Nella scrittura delle sue storie fantastiche, Italo Calvino sentiva che all’origine di ogni racconto ci fosse un’immagine. La memoria, ricorda nelle sue Lezioni americane, è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura. Ecco perché tra i valori da salvare inserì la visibilità, per mettere in guardia sul pericolo di perdere una facoltà umana fondamentale, “il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini”.
Sono apparizioni sulla pagina quelle allestite da Roberto Venturini con L’anno che a Roma fu due volte Natale, Sem, per porre al centro l’ispezione del reale e solcare l’assurdo del quotidiano, il ridicolo che caratterizza l’individuo. L’atteso nuovo romanzo arriva dopo il successo, per lo stesso editore, di Tutte le ragazze con una certa cultura hanno almeno un poster di un quadro di Schiele appeso in camera, valso il Premio Bagutta Opera Prima.
Quando l’esistenza si riduce a mera sopravvivenza nell’incapacità di ridefinirsi dopo un lutto, ogni cosa concorre a dare forma all’inadeguatezza: il corpo sfatto, l’accumulazione ossessiva di oggetti e alimenti in decomposizione, la casa discarica di feticci. “La sua vita era stata tutta così: piena di buchi che offendevano la bellezza di quello che era stato”. Solo il figlio Marco riesce a volte ad aprire fugaci brecce nel dolore in cui Alfreda si è trincerata dalla sera in cui il mare si portò via suo marito.
Non c’aveva ancora diciotto anni e si incontrarono allo stabilimento Campo Selva insieme ad amici in comune, e lui era bello come Belmondo, forse un po’ di meno, più come Califano, con quelle spalle larghe e la faccia strafottente piena di vita. Pure lei era bellina, Mario glielo diceva sempre. Alfreda si imbarazzò un po’ ricordandosi giovane come nella foto che aveva a casa, con i capelli nerissimi e gli occhi verdi in cui si leggeva un’intenzione di felicità ammantata di malinconia che le faceva provare tenerezza per se stessa.
La manutenzione dei ricordi assume le sembianze grottesche di una perpetua immobilità. Le pile di Tv Sorrisi e canzoni, gli oggetti accatastati privati di ogni senso, diventano il simulacro dello smarrimento e della rivendicazione di tale impenetrabilità. In una deriva simile si fa largo l’irreale. L’apatia di Alfreda cede alle fantasticherie di far ricongiungere la salma di Raimondo Vianello, sepolto al Verano, con quella di Sandra Mondaini a Lambrate perché, sostiene, “Un paese che offende la coppia simbolo dell’unione coniugale è un paese malato”. Ossessione che gli amici storici della donna finiranno per assecondare, ignari delle sciagure che ne sarebbero derivate.
La narrazione si insinua nelle pieghe di una follia composta e ordinata per tracciare il racconto della periferia di un mondo marcio, reso negli esiti di una trasfigurazione fisica. La costante analogia col paesaggio rivela l’intento di fondere il racconto della storia di un luogo con quello privato di chi si esula dal proprio tempo. La desolante Torvaianica, i rituali dei pescatori di Minturno e il culto arcaico che ne accompagna i gesti, concorrono a comporre l’universo simbolico del testo.
L’evoluzione e la deriva di tale geografia diventano metafora del modo dei personaggi di avanzare nell’esistenza, tra fasi ascendenti, abbagli di cambiamento e disillusioni nel drastico franare del presente. Lo strumento primario che permette tale approdo è l’elemento comico, che si rivela la strategia per tratteggiare un’epica sociale che cambia costantemente verso in relazione a un passato nostalgico e doloroso.
La prosa di Venturini fa propria la raffigurazione gaddiana del mondo come groviglio inestricabile reso nella sovrapposizione di lessici diversi. Pare ispirarsi alle immagini pasoliniane di passione, idillio e degrado. Si nutre del sapiente uso del comico di Cesare Zavattini e Luigi Malerba e della raffinata leggerezza di Ennio Flaiano per identificare una voce fresca e originale con cui intonare una personale litania costantemente sospesa tra dramma e farsa.
Risiede nella capacità di innervare di una sottile ironia i drammi privati e le tragedie del quotidiano l’aspetto irresistibile dei suoi protagonisti. Ognuno porta con sé i segni di una perdita: Alfreda, aggrappata strenuamente alle proprie ossessioni è preda di visioni allucinate; Marco, il volto bambino della pubblicità del dado Knorr, diventa un adulto incapace di costruire un’idea di felicità dalle macerie di un passato ingombrante; Carlo è un vecchio e solo pescatore dall’animo gentile; il transessuale Er Donna ricade nella prostituzione dopo la fine drammatica di una relazione (il suo soprannome è un omaggio dell’autore al film Amore tossico di Claudio Caligari).
Una costellazione di personaggi che descrivono le miserie umane, le becere rivendicazioni, gli istinti generati da un’idea alternativa di ordine, le esilaranti goffaggini, gli improvvisi slanci di tenerezza, le timide dichiarazioni d’amore attraverso similitudini rese nel desiderio del Lemonissimo in un caldo giorno d’estate nonostante l’alternativa del più sostanzioso Cucciolone.
