«C’erano tante vite nei palazzi. I bambini soffiavano oltre quelle vite minuscole. Spazi ristretti, angusti, soffocanti; loro non se ne curavano».
Il racconto della comunità afroamericana degli Usa è vastissimo, ampio, esaustivo, colorato, divertente, drammatico, conflittuale, devastante, commovente e mille altri aggettivi, parole, definizioni; e – soprattutto – non è ancora risolto. Come succede in narrativa, ma anche in saggistica, anche in poesia, la via delle storie non è mai una sola, perché sono tanti i modi per farci osservare, riflettere, immaginare. Tenendo bene a mente tutte queste cose e le infinite possibilità che offre il linguaggio (o, più semplicemente, ricordandole) ho cominciato a leggere, ho finito e sono rimasto stupefatto da Maud Martha, l’unico romanzo della poeta Gwendolyn Brooks, edito da La Tartaruga da qualche settimana e tradotto da Gioia Guerzoni. Brooks è stata la prima afroamericana a vincere il Premio Pulitzer nel 1950, tre anni dopo ha pubblicato questo romanzo incantevole e fulminante che fino a oggi non era mai stato tradotto in italiano. Da adesso, per fortuna sì.
Lei voleva donare al mondo una Maud Martha buona. Quella era l’offerta, l’opera d’arte che non poteva venire da nessun altro se non da lei.
Questo unico romanzo scritto da Brooks è un gioiello pieno di grazia, è luminoso, irriverente e divertente. Intanto per gli anni Cinquanta rappresenta una novità per il modo in cui la storia del protagonista Maud Martha Brown viene raccontata, le sue vicende si dipanano in 34 capitoli fulminei che arrivano al lettore come se si trattasse di un libro a episodi. Ok, passiamo alla prossima puntata. Sono scene, racconti, alcuni capitoli potrebbero anche cambiare di posizione senza andare a intaccare la riuscita della storia, però il filo rosso c’è e tutto si tiene. Brooks racconta la vita di Maud Martha attraverso una serie di notizie, fatti, avvenimenti di (apparente) minima portata, per farlo usa la tecnica di accelerazione linguistica (e immaginativa) che viene dalla poesia, da quella particolare spinta – rintracciabile anche nei racconti brevi particolarmente riusciti – che attraverso un gesto, uno squarcio, una battuta, un bagliore è in grado di rivelare un mondo, cambiare la prospettiva e il nostro sguardo sullo stato delle cose.
Era tutto grigio, e anche gli odori e i suoni sembravano evocare le proprietà di quel colore, e diventavano grigi. I singhiozzi, le frustrazioni, la noia, l’odio minuscolo, l’odio grande e brutto, i piccoli amori cocciuti, tutto quello che le arrivava da dietro quelle pareti […] con dialoghi, urla e sospiri, era grigio. […] C’era tanto grigio da quelle parti.
Maud Martha cresce nel South Side di Chicago e sogna New York, un grande amore, immagina un futuro. L’esergo del libro recita «Maud Martha è nata nel 1917. È ancora viva», e lo è anche adesso, perché mi pare che Brooks abbia inventato una donna immortale. Evviva. Ecco alcune delle cose che Maud Martha fa o che le capitano. Si innamora, ama i cappelli e li compra, sventra un pollo, impara a bere il caffè, prova a immaginarsi bella ma dubita di sé, va matta per i denti di leone, parte da bettole fatiscenti, vecchi cortili e si spinge insieme al suo sogno verso una casa vera, che sarà sempre meno vera di quella degli altri, dei ricchi, dei bianchi, ama il cinema, i denti di leone, diventa mamma, si ammala. Chiacchiera, fa domande, è mossa dalla sua curiosità, dalla sua intelligenza, dalla sua capacità empatica. Brooks per come ha inventato e raccontato la sua protagonista fa venire in mente Grace Paley, ovvero la più brava di tutte e tutti. Il marito di Maud ha sogni diversi da quelli di sua moglie: i club, le donne bianche.
Eppure, la realtà incombe, anche quando cerchi di non farci caso, perché la faccenda è la solita: i bianchi stanno là e anche solo con una battuta irrompono con tutta la loro violenza. L’odio che trapela e sgomenta Maud Martha in un negozio, al cinema, osservando un Babbo Natale crudele in un grande magazzino. L’odio, questo è, nessuna empatia, molta inospitalità, la realtà insomma. Sentirsi osservati, guardati in altro modo, anche in silenzio, salutati con fredda educazione, con distacco. Maud si accorge, sente, percepisce, ma è mossa da una forza, è come se avesse in mano dei colori e continuamente, a botte di sorrisi e tenerezza, dipingesse il grigio dei giorni in cui vive. Arreda una stanza, apre una finestra, fa una carezza, ricomincia da capo. In una poesia Brooks ha scritto: «come poi andavamo al pranzo della domenica / che voleva dire soltanto attraversare il pavimento della stanza», così Maud sa che esiste sempre un pranzo della domenica, un sorriso da recapitare a qualcuno dopo aver attraversato il pavimento della stanza.
Ma è il mio colore che lo fa arrabbiare. Cerco di chiudere un occhio, ma non va bene. Gli piace quello che ho dentro, come sono davvero. Ma continua a guardare il mio colore, che è come un muro e deve scavalcarlo per toccare quello che posso dargli, deve saltare in alto per vederlo. E si stanca, con tutti quei salti.
Infine, questo romanzo di Brooks fatto di luce e lingua che si muove e taglia, insegna che c’è sempre una nuova storia da raccontare anche sulla questione più nota, che poi negli anni Cinquanta non era così nota, e non è ancora abbastanza nota. Brooks ci dice che tutti hanno il bisogno di sognare, di desiderare, di immaginarsi in una versione migliore di sé e – contemporaneamente – avere il bisogno di essere accettati. Brooks la immagino ogni tanto sorridere – come la sua protagonista – e dire cose come: ma davvero state facendo questo in nome del colore? Ma davvero siete così scortesi e ciechi? E ancora direbbe «credetemi, vi ho amato tutti».
Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagione e Andrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia.
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