
di Christian Raimo
Andare laggiu’, nell’Italia degli anni ’70,
(…i capelli stopposi che non mettono il balsamo,
quelle facce che non usano creme sul viso…),
tra le scritte sui muri, VIVA MAO, VIA DAL VIETNAM,
(tutte perfettamente in stampatello, da bimbi),
tra i megafoni che irruvidiscono le voci,
o tra le macchine che agli incroci stridono sui freni,
fermandosi ai semafori, incanalandosi nei vicoli:
mi è sembrato sempre come passeggiare con mio padre
prima che nascessi, accompagnare mia madre con le scarpe
con i buchi, che mangiava alla mensa a via De Lollis,
o si piazzava in casa qualche studente fuorisede
che non aveva piu’ i soldi per l’affitto.
Era il mondo prima che ci fossi. Prima che
il 9 giugno del ’75, Boninsegna segnasse
il gol della vittoria ad una Russia mal schierata in campo,
(questo racconta mia nonna del mio parto).
Una mitologia personale, insomma, costruita
fotogramma a fotogramma ritagliandomi di netto
ciò che è necessario per un Olimpo fatto in casa:
un pugno di tragedie sofoclee, uomini ed eroi,
martiri casuali, omicidi senza fonte e senza fine;
oppure: confondendo l’universo condiviso
con gli album personali: eccola una foto di mio padre
tale e quale a Satta Flores in C’eravamo tanto amati.
Per questo quel che occorre è un cromatismo differente:
le pellicole, prima che inventassero il metodo NR,
avevano una definizione grassa dei colori:
i grigi si confondevano coi verdi,
i rossi viravano quasi sempre verso il sangue.
È che non si era ancora emancipati dalla visione in bianco e nero
e da quel che sottendeva: divisioni manichee, separazione in classi,
plumbei contro rossi, smunti contro grassi.
E anche il corpo aveva una risonanza amplificata,
la pelle il territorio dove collaudare gli elementi:
quanto bruciava il cuore di Ian Palach? quanto era ostile
la terra per Pinelli? bastava inalare nell’aria
l’odore della polvere da sparo per scegliersi la parte
dove stare (inciampare, trattenersi in piedi)?
C’è una foto che congiunge le versioni vere e false dell’infanzia:
il tinello di una casa a via Palestro: mio padre con i postumi
di un incidente in macchina (il braccio con il gesso,
mia madre che gli taglia la carne a pezzettini),
e sulla parete in fondo, come in un quadro di Van Eyck,
una foto di chi aveva vinto l’Oscar l’anno prima:
l’idea di un tempo premoderno, cristallino, a suo modo perfetto,
la faccia di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.
Di fronte a questo tempo, che di sua sponte personale,
segna sul muro accanto al frigo le tacche della crescita,
oppure, nei ritagli di mia madre, il calendario dei lutti dello Stato,
il viso di mio padre si confonde ancora con le immagini dei film,
la sua voce con quella dell’attore appeso, il suo feticcio:
“La politica”, lui dice, “è tutto, e’ in ogni cosa.
Non è la scelta di un partito, gli schieramenti, il voto,
non è la differenza tra cinema impegnato da una parte,
e dall’altra genere & consumo per le masse.
Il western è politica, la commedia, il poliziesco,
i movimenti della macchina da presa,
i dolly, la luce degli interni, il montaggio associativo.
E’ politica finanche l’astenersi dal far cinema:
scegliere di rinunciare a dei ruoli compromessi,
preferire un film di un cileno mai sentito
alla megaproduzione del Padrino.
Rovesciare il meccanismo del divismo:
fare come Cincinnato, nel momento del successo, decidere
di tornarsene a coltivare l’orto, a far teatro nelle piazze
come non fossero passati dei millenni”.
Da ragazzino avevo il terrore di scoprire
che mio padre fosse un brigatista
che da un momento all’altro avrebbero arrestato
(di notte mi rialzavo per andare a controllare
se la porta fosse chiusa, e che non si facessero riunioni
dentro casa). Forse mi accecava come le sue parole
slittassero direttamente da quelle dei libri che leggeva.
Parlava di potere e di rivolta,
diceva “la presenza informe e spettrale della polizia,
il vuoto di morale che può creare un potere autoritario”,
oppure: “cosa accade quando svanisce la distanza
tra violenza che pone la legge
e violenza che la legge la conserva?”,
aveva lo stesso tono acido dei personaggi che apparivano in tv,
portava gli stessi baffi esatti della gente che mostravano in manette.
E quando si infoiava, assumeva le fattezze
di Vanzetti mentre fa quel discorso lungo in tribunale.