Sono le scene minime a permettere al lettore di avventurarsi nella selva di simboli dell’autore, tra riferimenti alla cultura pop degli anni Ottanta e Novanta, e innumerevoli rimandi a personaggi politici, televisivi, pubblicità e film leggendari.
Il dialettale favorisce una continua contaminazione e rende l’opera un mosaico in prosa strutturato per immagini e figure retoriche. Un gioco combinatorio tra raffigurazioni letterarie alte e codici gergali che si rivela fondamentale per ritrarre un originale campionario umano. Non a caso Venturini affida al dialettale i dialoghi e la riproposizione di ricordi, gli alterchi tra i malviventi, le esternazioni dei pescatori minturnesi, o i soliloqui di una donna che si rivolge al mare pensando di parlare al marito e raccontargli “pure le fregnacce”.
Scenario e al contempo metafora di tale visione sono i luoghi prescelti, immortalati nel loro declino, a partire dall’immagine del Villaggio Tognazzi, patria, poi decaduta, del jet set romano da quando, sul finire degli anni Cinquanta, Ugo Tognazzi, Luciano Salce e Raimondo Vianello acquistarono terreni favorendone la frequentazione di attori e registri anche grazie alla vicinanza con Cinecittà. Le foto ancora affisse al bar Da Vanda, con Vittorio Gassman, Fred Bongusto, Renato Rascel e, tra gli altri, Carlo Giuffré e Antony Quinn, sono quel che rimane dei fasti di quegli anni.
I margini della litoranea, direzione Pomezia, delineavano una realtà altra rispetto all’elegante complesso del Villaggio. Porzioni di territorio senza senso su cui le ex case abusive, condonate, tutte diverse tra di loro, sembravano cadute casualmente dal cielo.
Sullo sfondo le dinamiche malavitose del territorio, con Torvaianica come “torretta della mafia su Roma”, e Pomezia come “una specie di Strasburgo delle organizzazioni criminali dove romani, sinti, napoletani, calabresi e siciliani, come in una terra felix, facevano affari, reclutavano manodopera criminale e offrivano rifugio a latitanti pesanti, in alcune occasioni, confederandosi per spartirsi i proventi del narcotraffico nella più completa armonia”.
La deformazione del possibile diventa nel romanzo una potente allegoria sulla disillusione dell’individuo nei confronti del presente e della propria storia. L’elemento simbolico primario, la neve, assume così una valenza ulteriore: scende e modifica i luoghi, riuscendo ad assegnare a essi connotati nuovi, ammorbidendone le asperità. Una particolare bellezza dello squallore diventa qui il basamento per connotare di ulteriori significati le descrizioni dei sapori di una decadenza, dei colori di un disagio ordinato, degli odori di una madre irriconoscibile rispetto al lontano ricordo dell’acqua di rose regalata a ogni compleanno.
L’annusò profondamente, ma quella mano non aveva più l’odore di sua madre, l’odore ancestrale, leggero eppure riconoscibile del soffritto appena sminuzzato. Era una mano che puzzava d’inerzia e basta.
L’egemonia del sogno narra lo spaesamento del presente, la percezione di inadeguatezza che investe una madre e un figlio e che accomuna anche altre figure del romanzo, costantemente adombrate dal rammarico dell’incompiuto. La continua mescolanza di piani, di registri alti e bassi, di toni cupi e luminosi, l’alternanza tra le aperture dialettali e il trionfo del desueto, concorrono a offrire, anche grazie a improvvisi accenti lirici, una dimensione orizzontale del tempo, affidata alla corrispondenza mare/terra che rivela simbolicamente il cardine dell’intera narrazione: il dialogo impossibile tra vita e morte, reale e immaginifico, passato e presente, speranza e disillusione, mito e fine.
Venturini pare aver rintracciato nel linguaggio visivo la materia espressiva adatta a ottenere una raffigurazione della realtà frutto di sovrapposizioni molteplici. Non sono solo gli espliciti riferimenti a singole scene ad assegnare un passo cinematografico alla narrazione, ma è lo sguardo dello scrittore che celebra il margine a costruire visionari allucinati, eroi della miseria, emarginati smarriti nel miraggio, per affidare memorabili suggestioni alla pagina.
Forse da lassù, dal paradiso dei registi del cinema italiano, quel fotogramma impattante – un travestito dalla faccia tumefatta che osserva con sguardo severo un vecchio pescatore e un ragazzetto accasciati ai lati della bara di Vianello, davanti a un villaggio che Tognazzi ha reso celebre e che molti di loro hanno frequentato negli anni d’oro del torneo di tennis – avrebbe destato curiosità. Magari Fellini c’avrebbe messo una pletora di nani e delle puttane obese che gli gira- vano attorno; probabilmente Scola l’avrebbe arricchito riempiendo le dune con una montagna di monnezza. Può darsi che a Ferreri e a Monicelli un sorriso gliel’avrebbe strappato.
L’anno che a Roma fu due volte Natale è la storia dei tentativi di riconciliarsi con i propri vuoti per sublimare la perdita usando l’assurdo come compromesso di realtà. L’ultimo baluardo di resistenza alla vita quando si scopre che quel che si lascia andare non potrà che ritornare, prima o poi, inesorabilmente “cristallizzato nel ricordo di una felicità” non riproducibile per talea. “Ché la felicità mica si riproduce per talea: non funziona quasi mai, come col glicine.”
Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.
