Nuovo appuntamento per la rubrica a cura di Anna Toscano. Dieci domande a poetesse e a poeti per cercare di conoscere i loro primi avvicinamenti alla poesia, per conoscere i loro albori nella poesia, quali siano stati i primi versi e i primi autori che li hanno colpiti, in quale occasione e per quali vie, e quali i primi che hanno scritto. Le altre puntate sono qui.

Qual è la poesia che hai incontrato, e quando, che ti ha fatto pensare, per la prima volta, che fosse qualcosa di fondamentale?

Non ricordo la prima poesia incontrata, ricordo un fitto coro di voci che a un certo punto mi ha trovata, chiamata per nome. All’inizio ero così ammaliata dalle parole che l’autorialità mi sembrava un dato irrilevante; esse erano qualcosa di preesistente, di spirituale: più semplicemente qualcosa di sacro. Erano preghiere più gentili, che non chiedevano in cambio nessuna devozione da cattedrale. Poi un giorno, alla radio – avrò avuto vent’anni – qualcuno lesse una poesia molto intensa di Antonia Pozzi. Si intitolava “Canto della mia nudità”, e conteneva una voce che per me era come un risveglio. Mi parlava da una zona fonda e ancora ignota, mi impediva ogni sperpero, ogni distrazione. Mi educava a una sacralità che fino ad allora non avevo considerato adatta a me.

Qual è il primo autore o autrice che ti è rimasto/a in mente come poeta?

Forse Montale, che non comprendevo fino in fondo, eppure dai suoi versi sentivo arrivare una forza di pensiero e parola capace di scardinare ogni baricentro di vita. Mi stordiva quel perfetto collimare dell’immagine col sentire, quel riuscire a contenere il tutto (e l’ingombrante Nulla) nel poco che siamo. Quando Amelia Rosselli scrive “io sono grande e piccola insieme” credo provi a dare anche una definizione della poesia e dell’essere umano: che essi si frequentino da così lunga data, credo sia prova – oltre che di un bisogno reciproco – di un’intima somiglianza.

C’è stata una persona o un evento nella tua infanzia, o giovinezza, che ti ha avvicinato alla poesia? Chi era? Come è accaduto?

Con i libri ho dovuto cavarmela da sola, anche riconoscere la loro importanza è stata una questione privata. Si può amare qualcosa che non ti è accanto? Io credo che si possa addirittura sentirne una confusa e indefinita nostalgia. Non sono stata una bambina circondata da libri, ma quando mi capitava di osservarne qualcuno mi prendeva quasi un senso di smarrimento. Qualcosa di simile all’innamoramento. Poi, un giorno, la mia maestra delle elementari andò in vacanza e mi lasciò le chiavi di casa, il compito di aver cura delle sue piante, ma anche la disponibilità della sua piccola libreria domestica. Lì, oltre a scoprire alcuni romanzi che avrei amato per sempre, incontrai per la prima volta Cristina Campo e la Cvetaeva.

Quali sono i primi libri di poesia che hai cercato in una biblioteca o in una libreria?

Ho cercato Antonia Pozzi, dopo la lettura radiofonica cui accennavo. E in seguito la Pizarnik, la Szymborska, Rilke, Montale. Mescolavo tempi, luoghi, geografie. Ma come mi ha detto di recente la grandissima Silvia Bre, “tutte le poesie sono sorelle”. E aveva ragione. La sorellanza è proprio in questo meticciato continuo, in questo sconfinamento fluido. Come un rabdomante andavo alla ricerca di qualcosa che non sapevo nominare. Di certo non chiedevo consolazione (la migliore poesia sa approfondire il colpo non domarlo o evitarlo, e vive di un dolore illuminato). Inseguivo qualcosa che poi ho tentato di trattenere nei miei versi, quando ho cominciato a scriverne. Qualcosa che riesco a spiegare solo ricorrendo al vissuto. Ricordo che da piccola, quando i coltelli di casa perdevano la molatura e cominciavano a tagliare pigramente, li infilavo in un foglio di giornale, poi andavo con mio padre dall’arrotino per rifare il filo alle lame. L’uomo sostava col suo banchetto mobile a un crocicchio poco distante da casa. Quando arrivavamo, la prima cosa che notavo erano le sue dita cosparse di tagli, ma immediatamente dopo – appena la ruota per la molatura prendeva a girare velocemente incontrando il metallo inadempiente – quelle ferite sparivano, divorate dalle scintille dell’attrito. Ecco, per me poesia è sempre stato questo: riuscire a tenere insieme il taglio e la luce. Il battere dello spasimo e il levare d’un bagliore improvviso. Nel tempo ho cercato quelle voci che riuscivano a rendere affilatissime – e quindi pericolose – le parole (il che non esclude la luce, anzi la favorisce).

Il primo verso, o la prima poesia, che hai scritto e che hai riconosciuto come tale: quando è stato e in quale circostanza?