Alle volte, nei sogni o lì vicino, gli chiedevo:
“Papà, sei comunista?”. E al suo posto rispondeva
la voce di Cucciolla: “I giochi”, mi diceva,
come in un’altra scena da memoria, “dividili con gli altri”,
o magari si metteva ancora piu’ vicino:
dopo dieci ore di lavoro in mezzo ad agenti chimici e solventi,
non era per talento che riusciva ad imitare
i movimenti isterici dell’operaio Massa,
(sempre il suo attore preferito,
che scambia il sol dell’avvenire e il paradiso):
quando mi accarezzava (le unghie rovinate,
i polpastrelli fastidiosi al tatto), era come se cercasse
anche in un bambino di sei anni,
una forma di coesione, di solidarietà, un patto,
o forse solamente un po’ di comprensione
per il suo sorriso annerito dal tabacco.
Christian Raimo (1975) è nato a Roma, dove vive e insegna. Ha pubblicato per minimum fax le raccolte di racconti Latte (2001), Dov’eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (2004) e Le persone, soltanto le persone (2014). Insieme a Francesco Pacifico, Nicola Lagioia e Francesco Longo – sotto lo pseudonimo collettivo di Babette Factory – ha pubblicato il romanzo 2005 dopo Cristo (Einaudi Stile Libero, 2005). Ha anche scritto il libro per bambini La solita storia di animali? (Mup, 2006) illustrato dal collettivo Serpe in seno. È un redattore di minima&moralia e Internazionale. Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi Il peso della grazia (Supercoralli) e nel 2015 Tranquillo prof, la richiamo io (L’Arcipelago). È fra gli autori di Figuracce (Einaudi Stile Libero 2014).
1) il bianco e nero è tutto meno che manicheo. E’ sfumato, complesso e sottile
2) Italia – URSS (NON “Russia”) fu giocata l’otto giugno 1975, non il nove. Boninsegna non era in campo. E gli azzurri non hanno vinto uno a zero, hanno PERSO uno a zero (marcatore Konikov del Dinamo Kiev, come peraltro l’intera nazionale sovietica, al diciottesimo della ripresa su passaggio di Mountian)
Due precisazioni puntigliose e nient’altro? Non mi sembra il caso, davanti a una poesia così plastica e stupefacente che mi ha lasciato a bocca aperta. Grazie, Christian.
Beh, oddio, allora sarebbero puntigliose anche le precisazioni del Pascoli sul Leopardi, che non sto qui a ripetere in quanto ben note. E il Pascoli aveva perfettamente ragione.
E, con tutto il rispetto, Raimo non è Leopardi. Almeno in poesia facciamo a meno di intoccabili; un buon metodo è la precisione, o il puntiglio, se preferisci.
italia,dove ancora nel 2013 ci guardiamo davvero troppo ” indietro”
(nel 1999-2000 a bologna me lo diceva già un ricercatore nipponico,che “..in italia guardate troppo agli anni 60-70 troppo,troppo..è questa la causa della vostra debolezza come sistema paese,non guardate mai avanti…”)
È logico che guardi indietro quando scrivi un componimento poetico sui tuoi anni di formazione.
E se, guarda caso, erano gli anni settanta quando l’autore era fringuello lui cosa ci può fare?
Il periodo sunnominato, poi – e questo è ormai chiaro a tutti – è stato l’ultimo ciclo epico di questo paese prima dell’avvento del nulla.
Ce voleva puro er ricercatore nipponico a rompece ‘sta para de coj…
eh no,no troppo facile cavarsela così:quando i new il new york times ci diede una strigliata da cavallo,nel 2006,pressapoco disse la stessa cosa (“un paese fermo..dove davvero non si guarda avanti”etc etc)e dire che nel 2006-2008 l’economia andava ancora bene…
che i 70’s fossero o meno l’infanzia di raimo (o mia,son del 76)cambia poco,ma da nessuna parte sta scritto che “è stato l’ultimo ciclo epico di questo paese prima dell’avvento del nulla.”: avrei legioni di 50-60 enni qui a bologna-a bologna,non a orvieto eh… che dicono che i primi problemi grossi apparvero gia allora..ma non furono avvistati per tempo
ogni tanto davvero come diceva il nipponico sopra (che nel frattempo, a poco piu di 40 anni,oggi,cioè 12 anni dopo circa,è professore universitario,dalle sue parti,e tutti sanno quanto sia duro il sistema educativo ed universitario giapponese..)forse è meglio lasciar da parte gli argomenti inflazionati,quali appunto i 70’s
che poi nell ambiente culturale ci siano un sacco di nostalgici di epoche che non han mai visto(per motivi anagrafici)si sa,ma davvero ..che noiaaa!
(se si facesse a gara poi,credo che gli 80’s avrebbero mila fans in piu,ma anche i 90’s,piu filosofici,diciamo, se la caverebbero bene…)