di Graziano Gala
Ma a che serve essere in tanti se non posso essere uno? A stare con Quaglia viene voglia di Magrelli, e questo non può non essere un complimento, giacché sotto i luoghi a precipizio e i tanti mantelli che uno si deve mettere viene il dubbio che in fondo in Volevamo magia (M. Quaglia, Nottetempo, 2025) tra Trieste, le giurisprudenze fatte e le lettere volute, le aule studio e gli idealismi chiacchierati si stia parlando di una sola, tremendissima, cosa: la nostra generazione, quella dei trentenni non più giovani e non ancora andati, delle precarietà a delinquere e dei desideri da accorciare col metro.
Il fatto che mi piace è che Quaglia la faccenda la prenda alla radice, in quegli anni universitari pregni in cui tutto si sogna e poco si realizza: il protagonista parla subito di esistenza spaccata, di spettri a infestare tra super-io genitoriali che consegnano la strada sicura della legge e volontà frustrate edulcorate sotto forma di partecipazioni giornalistiche – Fucilazione, la rivista, e che matrice e che veemenza.
E poi i nomi e le pose – Yates, Carrére e chi più ne ha ne metta – sotto i quali ammantarsi e dropparsi per dire in fondo una cosa tremenda: siamo stati, siamo (e forse saremo) terribilmente soli. Abbiamo sognato soli, soli abbiamo faticato per realizzare, qualcuno cerchiamo per uscire dal guscio, per addentrarci forse alla vita.
Vengono in mente i protagonisti dolorosissimi de Le cose di Perec, che a trent’anni sentivano il dovere di essere arrivati a pena, altrimenti, di esser proprio niente. Si affaccenda il personaggio principale, cerca di contestualizzarsi nelle navate universitarie e di decontestualizzarsi da luoghi tremendi a avviluppanti che si appiccicano addosso con la speranza – che è la nostra, quella di tutti – di trovare una fuga montaliana, un anello che non tiene perché Trieste è troppo brutta e tortuosa e piena di labirinti in cui perdermi e il nord est non sembra serbare particolari amicizie al prossimo.
Eccoci dunque al punto di svolta, che se l’uomo è misero e traballa la letteratura ci parlato di una figura femminile cristofora evanescente che da speranza e consegna beatitudine, apre la fuga e rasserena nell’animo. I disegnini però si fanno all’asilo e gli stereotipi sembrano essere per fortuna saltati – tempi altri, altre questioni: Ludovica con le cose di sangue (che ci fanno pensare al primo Donaera di Io sono la bestia) e con quelle di magia (che ci gettano su un altro testo di Nottetempo, Cos’hai nel sangue, di Giovagnoli) ci mostrano che la fuga è possibile ma fa rima con ignoto, che il dolore nostro trova riflesso in quello degli altri e che la salvezza è una cosa non di questi mondi.
Ludovica non è Laura né Beatrice, ironicamente può essere Circe – Io sono capace di tramutare gli esseri umani in gatti – ma incantesimo, a ben vedere, ne ha per nessuno, anch’essa preda di una maledizione indicibile che riguarda ciascuno di noi: la sicura, certa e ineluttabile indeterminatezza. Lavorativa, sentimentale, umana: la magia aspirata da Quaglia mi ha fatto pensare a un testo di Sarafine, Malati – appunto – di gioia, chiamati a correre disperatamente per non accorgerci di ciò che ci sta nel frattempo succedendo. Per ottunderci per quanto possibile. Questo testo ha un merito clamoroso: riflettere senza bugie e senza fingimenti su uno stato sociale e generazionale pazzesco votato al precipizio con famiglie che ormai non reggono e non sono soluzione, luoghi che sono culla del male che proviamo e teniamo in grembo e individui che possono solo portarci la loro quota di sofferenza.
È che l’autore, in Volevamo magia, ce lo dice – tra bmovie, est del paese e oscurità intime e di luoghi – pure troppo bene: eravamo in attesa di qualcosa di significativo, ma invece uno aspettava e aspettava e non accadeva mai niente.
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