ingresso ufficio campagna elettorale Abdullah Faizabad

Riprendiamo il diario elettorale afghano interrotto subito dopo il primo turno delle presidenziali del 5 aprile. Il 14 giugno si terrà il ballottaggio. Giuliano Battiston è tornato in Afghanistan a sentire che aria tira. Un diario elettorale bonsai è sul suo profilo Twitter e su Tumblr. (La foto è di Giuliano Battiston.)

Kabul. Giovedì 5 e venerdì 6 giugno 2014

Dollari americani, barbe lunghe e citazioni dal Corano si sono incrociati ieri mattina nella sala conferenze del Kabul Star, albergo di lusso a due passi dall’ambasciata iraniana e a quattro dall’ospedale di Emergency. Per almeno un paio d’ore alcuni leader religiosi, rappresentanti del ministero dell’Haj per gli affari religiosi e membri della società civile hanno discusso del ballottaggio che si terrà il 14 giugno tra il tecnocrate Ashraf Ghani e l’ex ministro degli Esteri Abdullah Abdullah.

Barbuti (mullah e Ulema) e incravattati (funzionari dei ministeri e della società civile) non erano lì per sostenere l’uno o l’altro candidato alla presidenza. Ma per dire che le elezioni sono compatibili con l’Islam; che il voto è un dovere di tutti e che vero peccato (Haram) per l’Islam sono le frodi e la corruzione. Chi compirà brogli “sarà punito da Allah”, ha ammonito Abdul Malik Zeyayee, a capo del Dipartimento che gestisce tutte le moschee registrate nell’elenco governativo nazionale. Si dice siano 55.000. Strumento per veicolare messaggi e orientare le scelte.

I Talebani bollano le elezioni come una farsa imposta dagli infedeli, il cui esito è deciso a Washington. Gli Ulema governativi sono chiamati a difendere e diffondere un’opposta propaganda: “votate, votate, votate”, perché “con il voto e con il consolidamento della democrazia elettorale si consolida l’Islam”, ha provato a spiegarmi ieri mattina Haroon Balwa, a capo di Democracy International, principale sponsor della giornata. Democracy International è l’agenzia che fornisce in tutto il mondo “servizi di analisi, assistenza tecnica e realizzazione di progetti per la democrazia e i programmi di governance”, come recitano gli opuscoli.

Dietro a Democracy International c’è Usaid, l’agenzia governativa degli Stati Uniti che “promuove gli interessi americani mentre migliora le condizioni di vita del mondo in via di sviluppo”. Negli scorsi mesi, in previsione delle elezioni presidenziali del 5 aprile e ora del ballottaggio del 14 giugno, Usaid ha sborsato un mucchio di dollari per incoraggiare il voto. Lo scopo è evidente: dimostrare che le cose in Afghanistan funzionano e che dopotutto Bush non aveva così torto quando diceva di voler esportare democrazia a suon di bombe.

Il meccanismo è semplice: si stanzia una bella cifra e la si distribuisce tra varie Ong e organizzazioni della società civile. Oppure si mettono in piedi nuovi network per l’occorrenza. In cambio ci si aspettano progetti di “public awareness, women partecipation, advocacy, etc etc” per le donne, i giovani, i mullah, i disabili etc. Perché se non si vota, o se a votare vanno in pochi, il teatrino salta. Alcuni afghani stanno al gioco: qualcuno per interesse, qualcuno per ignoranza, qualcuno perché non ci vede niente di male, altri perché credono davvero in ciò che fanno (e se per farlo serve l’aiuto degli americani, “beh poco male, tanto prima o poi se ne andranno”).

Il meccanismo è praticato in mezzo mondo: l’intervento militare sempre più ha bisogno di essere accompagnato (spesso anticipato) da interventi in ambito civile. Hard power e soft power vanno coniugati, insegnano nelle scuole di politica internazionale. A volte funziona, a volte no. Qui in Afghanistan funziona in certi posti, in altri no. Nelle città funziona (con una parte della popolazione). Nelle aree rurali no. Lì tutto ciò che viene dal governo centrale e soprattutto dagli internazionali è guardato con sospetto. Spesso con ostilità. Se il suo discorso sui brogli e le elezioni Abdul Malik Zeyayee, il “capo” delle moschee, andasse a tenerlo – mettiamo – in una moschea di un villaggio della provincia orientale del Kunar, probabilmente non ne uscirebbe integro. Ma ieri al Kabul Star era tutta un’altra musica. C’era perfino la tv.

