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Avevo quattordici anni, era una notte di giugno e su Italia 1 Amy Winehouse mi dimostrò che le sirene cantavano davvero. Dopo avermi stregata con una voce pungente e strana, almeno per le mode degli anni duemila, si congedò con un sorriso, thank you, thank you Sicily e, sistemandosi il vestitino nero a pois, sparì dall’inquadratura. Una sirena urbana, ruvida e intensa. Era una sirena Amy, era una perla rarissima che si stava rivelando al pubblico italiano in una calda notte estiva nello stesso momento in cui i genitori mangiano il gelato in piazza, i bambini improvvisano giochi circensi sulle panchine dei parchi, gli adolescenti si scambiano I primi imbarazzi conditi da dopobarba rubati ai padri e profumi Bon Bons Malizia.

Irrompe così Amy Winehouse, nella mia vita e in quella, immagino, di molti altri. Ricordo che non fu solo il canto, l’acrobazia vocale di un’artista autentica e del suo daimon, quanto piuttosto quella vulnerabilità così onesta e tenera a renderla troppo aliena, per chi la osservava in estasi e anche per quel mondo di luci e telecamere. Decisi che le avrei voluto bene e che sarebbe diventata una mia amica. Amy Winehouse non era fatta per questo mondo, la sua presenza scenica dirompente, fuori da ogni schema, il suo talento, immenso, debordante, la rendevano sbilenca agli occhi geometrici dei suoi contemporanei, tanto spostava quel bellissimo corpo sinuoso e giovane, un fiore di primavera, e quella voce, selvaggia e maestosa, nella scoperta continua di se stessa. Amy poteva appartenere a un tempo lontano e al futuro, nessuno lo avrebbe mai compreso. Poco importa, iniziò a brillare, la sirena inglese, il disco d’esordio, i primi premi importanti, i videoclip, i giornali di settore.

Di Amy ho sempre adorato il modo in cui correva rischi selvaggi nel canto, era coraggiosa anche per me, e alla minima perdita di controllo, si riprendeva per poi tuffarsi di nuovo in un’altra acrobazia vocale, ed era sempre un gioco, nel suo caos organizzato. Amy era una dei grandi perché non cantava mai perfetta ma con la sua voce scivolava in posti che suonano insoliti, come se non ce la facesse davvero, ma poi ce la fa, sempre, trovando in una sincope il tono della bellezza. Amy era impeccabilmente genuina, armoniosamente bizzarra, impenitentemente ambiziosa, qualcosa di raro nel mondo della musica. Le aspirazioni di Amy non conoscevano limiti, nemmeno a diciannove anni quando rilasciò un’intervista a Matt Wilkinson:

“Quando ero piccola la musica che era nelle classifiche pop o la musica che la gente pubblicava in quel periodo, beh, io pensavo semplicemente che quella non fosse musica, che fosse annacquata o che fosse una schifezza, che qualcun altro l’avesse scritta per te e tu dovessi cantarla, è molto simile a certa musica odierna. Quindi ho iniziato a scrivere musica per sfidare me stessa, sai, per vedere cosa potevo scrivere e, semplicemente, perché non c’era nient’altro che potessi ascoltare in quel momento. Avendo ascoltato molto jazz e grandi cantautori come James Taylor e Carole King, sentivo che non c’era niente di nuovo – uscito in quel momento – che mi rappresentasse davvero, che raccontasse come mi sentivo, quindi ho iniziato a scrivere le mie canzoni.”

Solo che la musica, l’arte e la passione delle persone sono materie da maneggiare con cura: sono qualcosa in più di titoli su cui speculare in borsa, perché si portano dietro un patrimonio di passione e affezione e anche di spessore della nostra vita social-culturale che non può essere derubricato a qualcosa di sacrificabile, da trattare come il titolo quotato di una materia prima, di un lotto immobiliare o di una start up. E Amy Winehouse, che scriveva canzoni sin da ragazzina, sapeva maneggiare l’arte narrativa con straordinaria potenza, e con l’arguta sfacciataggine di chi debutta con un disco perfetto e lo intitola Frank, giusto per mettere in chiaro a tutto il mondo da dove arriva, e chi l’ha formata.

