
“L’empatia verso un crimine è essa stessa un crimine?”.
Si interroga sulla matrice tenera e crudele dell’amore filiale Blandine Rinkel con Creare un lupo (trad Fabrizio Di Majo, Clichy), romanzo di formazione dominato dalla costante metafora animale che traccia la peculiare educazione al dolore impartita a una bambina da un padre convinto che la sofferenza fisica sia essenziale per comprendere il senso e le sfide del vivere. L’opera è un’indagine sull’impronta della violenza che condiziona in modo irreversibile l’agire e il sentire del singolo, acuita dal ricatto emotivo generato dal vincolo di sangue e dal tentativo di preservare un’apparenza di benessere e serenità in una cornice famigliare fragile, precaria. Dallo sguardo della giovane Lou prende forma la relazione col padre Gérard, un uomo forgiato dalla rabbia, dall’odio, capace di una sfrenata gioia infantile e di un umorismo nero usati per imporre una supremazia predatoria assoluta.
Poliziotto in Vandea e formatore nei dipartimenti d’oltremare, l’uomo esercita il proprio potere anzitutto nel maneggiamento e nella riscrittura della propria esistenza, esaltando imprese professionali e mostrando una conoscenza delle cose del mondo vana e imprecisa, fondata su fantasie e smanie di protagonismo. Gérard vive senza una legge morale al di sopra di lui. Mosso da un orgoglio candido e sovrano originato da un sentimento di inferiorità risalente all’infanzia trasformato in sovrastima di sé, il suo temperamento all’apparenza ottimista è illuminato da un “sole crudele, persistente e inattingibile” che negli altri suscita odio. Sarà quella gioia crudele e contagiosa a irradiare l’infanzia di Lou, a trasformare “la violenza in un’estasi”.
Conscio del controllo completo su una moglie docile e convinta di essere l’unica a comprenderlo e a salvarlo dalla sua stessa indole, l’uomo dal passato segnato da lutti e colpe intende crescere una bambina in grado di sopportare qualsiasi dolore fisico in silenzio e di saper sopravvivere in condizioni estreme – in guerra, in mare, in solitudine in mezzo alla foresta –, aspetti che ritiene ben più rilevanti dell’istruzione scolastica e della formazione di legami affettivi estranei al nucleo domestico.
Solo al centro del mondo di Lou, la sottopone sin da piccola a dure prove di resistenza, come attraversare da sola un ponte durante una tempesta, o subire un’improvvisata operazione chirurgica in casa con il cuscino premuto sul viso per non urlare.
Cruciale la dimensione comico-linguistica per travestire il dramma con un goffo accento esotico e inscenare una farsa inquietante, concependola col fine di rivelare la natura ridicola di qualsiasi evento tragico. Il legame fondato su un’intimità morbosa definita nella misura dell’esclusività prevede patti clandestini e silenzi. Tra storie di mozzi e imprese impossibili, figure mitologiche a cui ambire, avventure per mare e promesse segrete di matrimonio una volta raggiunta la maggiore età, la complicità creata tra i due si costruisce nel terreno del fantastico, dell’irreale: “un patto di immaginari” che sostanzia un legame che diventa una morsa.
Se Crescere un lupo usa la dimensione paterna per esplorare la natura abietta dell’essere umano, è la madre al centro del romanzo d’esordio di Rinkel, Nessuna pretesa. L’opera ottenne un ottimo riscontro di critica in Francia, candidata al Premio Goncourt. Pubblicata in Italia da Enrico Damiani editore nella traduzione di Annarita Stocchi, rivela l’attenzione rivolta alla dimensione famigliare come luogo di ambiguità e pretese vane. L’opera, di chiara ispirazione autobiografica, è dedicata alle pietre, e rivela una straordinaria affinità con le narrazioni successive. Rinkel trae ispirazione dalla vicenda personale di sua madre, ripercorsa in relazione al ruolo della cura del prossimo, all’aiuto degli emarginati, alla solidarietà, all’empatia.
Emerge il ritratto di una donna imperscrutabile, che dipende dalle sensazioni degli altri per definire le proprie, con piccole manie come quella di attaccare post-it sul frigo con interrogativi cocenti come: “Che cos’è una vita di successo?”.
Sin dalle prime pagine emerge l’attrazione per gli enigmi riconosciuti nella frattura della “rete di certezze amniotiche che è la famiglia fino a dieci o undici anni”. Rinkel analizza l’improvvisa scoperta di avere davanti un corpo distinto e contrapponibile al proprio, vulnerabile, fallibile, e “così inafferrabile nei suoi difetti e nella sua fragilità da divenire un mistero”: “non più una madre ma un segreto di famiglia, di quelli di cui non vedi l’ora di scrivere per poi scoprire che non riuscirai mai, completamente, a conoscerli”.
Come nella produzione precedente, in Creare un lupo l’incedere narrativo secondo traumi e ricorrenze del ricordo struttura l’architettura di un’opera sulla brutalità del carnefice e sulla retorica della vittima che non riesce a risolversi con una netta e rassicurante demarcazione, finendo per sospendere il giudizio di fronte all’impossibilità di un’analisi oggettiva se non attraverso il conseguimento di una distanza necessaria.
L’impronta del Determinismo nello sguardo letterario di Rinkel è riconoscibile nell’interesse per i vincoli sociali che influenzano i pensieri, i comportamenti, le visioni e gli orientamenti di individui inconsapevoli. Attraverso ingrandimenti sulla sfera affettiva intima, l’autrice riflette sulle possibilità di affrancarsi o meno dal giogo genitoriale, dai condizionamenti derivati dall’infanzia nella percezione dell’altro, dalla morbosità in cui ricadono le relazioni quando si tenta di esercitare un potere per affermare il senso della propria esistenza.