Intanto siamo a meno 5. Mancano solo 5 giorni alla fine della campagna elettorale per il ballottaggio tra Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah. Qualche giorno di silenzio e poi, il 14 giugno, gli afghani voteranno per sostituire il presidente Hamid Karzai, al potere dal 2001. In queste ore i toni si stanno alzando, i comizi si fanno più frenetici, la ricerca del consenso più convulsa. Donne influenti, mullah governativi, società civile, candidati: sono in tanti a indire conferenze. Soprattutto a Kabul, i giornalisti corrono da una parte all’altra per darne conto.

Ieri alcune deputate con un bacino elettorale consistente hanno annunciato che voteranno per Abdullah Abdullah, ex ministro degli Esteri e leader del Jamiat-e-Islami, partito a maggioranza tajika. Tra loro c’è anche la deputata Fawzia Kofi, volto noto che piace alla comunità internazionale. Al primo turno Kofi sosteneva il candidato sponsorizzato da Karzai, Zalmai Rassoul, arrivato solo terzo con l’11% dei voti. Rassoul ora sostiene Abdullah. Come lui, la deputata Fozi e le donne che rappresenta. A loro Abdullah ha assicurato, se eletto presidente, più diritti, più inclusione sociale, maggiori protezioni, ruoli governativi.

Quella delle deputate influenti è solo l’ultima adesione ricevuta da Abdullah. Al primo turno ha preso il 45% dei voti, ora tutti si dicono suoi sostenitori. Ghani è costretto a rincorrere. Parte dal 31% di voti del primo turno. Le sta tentando tutte. Nel tardo pomeriggio di ieri ha tenuto una lunga conferenza stampa al liceo francese di Kabul. Ha spiegato il suo piano economico per il futuro del paese.

È l’economia il terreno su cui insiste. Ghani ha lavorato alla Banca mondiale, pianificando programmi di aggiustamento strutturale. Si presenta come il tecnocrate che sa come va il mondo e come integrare l’economia locale nella cornice asiatica e internazionale. Ma la sfida è difficile. Le capacità da tecnocrate comunque piacciono solo a una parte dell’elettorato. Quello urbano, giovane, che guarda al futuro e lo immagina modellato sui paesi occidentali.

Ma c’è una parte della popolazione a cui Ghani proprio non piace. C’è un elettorato, quello conservatore, che va rassicurato. Il sostegno ricevuto ieri da parte di un folto gruppo di religiosi e mujaheddin influenti serve a questo. A mostrare che anche lui, nonostante i tanti anni passati all’estero e la moglie libanese-cristiana, è un musulmano doc, un vero afgano. Di meritocrazia ed esperienza da premiare ha parlato perfino il quasi novantenne Sibghatullah Mojaddadi, già presidente dell’Afghanistan. “Ghani ha sottoscritto un documento in cui si impegna a rispettare la Sharia e l’Islam”. Impegno vago, comunque utile per accreditarsi un po’ tra i conservatori e i mujaheddin (la galassia degli ex comandanti militari con più meno potere politico-militare).

Il tecnocrate liberale e liberista dunque strizza l’occhio ai conservatori, per recuperare voti, ma il doppio-profilo anziché aiutarlo potrebbe indebolirlo. E lo espone a brutte figure: nei giorni scorsi uno dei nuovi sostenitori di Ghani ha giocato esplicitamente la carta etnica: Ghani va votato perché un pashtun rimanga presidente e per evitare che lo diventi un tajiko come Abdullah Abdullah. Mentre la Commissione elettorale indipendente chiede che venga evitati riferimenti all’appartenenza etnica.