Questa domanda attiva in me un ricordo ulteriore, che mi fa sorridere. La prima in assoluto è stata una poesia scritta su commissione, per un compagno di classe innamorato d’una ragazza che aveva la mente altrove. “Tu leggi tanto”, mi disse, “dammi una mano”. E a me sembrò di mettere a frutto libri e libri di poesie d’amore e lunghe estati passate a desiderare le parole giuste per definirlo. Non fu una grande prova. E non ricordo che la vita sentimentale del mio compagno abbia subito modifiche nella direzione desiderata. Il foglio sarà finito in qualche manuale scolastico o lasciato cadere, quel giorno stesso, nel cestino dei rifiuti. So che anni dopo, quando l’infelicità riuscì a trovarmi cominciai a scrivere spontaneamente versi. L’esercizio di lettura mi aveva giovato. Il ritmo del mio malessere sapeva dove esattamente tagliare, quale parola espungere e quale trattenere. Per fortuna non si scrive solo nel (o per) dolore, ma nel mio caso, come direbbe Manganelli, è stato una musa decorosa.

Quando poi i versi sono arrivati copiosi, quali sono stati i tuoi pensieri?

Confesso che non sono mai arrivati copiosi. Nascono per aggregazione di sensazioni o immagini che mi visitano in maniera imprevedibile. In ogni caso agiscono con parsimonia. Non ipotizzo la stesura di una poesia, ma so che un giorno a un’ora imprevista, con una regalità epifanica, alcune parole sapranno trovarmi e fermare la mia attenzione. Ogni volta sembrano dire, Resta qui. Se le sento sincere, resto. Quando ne ho avute in numero adeguato per farne una raccolta, ho pensato che non poteva essere. Ogni tanto trascrivevo pigramente in rete pochi versi, finché qualcuno un giorno mi domandò quante ne avessi di simili. Fino ad allora avevo sempre e solo raccontato storie. Fu un grande stupore immaginare la possibilità di avere un altro strumento per andare al fondo di me e di quel che ero. Da quando scrivo versi, mi sembra di essere più intera, e che se mai dovessi frantumarmi troverei da qualche parte le dita giuste per far combaciare i margini.

Quando hai avuto tra le mani le tue prime poesie pubblicate, cosa è accaduto?

C’è stato uno stupore simile a quello che mi aveva invasa dopo aver cominciato a scriverle, ma più misurato. La meraviglia vera è nel fare le cose, nel sentirsi all’opera, più che nel constatare d’averle compiute. Mi piaceva l’idea d’aver dato una scansione, un ritmo, forse un ordine al caos che mi abitava. Di aver “visto” meglio e più in profondità, come la bambina della Ortese quando inforca gli occhiali nuovi, ma di riuscire a tollerare il mio stesso sguardo. Per anni avevo creduto di non poter scrivere dal malessere più totale, invece quel piccolo libro era la prova del contrario.

La poesia per te è più di una fede o quasi una fede?

Nel tempo la parola in generale è diventata la mia unica fede. Questo implica un affidarsi continuo, quotidiano. Lo faccio con una devozione più alta di quanto spesso sia disposta ad ammettere. Ho sempre avuto un certo pudore nel dichiarare l’urgenza di scrivere storie o fermare dei versi sulla pagina. Soprattutto il bisogno che ne avevo (e tuttora ho) non per sopravvivere, ma per vivere. Messa così credo sia diventata molto più di una fede.

La poesia inizia?

Come tutto ciò che parla dalle viscere della vita, non so attribuirle un inizio. Lei è immanente come un Dio, ma sa dare di più ed esigere molto meno.

La poesia finisce?

Il fondamento della poesia è il desiderio e non mi sembra che si possa smettere di desiderare finché si è vivi. In questa eternità inamovibile, in questo durare anche se altrove si potrebbe trovare uno spazio più comodo, trovo un grande senso di pace.

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

a.toscano@minima.it

Anna Toscano vive a Venezia, insegna presso l’Università Ca’ Foscari e collabora con altre università. Un’ampia parte del suo lavoro è dedicato allo studio di autrici donne, da cui nascono articoli, libri, incontri, spettacoli, corsi, conferenze, curatele, tra cui Il calendario non mi segue. Goliarda Sapienza e Con amore e con amicizia, Lisetta Carmi, Electa 2023 e le antologie Chiamami col mio nome. Antologia poetica di donne vol. I e vol. II. Molto l’impegno per la sua città, sia partecipando a trasmissioni radio e tv, sia attraverso la scrittura e la fotografia, ultimi: 111 luoghi di Venezia che devi proprio scoprire, con G. Montieri, 2023 e in The Passenger Venezia, 2023. Fa parte del direttivo della Società Italiana delle Letterate e del direttivo scientifico di Balthazar Journal; molte collaborazioni con testate e riviste, tra le altre minima&moralia, Doppiozero, Leggendaria, Artribune, Il Sole24 Ore. La sua sesta e ultima raccolta di poesie è Al buffet con la morte, 2018; liriche, racconti e saggi sono rintracciabili in riviste e antologie. Suoi scatti fotografici sono apparsi in guide, giornali, manifesti, copertine di libri, mostre personali e collettive. Varie le esperienze radiofoniche e teatrali. www.annatoscano.eu

Articoli correlati