La tragedia del Vajont è un momento storico di enorme importanza per la gente del luogo, ma non solo; è un punto fermo per qualsiasi orizzonte di senso e continua a gettare la sua ombra. Sono passati sessant’anni. Dal romanzo capiamo che c’è stata una causa occasionale, la visita alla centrale e alla diga e alla frana, che ti ha spinto a scriverne. Ti chiedo invece ora quale sia la causa profonda.

Qualcosa di più profondo è questo: ho trascorso tanti anni a lavorare nella zona industriale di Longarone e ho conosciuto alcuni superstiti (e i loro figli, figlie e nipoti), sono stato a contatto con il dolore, la rabbia e il profondo senso d’ingiustizia che ancora si respira in quei luoghi. Queste persone mi hanno donato i loro racconti brevi, intensi, commossi. La vista guidata mi ha dato una chiave per portarli alla luce.

Il saldatore del Vajont è un libro che definirei ibrido, la risultante di varie spinte autoriali che in fondo ti caratterizzano: il romanzo, il reportage, il diario, il memoriale. Quali riflessioni ti hanno portato a questa scelta?

A volte mi capita di dire che scrivere non è pensare, è appunto, scrivere: un gesto, un’azione, un fare che accade sulla pagina, né prima né dopo. C’è stata solo una domanda al principio: cosa posso aggiungere alla narrazione del Vajont? Non sono un ingegnere, non un geologo, non un giornalista, non un avvocato, non un superstite… ho provato a raccontare ciò che ho visto e ho sentito negli anni. Ed è stato come camminare, un passo dopo l’altro.

Guardando indietro alle tue opere precedenti mi pare di poter dire che i filoni principali di interesse e narrazione, per te, sono il come del lavoro, declinato come questione pratica e come questione etica; e il cosa del racconto, sempre in bilico tra recupero delle voci del passato e rivitalizzazione di quel passato nel condurre il presente e nell’immaginare il futuro. Come si esplicano queste tue costanti ne Il saldatore del Vajont?

A 16 anni ero in un cantiere edile, come manovale, a far la malta, e prima, come quasi tutti i miei coetanei del paese, abbiamo lavorato sui prati, nelle stalle, nel bosco: io malvolentieri (perché erano meglio i fumetti, Zorro alla tivù e più avanti i libri), però credo che quel “fare” ci abbia fatto sentire parte di un mondo, agenti di quel mondo e capaci di plasmarlo, almeno un po’. “Il saldatore” racconta come si costruisce bene una diga, che aspira al paradiso dell’energia elettrica, e intanto si concorre all’inferno della strage del 9 ottobre 1963. Il cosa del Vajont è di estrema attualità: non ci può essere una tecnica, per quanto avanzata, che non sia in relazione alla natura, a quel principio, che in sé ha il futuro, ed è capace di generarlo ogni giorno. Anche senza di noi.

Pensi che ci sia spazio in Italia per una letteratura civile? 

Per me una letteratura civile dovrebbe avere, dentro una storia, anche una domanda: cos’è giusto, cos’è sbagliato? Se l’ipotesi è questa allora ne consegue una seconda domanda: cosa possiamo fare noi? Penso che per una letteratura civile ci sia sempre spazio, perché a volte tutto il magnifico e sfavillante intrattenimento non basta. Non è che sia infernale, è che non basta.

Cos’è cambiato nel tuo sguardo sul mondo da Paesi alti a Il saldatore del Vajont? 

“Paesi alti” raccontava, attraverso le esperienze del tredicenne Tonin, un piccolo mondo rurale, in montagna, nel 1955. In qualche modo un mondo periferico, dimenticato. Scrivendo “Il saldatore”, ambientato negli stessi luoghi, e che affonda le radici negli stessi anni, ho imparato che nessun mondo, per quanto piccolo è “a sé”, al riparo, soprattutto quando nelle sue valli scorre un bene essenziale come l’acqua, perché c’è molta sete industriale, agricola, energetica.

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

atrentin@minima.it

Alberto Trentin è nato a Treviso. Ha pubblicato varie raccolte di poesia. L'ultima si intitola Gli attimi attigui (Digressioni, Udine 2022). Scrive per Minima&moralia e Finnegans. Dirige la scuola di scrittura ri-creativa Alba Pratalia con Paolo Malaguti. il suo blog Epicentri - Conversazioni sulla Letteratura è al seguente indirizzo: www.albertotrentin.it

Articoli correlati