A pochi giorni dal ballottaggio, Abdullah macina consensi, Ghani rincorre disperato. E i Talebani festeggiano la liberazione dei “Guantanamo five”, i cinque barbuti liberati in cambio del sergente Bergdahl. I Talebani hanno ragione a festeggiare: il negoziato per lo scambio del soldato americano catturato in circostanze poco chiare nel 2009 è un successo politico. Lo aspettavano da tempo. Da tempo cercano di smarcarsi dall’etichetta che li vuole semplici sodali del terrorismo jihadista di matrice qaedista per affermare la propria autonomia. Quella di un gruppo politico che usa anche gli strumenti militari per resistere all’occupazione straniera. Alla Casa Bianca non lo dicono, ma con lo scambio di prigionieri hanno legittimato politicamente i turbanti neri. Non più terroristi, ma attori politico-militari con cui si può e in alcuni casi si deve dialogare. Il fatto che il negoziato sia stato mediato dal governo qatarino serve a dire che non è vero, che non si è trattato con i terroristi. Ma i fatti parlano chiaro. E indicano la necessità di un mediatore che sia considerato neutrale anche dai Talebani, se si vuole far ripartire il processo di pace.

Non è chiaro se i cinque barbuti liberati da Guantanamo possano favorire il negoziato. Sono stati rinchiusi a Guantanamo chi per 12, chi per 13 anni. In quattro casi su cinque sulla base di documenti di intelligence fasulli, pieni di inesattezze (su questo torneremo nella prossima puntata del diario). Due di loro sono stati arrestati con l’inganno quando – caduto il regime talebano sotto le bombe americane – avevano deciso di “costituirsi” o negoziare la resa in cambio dell’immunità o di un corridoio di passaggio. Gli è andata male. Sono finiti nel buco nero della legalità internazionale. Nel carcere di Guantanamo. Viene da chiedersi se siano stati trattati meglio i cinque barbuti a Guantanamo o il sergente Bergdahl nell’area di confine tra l’Afghanistan e il Pakistan. Viene da chiedersi che differenza passi tra il governo degli Stati Uniti e i “barbuti” islamici quando si tratta di fare la guerra e combattere i nemici.

Dal fronte dei barbuti arrivano notizie di grandi festeggiamenti; il mullah Omar – la cui leadership è contestata ma che rimane simbolicamente indispensabile – ha rilasciato un messaggio in cui ringrazia l’emiro del Qatar e annuncia l’imminente vittoria sulle truppe infedeli. Obama pochi giorni fa ha annunciato il ritiro completo delle truppe a stelle e strisce per la fine del 2016. I Talebani non hanno fretta. Aspettano che gli stranieri sene vadano per negoziare da una posizione di forza maggiore con il governo afghano. Che sia Abdullah Abdullah o Ashraf Ghani, il successore di Karzai avrà delle belle gatte da pelare. E dovrà guardarsi sempre le spalle. Poco fa, qui a Kabul, nel quartiere di Kot-e-Sangi il candidato Abdullah è scampato a un duplice attentato: almeno una sua guardia del corpo e un autista sono morti, insieme ad altri due civili. I feriti per ora sono 17.

L’attacco è preoccupante. Potrebbe segnalare un cambio di strategia dei Talebani, che finora non hanno mai puntato ai candidati, cercando di sabotare il processo elettorale con attentati rivolti agli osservatori locali e internazionali, ai centri di voto, etc. Nel caso uno dei due candidati dovesse rimanerci secco, l’Afghanistan rischierebbe di implodere. Sotto i colpi delle accuse reciproche. Il ballottaggio del 14 giugno si avvicina. E in molti qui a Kabul scommettono che le soprese non finiscono qui.

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Autore

g.battiston@gmail.com

Giornalista e ricercatore freelance, direttore dell’associazione di giornalisti indipendenti Lettera22, collabora con quotidiani e riviste tra cui l’Espresso, il manifesto, Gli asini, il Venerdì di Repubblica, oltre che con Radio3 e l’Ispi. Docente di “Tecniche di reportage” alla Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso, è coordinatore scientifico di Collettiva.org e dal 2010 al 2018 ha curato il programma del Salone dell’editoria sociale. Con Giulio Marcon ha curato "La sinistra che verrà. Le parole chiave per cambiare" (minimum fax 2018). Per le edizioni dell’asino ha pubblicato "Arcipelago jihad. Lo Stato islamico e il ritorno di al-Qaeda" (2017) e due libri-intervista: "Zygmunt Bauman. Modernità e globalizzazione" (2009) e "Per un’altra globalizzazione" (2010). Dal 2008 si dedica all’Afghanistan con viaggi, ricerche, saggi.

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