Nell’intento di accordarsi a un tetro silenzio interiore, con Il signore delle acque (Nutrimenti) Giuseppe Zucco compone un maestoso e lirico preambolo al tragico, il racconto dell’attesa della fine del mondo dalla prospettiva di un bambino che osserva incredulo l’acqua bloccata in cielo che minaccia di estinguere la vita sulla terra. La soffocante condizione di sospensione dilata il tempo e lo spazio, altera i contorni del noto, trasfigura il quotidiano che il protagonista condivide con i genitori, dall’abbandono della scuola e del lavoro in favore del gioco e del fumo, all’incuria che lambisce ogni cosa e solleva persino dagli obblighi elementari.

Dopo l’uscita di Tutti bambini (Egg, 2016), Il cuore è un cane senza nome (minimum fax, 2017) e I poteri forti, NNE, (Premio Ceppo Racconto 2022), Zucco rinnova con Il signore delle acque uno studio sull’umano sviluppato nello scandaglio della precarietà del vivere. Elegge la dimensione dell’infanzia per indagare la contaminazione dei desideri germinati nell’incoscienza, e osservare la frantumazione di ogni entusiasmo in assenza dei filtri della maturità e dell’esperienza. Risulta, così, definitivo il senso di smarrimento esistenziale, e lanciante il dolore per l’improvvisa consapevolezza di una solitudine ineluttabile nell’estromissione improvvisa dal piccolo mondo di cui si era il centro.

Forse crescere era questo, pensai. Queste due cose insieme. La capacità di attirare la violenza su di me e di creare un vuoto attorno a me.

La pressione dell’acqua bloccata in cielo genera una fatale follia collettiva che disumanizza e mortifica, che annienta ogni dignità e favorisce una grettezza da sopravvivenza che ottunde la ragione. Produce un’euforia esasperata che cela una finzione provocata dal panico, una forzatura nella disperazione. Ad amplificare la brutalità, l’attenzione per la dimensione sessuale che rappresenta una vana dissociazione dal presente, un’evasione dal dramma. Quello spazio di selvaggia esuberanza consumata per frapporre la remota possibilità di una nuova vita alla certezza di una morte imminente, ricade nel paradosso, ostenta nell’assurdo un inestinguibile annichilimento.

Lo sguardo sul tempo tradisce un senso di alienazione che rappresenta la dorsale dell’opera. Sfilano sulla pagina anziani che depredano negozi sventrati, mosconi impazziti, figure erranti con carrelli del supermercato colmi di vestiti e ricordi da preservare, donne che vagano con carriole alla ricerca di qualcosa di commestibile tra pezzi di cadaveri, rottami e uno “strazio di macerie fumanti lungo la città”.

Il gusto per il mostruoso con evoluzioni erotiche – che già dai primi racconti di Zucco evocava una fascinazione per l’orrore – ne Il signore delle acque è epurato da logiche morali: si lega allo studio dell’istante che anticipa l’incombere dell’irreparabile.

L’evoluzione allucinata dell’opera lambisce il tempo e lo spazio, contagia relazioni rassicuranti, instilla il dubbio persino nelle carezze di una madre, dalla morbosità sintomatica di una fragilità mentale e fisica. È la sregolatezza a generare un senso di esclusione e a portare il giovane protagonista alla fuga, precipitandolo in uno scenario grottesco, tra saccheggi di negozi e banche, uccelli che cadono dal cielo, coppie che corrono con i capelli in fiamme, cadaveri abbandonati, orge per strada, donne distese sull’asfalto che osservano estasiate il cielo, scene di guerra sotto enormi boati.

Vidi una donna mordere un uomo, staccargli un dito della mano, sputarlo via. Vidi un cane azzannare quel dito e scappare. Vidi uomini e donne pregare inginocchiati.

Tra madri inconoscibili, figure angeliche e disperate, palazzi sformati dall’acqua che paiono pance gravide di morte, il profondo simbolismo della maternità attesta nel vortice di creazione e distruzione il perno dell’opera, misura l’angustia nella perdita di ogni certezza e nell’improvvisa rivelazione, insita nella traccia apocalittica sottesa.

La disarmonia spaziale traspone i contrasti interiori dei protagonisti e, al contempo, l’angoscia collettiva, perenne e irrisolvibile, la trasfigurazione violenta di ogni ricerca, il sacrificio dei corpi, l’inizio celato in ogni distruzione, l’assenza di salvezza riconosciuta nei movimenti spasmodici di un pesce sapiente.

Zucco investiga la dimensione urbana, ne rischiara gli epicentri nervosi calibrando i simboli insiti nel paesaggio deformato dal raccapriccio e le visioni alterate che evoca. Misura un disagio esistenziale ineludibile con una cura estrema per la composizione, una prosa magnetica sostenuta da giochi al contrasto, allegorie e anse liriche. In tale gioco di vuoti e di pieni, gli ambienti domestici simboleggiano una dimensione interiore che gradualmente trascolora e che nel mostrare l’inganno del noto è destinata a implodere.

Alla devastazione e al degrado, l’autore contrappone apparizioni improvvise di figure fulgide, portatrici di speranza, come la donna vestita di bianco che cerca suo figlio tra un gruppo di ragazzini che la insultano. Il ricorso animale in tale scenario rivela un profetico percorso sotterraneo sconosciuto al genere umano, illuminando l’inutile ricerca del vero.

Al pari delle immagini evocate sulla pagina, sono i rumori a palesare le fantasie di morte generate dal tetro spettacolo del cielo tra scrosci, urla, sommovimenti del terreno come cartilagini strappate dall’osso, variazioni continue che preconizzano l’inesorabile.

Non riuscendo a capire se tutto ciò era la realtà o una proiezione dei miei desideri, scossi la testa. All’acqua immane sfuggì un boato così esausto che sembrò sgorgare dal mio petto. La mia vista vacillò, le mie gambe rammollirono. Gemendo come un fantasma che riviveva in eterno le proprie sventure, precipitai tra le fauci del buio spalancato.

Nel bilico tra adesione al noto e aperture fantastiche, l’opera attesta l’esigenza di esplorare narrativamente il significato del vuoto, secondo una cromia dello sconcerto che richiede un linguaggio nuovo per trovare espressione. Indaga il confine tra l’effimero e l’eterno con un possente tributo alla vita nella sua forma più terrena, che nell’epilogo allude a una riflessione sui compromessi insiti in ogni fine e rimanda idealmente alle pagine scritte da D. H. Lawrence un anno prima di morire in merito alla bellezza e allo stupore di sentirsi vivi: “Nulla di me è isolato e assoluto”.

 

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Autore

a.pisu@minima.it

Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all'Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

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