“Non ha mai picchiato mia madre, ma: l’ha minacciata di farla sparire, l’ha trattata da stupida e da vecchiaccia un centinaio di volte, le ha mostrato i pugni, le ha afferrato i seni in cucina tra collera ed eccitazione, le ha ricordato che non era capace di far nulla, poi le ha ricordato il contrario, che poteva far tutto, che era più intelligente e aveva più talento di quanto lei stessa non sapesse. L’ha esaltata e umiliata, qualche volta in una stessa frase, in uno stesso gesto, l’ha piegata. Una sola cosa era certa: senza di lui lei non ne sarebbe uscita”.
“Non mi ha mai presa a pugni, ma: mi ha fatto volare dalle scale con un calcio, mi ha preso le braccia tra le mani, torcendo la mia pelle da bambina sotto la sua, molto più ruvida, più segnata dalla vita, e soprattutto mi ha minacciata, più di una volta, per insegnarmi a vivere, mi ha detto e ripetuto che l’avrei pagata, prima o poi, che avrei pagato tutto, anche quello che non avevo fatto, perché tutto si paga; me lo ha detto e ripetuto, con il pugno chiuso sopra il mio volto, parlandomi con una voce selvaggia, come mostrando i denti”.
A distinguere Creare un lupo è l’attenzione verso la dimensione selvatica dell’adolescenza, le gerarchie domestiche, gli slanci di emancipazione da condizioni imposte, la gestione di inquietudini oscure, il rapporto tra desideri e libertà, la concretezza dell’angoscia, la necessità salvifica di affrancarsi dai propri padri.
Blandine Rinkel osserva la trasfigurazione generata dal lutto, il confronto con tentativi di elaborazione di perdite compiuti attraverso sovrapposizioni di volti e scenari che, nella sospensione delle responsabilità, si traducono in un fardello insostenibile per chi rimane.
Centrale l’attenzione riservata alle potenzialità lessicali nel dare forma a deviazioni e sottesi feroci che traducono l’impossibilità, anche per l’individuo più crudele e cinico, di dominare una forza soverchiante, esito di un’infanzia precaria e ferita.
L’allestimento degli spazi domestici amplifica un’inquietudine radicata, una costrizione fisica senza rimedio, confusa per benessere negli alleggerimenti provvisori come contraltare a soprusi subdoli.
Con una prosa dagli slanci lirici improvvisi, Rinkel compone un’elegia della ferocia, in un crescendo che investe la giovane protagonista e la trasforma in un individuo privo di empatia, lontano dal modello di “femminilità sciropposa” da cui diffidare secondo quel padre misogino e ottuso che paradossalmente avrebbe così insegnato a sua figlia a sviluppare nel tempo una coscienza femminista.
Sulla scorta di modelli letterari fondamentali, da Baudelaire a Jack London, Gertrude Stein, Jean Renoir, Virginia Woolf, Barbara Ehrenreich, l’autrice affronta gli esiti del disconoscimento di un padre. Simile al crollo di un fortino inespugnabile, la percezione di intrusione in uno spazio privato (compiuta dall’uomo in una scena emblematica nella camera da letto) palesa una profonda repulsione resa nell’attenzione per dettagli all’apparenza minimi, come i baffi sporchi di sugo, emblema del disgusto e della ripugnanza verso una figura percepita improvvisamente come estranea.
L’aura paterna violata, divenuta precaria a incerta, sancisce la perdita definitiva del candore infantile e la presa d’atto della natura mortale di un uomo fragile, condizione esplorata nei confronti della madre in Nessuna pretesa. In parallelo Rinkel riconosce le risposte di un corpo segnato dall’impronta violenta, sonda la matrice del desiderio sviluppata in una giovane donna che ambisce a lambire il confine sottile con la morte, a raggiungere una confusione sensoriale entro una realtà dai contorni deformati, e che trova nello stordimento erotico un antidoto all’angoscia del vivere.
La perlustrazione fisica sostanziata nell’attenzione riservata ai colori, alla vivezza del sangue, all’intensità persistente di macchie di umidità su un muro, cadenza la tortuosa coscienza di sé segnata dalla fascinazione per il dolore, simbolo di una gravosa eredità paterna. La collera, la rabbia incontrollata, la diffidenza verso il prossimo, la solitudine definita come densità interiore, manifestano l’impossibilità adulta di liberarsi del tutto dai condizionamenti sviluppati in famiglia. Le nevrosi aggravate dal tempo, gli scontri definiti dalla subordinazione a ruoli imposti, il mancato riconoscimento reciproco, la sottomissione e la vergogna, la gioia crudele, sono aspetti segretamente celebrati da Lou, nella consapevolezza adulta di ereditare l’assenza, la gioia e la violenza, di comprendere il significato dell’esilio come potenza, di rifiutare di sacrificarsi per le persone amate, di maneggiare le armi della finzione, della fantasia, del senso dell’umorismo, per trovare la propria violenza.
Più che un romanzo unitario, l’opera è concepibile come voce interna a un unico grande romanzo che è l’intera produzione dell’autrice. Un’irrisolta riflessione esistenziale che nel calarsi nelle vite altrui e nelle esistenze spezzate e ricomposte nella metamorfosi, rivela un intenso studio sull’istante che anticipa la catastrofe, sulla vulnerabilità celata nella maschera virile: un feroce elogio del dolore che concepisce nel male una dimensione che racchiude disprezzo, sovranità e desiderio, “l’inizio e la fine delle cose, l’universo che si rivolta senza avvertire”.
Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.