Le prime scene de L’autostrada di Luc Lang (trad. Tommaso Gurrieri, Edizioni Clichy) immortalano lo smarrimento di un uomo di fronte all’incombere dell’inesorabile. L’osservazione in retrospettiva degli eventi riporta all’incanto tetro subito da chi si scopre preda del dubbio, in grado di percepire il presagio del dramma ma dominato dall’attraente disgusto che un’improvvisa visione gli provoca, ammaliandolo fatalmente. Il protagonista rivive il tempo vuoto dell’attesa dell’ultimo treno di Armentières quando viene avvicinato da una coppia. Quel primo contatto darà forma a un’anomalia di cui il viaggiatore sente il pericolo, ma a cui non riesce a reagire, lasciando che gli eventi lo attraversino inerte. Con un’inusitata accoglienza, i due riescono a irretirlo e a portarlo in una brasserie a pochi passi, per poi svelare uno strano gioco di corrispondenze: il nome del viaggiatore (Frédéric) ricorda quello dell’amico che Thérèse e Lucien attendono invano alla stazione. Il motivo è interpretato come un segno del destino: porterà i due a convincere l’uomo a seguirli nella loro dimora per la notte. E mentre l’uomo si mostra taciturno e schivo, dal volto scavato dal risentimento, la donna genera l’effetto opposto, capace di “imporre il suo regime di vita, insaziabile e rumoroso”. Catapultato ben presto in un quotidiano rinnovato, fatto del duro lavoro sui campi a raccogliere barbabietole e del rassicurante ritorno a casa, Fred si adagia in quell’intorpidimento, osservato a posteriori come una confusione mentale che celava la necessità di colmare i propri vuoti e sentirsi amato.

Thérèse calamita l’attenzione nella sensualità espressa nella sproporzione, nei gesti di cura che diventano una morsa, nell’eccesso di un corpo immenso e burroso dalla “carne fluida, intrusiva, che cercava di attaccarti alle spalle, di sommergerti, di trattenerti nel suo calore cremoso e lenitivo”, nello scorrere ininterrotto di “parole maltrattate da quell’accento di città, della capitale” che sottendono a una conoscenza delle cose del mondo che impedisce ogni inganno. Figura complessa e indecifrabile, genera un’attrazione incontrollabile, carnale e celeste al contempo. Versione moderna di Billie Holliday per la stessa calda voce dolorosa e la fragilità insanabile, si consuma nel desiderio di profondere amore sulle note di Trav’lin’ light tra lo sfrecciare delle auto nella notte.

La prosa di Lang traduce la sospensione e l’attesa perenne nell’incertezza, la paura e il desiderio, con continue interruzioni, fratture, dialoghi mozzati e flussi interiori in un groviglio inestricabile.

Non avrei mai dovuto lasciarla fare, permetterle di…intrufolarsi nel mio campo visivo, di installarsi nella mia vuota disattenzione[…].

Come ne La tentazione (trad. Tommaso Gurrieri, Edizioni Clichy, 2021), il movimento della narrazione è segnato dagli assilli nel presentimento di un sovvertimento incombente, attraverso una prosa sincopata dove le continue sospensioni, i periodi brevi, gli indiretti liberi e i continui flashback determinano una tensione crescente in un gioco di audaci scoperte che lascia al lettore il compito di individuare un senso originario nella catastrofe. Il romanzo è strutturato come un preludio al disastro, con l’adesione a uno sguardo disperato sul passato nella vana ricerca di premonizioni. I frammenti e i particolari scomposti diventano indizi celati nel testo tra dettagli minimi che custodiscono innumerevoli versioni possibili del reale. La traduzione del disordine e dell’incoerenza dei ricordi produce un immane preambolo al tragico cadenzato da immagini che ne anticipano le avvisaglie.

L’allestimento naturale fa da contrappunto alle vicende narrate, caratterizza nelle descrizioni del freddo umido e del nevischio denso una solitudine profonda e irrisolvibile. È quel paesaggio da coprifuoco, quell’atmosfera “quasi da guerra e da caos imminente” a generare una strana unione, a rendere i tre “strettamente annidati in una febbrile connivenza”. Il ritratto dell’ambiente urbano e della dimensione domestica è la proiezione dell’inquieto modo di abitare il tempo dei tre personaggi. La dimora di Thérèse e Lucien nasconde enigmi continui, la sua parvenza signorile rivela la decadenza di chi ci vive, narra di fasti perduti, successi sfiorati e illusioni represse, percepibili nell’atmosfera emanata dai suoi ambienti: il salone dei ricevimenti con i suoi mobili inutili, le camere che odorano di polvere e muffa, i bagni logori, le stanze proibite, il giardino spettrale.

Il lettore vive lo straniamento prodotto nel viaggiatore nel lambire spazi inesplorati, domestici e estranei al contempo, oscuri perché inesorabilmente ignoti. Il modo di rapportarsi allo spazio risulta fondamentale nell’opera perché misura l’incombere dell’orrore attraverso la descrizione minuziosa di esperienze come attraversare un campo che lambisce l’autostrada, muoversi tra le rovine di una fortificazione al limitare delle Fiandre, passeggiare col calore del giorno per dimenticarsi dell’orrore della notte, o scavalcare un guardrail.

