Il termine inglese reloaded sta a significare ricaricato. Si ricaricano i distributori di caffè, le macchine, le armi, le pagine web. Talvolta anche i cuori malmessi e ancor più raramente i dischi. Ma come si ricarica un disco che ha segnato un passaggio fondamentale nella storia del rock italiano? Un disco che ha tracciato una linea netta e lucidissima nel modo di approcciare lo stile cantautorale? A vent’anni di distanza dalla sua pubblicazione, lo scorso 11 ottobre, Piccoli Fragilissimi Film di Paolo Benvegnù torna a girare sul piatto e lo fa con una ritrovata intensità, frutto dell’aver recepito la potenza incondizionata di quelle undici tracce anomale e scheggiate di brulicante passione. Benvegnù, mastro artigiano del verso e decostruttore di abissi e linee melodiche, nel 2004 per il suo esordio solista dopo lo scioglimento degli Scisma, era stato capace di riscrivere un piccolo e prezioso vocabolario per non smarrirsi nelle private stanze del mondo canzone.

Il disco, pubblicato dalla sempre più brillante Woodworm e distribuito da Universal Music Italia, vede la produzione dello stesso Benvegnù – fresco vincitore della Targa Tenco per il miglior album con È inutile parlare d’amore, e del sodale Luca “Roccia” Baldini, per una versione reloaded che suona come “un’opera che scava a ritroso nel tempo con mani nuove e ancor più esperte, seppur più consumate, senza tradire l’originale ma dando nuova linfa e un fascino diverso ai brani, e diventa un progetto collettivo grazie a preziose e inaspettate collaborazioni”. Lo stesso Benvegnù racconta la natura di questo lavoro:

Un disco di racconti di frammentazione, volontà, liberazione e rimpianto. Come fosse una ricerca sul passato personale e comune. Velluto e sale sulle ferite. 2024. Piccoli fragilissimi film – Reloaded. Esistono ancora quei pensieri? E le ferite? Le assenze, le presenze, i danni ricevuti e provocati, sono serviti a qualcosa? Allora, solo le voci ed i suoni dell’altro possono rimarginare le ferite, completare le pagine, verificare le appartenenze. E finalmente si potrà capire. Se è stato il passato a divenire il futuro. Oppure se il futuro aveva già scritto il passato. Oggi è una giornata magnifica. La realtà non è che la somma di milioni di realtà adiacenti. Piccoli fragilissimi film – Reloaded non è una summa di canzoni con ospiti. È una ricerca individuale e collettiva sul respiro di ogni umano. Del suo desiderio. Delle sue inettitudini, dei suoi timori. E, come la lotta per la vita, è un crudelissimo inno alla gioia.

Benvegnù ricorda a tutti di essere sempre stato un fuoriclasse, con la sua lingua che appartiene tanto al regime della poesia quanto a quello della prosa, uno che adesso sembra godersi lo spettacolo messo in scena da altri – amici, amanti, frequentatori delle stesse dimensioni oniriche – con la solita umiltà che lo ha sempre contraddistinto. Perché se c’è qualcosa che manca al suo disco reloaded è proprio la superbia dell’autore. Le canzoni contenute in Piccoli Fragilissimi Film continuano a dimostrare una resistenza e una grazia che siamo soliti ritrovare a metà carriera, in quei dischi che banalmente appelliamo come definitivi; e si può essere così definitivi, come solchi profondi nella terra, con un disco d’esordio? Che peso possiamo dare oggi a questo riuscitissimo tentativo di rilettura di un album che era già seminale, anarchico, sbavato, erotico vent’anni fa? Piccoli Fragilissimi Film, con la sua compatta e terragna coscienza, rimane un brandello di eternità, nell’unione di canzoni che catturano al volo, per trattenerci lì col cuore schiantato. Canzoni alle quali, negli anni, non ho mai smesso di rivolgermi. Non solo per trovare risposte ma per formulare sempre nuove domande.