Dedicato a Sinatra e ispirato alle grandi dive del jazz, Frank è un disco in cui non esiste l’opzione salta al brano successivo: mescola con riverenza jazz, hip-hop e r’n’b per creare qualcosa che suona totalmente originale, e fresco, e buono. Il songwriting di Winehouse è una ricreazione fra adulti, un imbroglio sensuale che gioca con le parole, i doppi sensi, le pause e gli accenti. Amy prende in giro ex fidanzati con ironia e dolcezza, e, quando, decide di aprire il suo cuore, è la penna che scrive il più contemporaneo degli equilibri tra intimità, elevazione e lussuria. Le canzoni fotografano scene di vita vissuta, cadute accidentali e sgambetti al nemico mentre alla fine della sera c’è sempre una ragazza che si guarda allo specchio e si pulisce il mascara che cola sulle guance.

Spesso avverto che la mia, la nostra riverenza per il suo fraseggio vocale e il fascino di una larghissima fetta della stampa per la sua vita privata, abbiano eclissato il rispetto che le va tributato come come cantautrice. La sua narrazione è davvero straordinaria. E alla fine si scrive, si fa musica, per liberare la vita, là dove è rimasta imprigionata, per tracciare continuamente linee di fuga. Questo faceva Amy, questo voleva. Un disco capace di rimettere tutto al posto giusto, anche solo per la sua durata. Non un minuto di più, non un minuto di meno. “Vorrei che le persone ascoltando la mia voce dimenticassero i loro problemi, per cinque minuti”, un desiderio scritto nella lettera di audizione per la Sylvia Young Theatre School nel 1997, un sogno realizzato, cara ragazza di Southgate.

I brani di Frank, e così quelli di Back To Black, non si fanno solo ascoltare ma possono essere visualizzati e memorizzati in un archivio sonoro che può distaccarsi dal ricordo che abbiamo della voce di Winehouse. Ci sono i jeans strappati di lui e le Marlboro rosso di lei, i dischi prestati e la maglietta dei Beastie Boys nel crepacuore cittadino e notturno di You sent me flying autonomamente dal funambolismo vocale di Amy.

È così raro che un’artista emerga quasi completamente formata nel modo in cui ha fatto lei, con una voce artistica e un’identità così distintive. Amy onorava il palco con un gusto per l’intimità e il trasporto emotivo capaci di far sbocciare la vera essenza dei brani, la risonanza della sua voce si univa spesso ad arrangiamenti minimalisti, a improvvisazioni epiche in cui si lasciava andare a scat e armonizzazioni. E il modo in cui, all’inizio di un brano, chiudeva gli occhi e sorrideva era la dichiarazione più sincera di una meraviglia che stava per accadere. E quando le meraviglie si sono fermate, è arrivato il dolore della fragilità, la rabbia di aver perduto troppo. Ma non è questa la parte della storia che deve essere raccontata. Perché c’è ancora e ci sarà sempre una bellissima sirena dai capelli corvini, l’eyeliner allungato sugli occhi verdi, i tacchi alti, una canzone da scrivere e una voce redentrice per sconfinare nella bellezza.

So we are history
the shadow covers me
the sky above
ablaze that only lovers see

 

 

Immagine di copertina © Valerie Phillips

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Autore

beatricepagni@minimaetmoralia.it

Beatrice Pagni è nata e cresciuta nella campagna toscana, figlia della miglior provincia cronica. Redattrice di minimaetmoralia, ha scritto e continua a scrivere di musica e cultura per diverse testate (Sentireascoltare, Il Mucchio Selvaggio, Il Foglio Letterario), oltre ad aver esplorato il mondo della web tv con l'esperienza targata Decamerette.

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