Recita un famoso detto: non esistono domande stupide, solo le risposte possono esserlo. Leggere Anne Carson è il modo migliore per trovarne conferma. La poetessa – e saggista, traduttrice – canadese nei suoi libri non fa altro che mettere a dura prova la saggezza popolare, ponendo domande terribili; domande a cui nessuno di noi vorrebbe mai sentirsi chiedere di dare una risposta. Lei invece le risposte le fornisce, e di solito sono anche straordinariamente brillanti.

Prendiamo ad esempio Economia dell’imperduto, il titolo con cui Utopia ha iniziato a pubblicare in Italia i suoi saggi, nelle traduzioni di Patrizio Ceccagnoli. Nel prologo Anne Carson prima si sofferma su espressioni comuni come “perdere tempo”, o “risparmiarsi una figuraccia”, o “sprecare parole”, poi domanda: “cosa, esattamente, va perduto quando le nostre parole sono sprecate?” La risposta arriverà dopo un lungo e intenso confronto tra le poesie di Simonide e quelle di Paul Celan.

Possiamo prendere altrimenti, da Decreazione, che è invece il suo ultimo saggio pubblicato da Utopia, il secondo capitolo. Si tratta di un elogio del sonno, in cui Carson formula un’altra domanda niente male: “cosa vede il sonno quando ci guarda?” Anche qui, la risposta sarà il risultato di un accostamento tra Virginia Woolf, il Socrate di Platone e l’Odisseo di Omero.

(Una classicista come Anne Carson non ha certamente bisogno di farsi aiutare da James Hillman per mettere in relazione sonno e mitologia, ma non è da escludere, e vale comunque come suggerimento di lettura, che anche lei sia rimasta affascinata da un’opera fondamentale come Il sogno e il mondo infero, probabilmente il principale studio su questo argomento.)

Perché un’altra cosa che piace fare a Carson, oltre ai micidiali stress test volti a provare l’inesistenza di domande stupide, è questa: accostare opere e autori apparentemente privi di elementi in comune, e dimostrare invece quante e quanto profonde siano le connessioni tra loro.

Anche i due – ci torneremo – capitoli dai quali prende il nome questo suo ultimo libro sono costruiti intorno a un’idea, quella di decreazione, che appartiene a Simone Weil ma di cui Carson trova tracce già in Saffo, vissuta nella Grecia del settimo secolo a.C., e in Margherita Porete, bruciata viva per eresia a Parigi nel 1310. L’operazione appare azzardata tanto quanto si rivelerà poi puntuale: queste tre donne, vissute a distanza di così tanti secoli, hanno effettivamente parlato della stessa cosa. Mancava solamente un’intelligenza acuta come quella di Carson, dotata di uno sguardo attento e di una profonda conoscenza dei testi, che ce lo facesse notare.

La decreazione, per Weil, è un ritrarsi, è una ritirata esistenziale che si rende necessaria nel momento in cui l’io comincia ad apparire come un ostacolo; o nel momento in cui, per usare una metafora, si inizia ad avere l’impressione di essere un terzo incomodo nella storia d’amore tra la divinità e il mondo. È un concetto che Weil stessa esplicita più o meno in questi termini, quando scrive: «Devo ritirarmi perché Dio possa prendere contatto con gli esseri che il caso pone sulla mia strada e che lui ama. Non avrei tatto a rimanere lì. È come se mi trovassi tra due amanti o due amici. Non sono la fanciulla che attende il suo promesso sposo, ma il terzo incomodo che è con due fidanzati e dovrebbe andarsene perché possano davvero stare insieme».

Carson propone diversi altri passaggi in cui Weil affronta il tema della decreazione: «Non possediamo nulla in questo mondo se non il potere di dire “io”. Questo è ciò che dobbiamo rendere a Dio». Oppure: «Dio mi ha dato l’essere perché io glielo restituissi. È come uno di quei tranelli che mettono alla prova i personaggi delle fiabe. Se accetto questo dono, sarà dannoso e fatale; la sua virtù diventa evidente attraverso il mio rifiuto. Dio mi permette di esistere al di fuori di lui. Spetta a me rifiutare questa autorizzazione». O ancora: «Dio può amare in noi solo questo consenso a ritirarsi per fargli posto».

Si tratta di riflessioni di grande profondità spirituale: non sarebbero sembrate fuori posto nel bellissimo saggio sul panteismo di Emanuele Dattilo, Il dio sensibile, e assumono ulteriore spessore e nuovi significati affiancate qui alle parole di Porete e di Saffo.

Carson fa poi un ulteriore passo: nel secondo dei due capitoli che danno il nome al libro, anziché usare le parole delle tre autrici, dà loro voce attraverso le proprie, rendendole protagoniste di tre brevi opere teatrali in musica, a metà strada tra classicismo (c’è un coro che interagisce con i personaggi principali) e modernità (il coro può essere composto da “sette robot femminili costruiti da Efesto” o da “dieci ballerini di tip-tap trasparenti”).

È interessante provare a capire il senso di questa scelta. Carson non manca di notare quanto sia paradossale scrivere di decreazione: «Essere uno scrittore significa costruire un grande, rumoroso, lucente centro dell’io dal quale la scrittura prende voce, e qualsiasi pretesa di voler annichilire questo io pur continuando a scrivere e a dar voce alla scrittura deve comunque coinvolgere lo scrittore in considerevoli sotterfugi o contraddizioni». L’atto della scrittura e l’idea di decreazione, insomma, si trovano alla stessa distanza che c’è tra presenza e assenza.

Appare dunque contraddittorio scrivere di decreazione, perché nel farlo si afferma quell’io che si vorrebbe invece in ritirata dal mondo; ma Carson sembra suggerire una vita d’uscita da tale opposizione attraverso il modo stesso in cui concepisce Decreazione; limitando l’utilizzo degli strumenti tipici della prosa, come la logica e l’argomentazione, e facendo spazio a quelli più sottili della poesia e del teatro, dimostra come sia in qualche modo possibile “decreare” la scrittura, per meglio metterla in accordo con l’intrattabile argomento in questione.

Questo approccio caratterizza anche tutti gli altri capitoli del libro: immaginiamo allora, per un momento, che questa sia la norma; che ogni saggio proceda così, per frammenti, mutando forma in continuazione. Immaginiamo tutti i saggi mai scritti passare liberamente dalla prosa al verso, completare con una poesia un ragionamento iniziato con un’ipotesi di sceneggiatura, basare il proprio intero percorso su una completa, totale fiducia nel contributo che ogni parte potrà dare al discorso nel suo complesso. Come sarebbe oggi la nostra cultura se tutte le questioni cruciali fossero state affrontate in questo modo? Potrebbe sembrare una domanda stupida ma come abbiamo visto non esiste niente del genere, e in ogni caso Anne Carson saprebbe trovare una risposta; forse però ha già fatto di più: ce ne ha dato una dimostrazione.

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Autore

g.nicoli@minima.it

Gilles Nicoli è nato a Roma sette giorni prima che Julio Cortázar morisse a Parigi. Scrive soprattutto di libri, cinema e videogiochi.

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