Una sottile vertigine appartiene a ogni ambiente, conduce i personaggi a scandagliare recessi oscuri riconoscendo traumi remoti nei luoghi che li circondano. In tale esperienza sensibile dell’ambiente, l’autostrada diventa la metafora di un’immensa ferita, con un contrasto straniante tra l’attenzione estrema per la parola esatta e la sua collocazione in un non luogo che “è come una piaga aperta, quella di Thérèse, che è una linea, una linea che va non si sa dove, una linea che si insinua nell’orizzonte, una linea davvero di fuga, di fuga o almeno di distrazione […]”.

Il continuo rimando musicale si lega all’incompiuto, abbozza i sogni nascosti di un operaio che raccoglie barbabietole in attesa di diventare un sassofonista famoso come suo zio, che incarnava “una pura alterità centrifuga, quella incongrua di un musicista jazz a Napoli, dopo lo sbarco alleato in Italia”. La musica esprime lo strenuo appiglio alla vita a cui si aggrappa chi cerca di non soccombere al crollo, cadenza il passo di una dolente disillusione vissuta da una stella inconsapevole della propria rovina che si strugge a intonare in solitudine melodie blues che si posano lievi su disgrazie sopite.

L’aspetto linguistico appare centrale nell’opera, è concepito come lo spazio per rivendicare un’appartenenza divisa. Interessato a insinuarsi nel gorgo di equilibri labili, come il contrasto tra l’esperienza fisica di una nuova routine domestica e le fantasie di fuga o la tensione tra desideri di assoggettamento e impulsi di libertà, Lang sviluppa tale scissione interiore nel suo spazio d’elezione: la dimensione sessuale. Il registro grottesco enfatizza i meccanismi alla base di una deviazione e i suoi esiti, precipitando il lettore in un quotidiano deformato che ricalca le nuove abitudini dei suoi soggetti, spesso vestiti di ridicolo nel cercare di salvaguardare torridi aneliti. Il culmine è rappresentato dal travestimento burlesco sperimentato da Thérèse. La frequente trasfigurazione immaginaria in una creatura inumana dalle fattezze animali può essere letta, in senso più ampio, come la volontà dell’autore di esaltare la contraffazione del reale nell’espressione di una cocente e inestinguibile malinconia. Memorabile in tal senso la scena del gioco tra le rovine del castello di Condé, meta della scampagnata progettata dalla donna per approfittare del sorprendente calore di quella giornata novembrina.

“[…]Thérèse lo faceva smarrire nel labirinto dei numerosi corridoi dell’edificio e adesso si fermava in ogni cornice nera della facciata, ci rivolgeva spaventose smorfie, tirava fuori una lingua smisurata che sobbalzava istericamente nella sua bocca spalancata, si tirava la pelle alle tempie fino a farsi degli occhi da gatta feroce, si tirava le orecchie, si piegava il naso per farne un grugno ringhiante, poi svaniva di scatto e spuntava a un piano più alto, assumendo questa volta una posa da vamp lubrica, la mano con le dita aperte sul pube, giocando alle ombre cinesi con il profilo delle sue forme immense d’una femminilità scultorea, una dea dell’abbondanza e della fertilità, e la voce di Lucien risuonava nei profondi corridoi con quella invariabile domanda: dove ti nascondi, brutta cattiva?”

A marcare il tempo della narrazione è l’attestazione di una marginalità condivisa legata alla vergogna, all’assenza di indulgenza verso sé stessi, al vincolo simbolizzato da un luogo, all’impossibilità di un reale ritorno, che porta le figure narrate a sviluppare una dipendenza fisica e emotiva reciproca. A partire da tali condizioni prendono forma visioni sul peso dell’esistere anche attraverso l’uso di elementi simbolo: il sassofono reso trofeo di successi mai compiuti; gli sguardi e i gesti sessuali nella spasmodica ricerca di consenso per colmare un’alienazione radicata;  gli avanzi sulla tavola che attestano una voracità insaziabile e estesa; i passi di danza sul ciglio dell’autostrada illuminati dai fari dei camion per tenere viva una suggestione.

Le sospensioni, le cesellature lessicali, le reiterazioni ossessive, i giochi al contrasto, le trasposizioni selvatiche di intrichi interiori tracciano l’evoluzione dolente del singolo, traducono un tormento delizioso e irrinunciabile. L’autostrada è un’indagine sul significato della salvezza come orizzonte ideale, frutto di sommessi vagheggiamenti che producono una personale idea di realtà. In tale prospettiva il riparo non potrà che ridursi a un’astrazione, nell’immobilità che rende impossibile ogni azione. L’opera è un elogio del margine e del disordine, immortala l’istante che anticipa una disfatta irrimediabile e trova nella perlustrazione emotiva a tratti violenta la condizione ideale per innestare sul racconto stacchi lirici improvvisi per esasperare il noto. L’esplorazione letteraria di Lang in un paesaggio fitto e allusivo traccia lo scontro dell’individuo con un mondo indifferente alla vacuità, un mondo dove “ci si deve sempre arrangiare nel farsi spingere dalle cose, senza tregua, evitando quegli scenari vasti come abissi in cui si rimane fisicamente a confronto con la vana vanità di ogni impresa, sospesi, sul confine del vuoto, soltanto i tacchi in appoggio sulla roccia o sull’orlo del tetto”.

 

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Autore

a.pisu@minima.it

Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all'Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

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