Dieci anni fa, in occasione di un’intervista seminotturna nel giardino del Cage Theatre, chiesi a Benvegnù cosa sognasse di fare quando era bambino e lui mi confessò che da piccolo era fermo, “come un albero”. Ho sempre pensato che in quella risposta, così cinematografica e lucida, albergasse molto delle intuizioni primigenie del suo cantautorato cardiaco, da sempre figlio della maturità di uomo che riconosce se stesso e tutto ciò che è stato, che combatte con le proprie paure e vive di parole, perché non può farne a meno. E quell’albero oggi lo ritrovo in chiusura di Piccoli Fragilissimi Film Reloaded, che è un fiume che scorre inesorabile, un fiume che solca un paesaggio, cattura il mondo e ce lo restituisce mutevole, più misterioso di quello che abbiamo abitato sinora. Ecco, è proprio nella chiusura del disco, affidata al distillato psych-jazzy di Isola Ariosto, che Paolo racconta la sua trasformazione in un albero, flessuoso, in mezzo ai ricordi di un passato lontano, autobus arancioni, domeniche gelate, siccità e uragani. Paolo Benvegnù è qui una cattedrale, un altissimo edificio dal quale il mondo abbraccia stagioni e illumina ancora una volta eroici paladini come Orlando, perché tutto è un mistero da non rivelare. E questo mistero che ci attira, oltre a offrire undici rivisitazioni della tracklist originale con duetti sempre a fuoco, regala appunto tre brani che non hanno mai fatto parte di un disco di Benvegnù: Preferisci i silenzi, vecchia conoscenza per chi segue il cantautore lombardo da molti anni, brano ultralunare che non ha trovato spazio nella scaletta dell’edizione originale del disco e che qui gode della presenza preziosa di Giulio Casale degli Estra. Natura totalmente inedita invece per Le gioie minime in coppia con Irene Grandi e Isola Ariosto, in tandem con Max Collini, oltre otto minuti a metà tra spoken word e divertissement, quasi un richiamo a quel capolavoro sempre poco citato che fu Giornalismo (recuperatela!).

E restano misteri, profondissimi e antichi, gli undici brani in cui Benvegnù offre un’attenzione armonizzata non solo al brano ma soprattutto all’ospite che lo prende per mano, sorprendendo spesso per la scelta di una vocalità che nell’altro non conoscevamo, o semplicemente, alla quale non eravamo abituati. Dinanzi ai brani di questo disco, capace di riappropriarsi della lingua, dei contenuti e delle politiche, gli undici artisti ospiti disvelano uno sguardo aperto e viscerale nell’approcciare un brano altrui. Penso alla curiosità geometrica del cantato di Giovanni Truppi che rende Il sentimento delle cose un passaggio sacro, penso al solenne minimalismo con cui Piero Pelù accarezza Fiamme, al vigore quasi garage di Aimone Romizi che mostra l’altra faccia di Suggestionabili, da sempre inno brutalista della dialettica emotiva, alla morbida disperazione di Motta che in Brucio smuove qualcosa più grande di noi, nel miracolo del respiro dell’altro, penso anche al coraggio della felicità con cui Veronica Lucchesi canta È solo un sogno, alla beatificazione notturna e pagana di Appino su Only for you, o ancora alla malinconica sospensione che Dente offre a Quando passa lei fino alla splendida scoperta dello sguardo di Lamante in Catherine, brano dalla prospettiva femminile in cui sopraffazione, disperazione e gioia traducono il nucleo di un incantesimo che si sfalda e diviene realtà. Forse perché, molto banalmente, le cose belle a distanza di anni e toccate dalle giuste anime, non possono che crescere.

Nelle scelte che fa, nella grazia che non accenna a perdere, nella cortese eleganza con cui lascia spazio all’altro, Benvegnù resta uno degli ultimi intellettuali vecchia maniera, con la capacità di sporcare la propria anima e la propria intelligenza del nucleo essenziale di quello che si appresta a raccontare: è uno sconquasso emotivo, mentale, intellettuale irradiato nel corpo e poi nelle piccole, fragilissime selezioni di chi ancora oggi, dopo vent’anni, scrive riconoscendo il miracolo della bellezza nella complessità magmatica della vita. E sono le canzoni, queste sante, blasfeme, canzoni con i loro stimoli, i loro slanci, le combinazioni di lingue e linguaggi, i loro spazi affettivi, sono sempre le canzoni a tornare prepotentemente nelle nostre esistenze, nella dialettica tra silenzio e parola-musica. Paolo Benvegnù coglie lo scavo e la tensione vibrante dell’osmosi tra la musica e le sonorità dell’esistenza dando corpo al più grande romanzo cinematografico del cantautorato degli anni duemila, una contemplazione che canta la sontuosità del linguaggio, che è musica, che è suono, che è luce, che è il fatto visivo del nostro essere piccoli, fragilissimi film.

 

Foto in copertina ©Antonio Viscido

Condividi

1 commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

beatricepagni@minimaetmoralia.it

Beatrice Pagni è nata e cresciuta nella campagna toscana, figlia della miglior provincia cronica. Redattrice di minimaetmoralia, ha scritto e continua a scrivere di musica e cultura per diverse testate (Sentireascoltare, Il Mucchio Selvaggio, Il Foglio Letterario), oltre ad aver esplorato il mondo della web tv con l'esperienza targata Decamerette.

Articoli correlati