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Pubblichiamo un pezzo uscito su Linus, che ringraziamo.

di Andrea Colamedici e Maura Gancitano

Ci sono espressioni che entrano nel linguaggio comune e che iniziamo a usare senza domandarci quale sia il loro reale significato e quanto, di conseguenza, ci influenzino. Una delle più diffuse e pervasive è tatuata sul dorso della mano sinistra di Gianluca Vacchi, influencer da dodici milioni di seguaci, poco sotto la scritta Enjoy e subito sopra Prendi in mano la tua vita: è la parola RESILIENZA, considerata dai più come la panacea di ogni male e la via d’uscita perfetta dai nostri tempi oscuri, complessi e faticosi. Bisogna impadronirsi della propria esistenza, non farsi sovrastare dagli avvenimenti, riuscire ad affrontare qualunque situazione spiacevole. Eppure, a guardarla bene, resilienza è la perfetta negazione di questi consigli.

Si tratta, infatti, di un termine mutuato inizialmente dall’ingegneria che ha attraversato la biologia, l’informatica, l’ecologia, la psicologia e che negli ultimi anni è finito con il descrivere la capacità di resistere agli urti, di tornare a se stessi dopo aver vissuto un trauma o una deformazione. Come i metalli che subiscono urti e manipolazioni ma poi tornano uguali a come erano prima, così siamo invitati a fare noi. Come gli Sbullonati, quei pupazzetti degli anni ‘90 ai quali si infliggevano sadicamente crash test e torture terribili, perché tanto tornavano sempre come prima (pezzo più, pezzo meno).

Essere resilienti significa, quindi, aspettare passivamente che le cose spiacevoli passino e che i tempi ridiventino floridi. Rappresenta il desiderio che tutto ritorni com’era nel passato e non offre  azioni da compiere per cambiare le cose nel presente. Nella resilienza non c’è l’idea di agire attivamente per affermare qualcosa in cui si crede, non c’è visione del futuro. Bisogna godersi edonisticamente la vita, subirne gli impatti momentanei e tornare poi identici a prima.

Di fronte a un mondo incomprensibile, l’unica cosa fattibile è proteggere se stessi e la propria identità, sforzandosi esclusivamente di ricomporsi dopo l’inevitabile tornado del giorno. La resilienza è la chirurgia plastica dell’io, è la malattia che si spaccia per cura, è l’inno all’efficienza consumistica, è il ribadire sempre quel che si è senza soffrire integralmente, senza spezzarsi mai. La resilienza ha alla base la comprensione dell’assenza di senso della vita, e per questa ragione porta a rendersi funzionali al mondo, che può così masticare e scaricare ciò che siamo senza rischi e rimorsi: tanto siamo resilienti, sappiamo trarre il meglio da ogni cosa: nulla ci tocca davvero. E così, a forza di assecondare i colpi della vita, a forza di fingerci stoici senza esserlo davvero, come resilienti diventiamo semplicemente impotenti. Sempre più bravi a rialzarci dopo essere caduti, perdiamo gradualmente la capacità di restare a terra nel dolore.

Fa bene, invece, fissare il suolo. Essere Sbullonati Resilienti fa il gioco della società neoliberista e consumistica che abitiamo, che ha bisogno di individui senza sogni, senza futuro e senza immaginazione, che il potere può indirizzare dove vuole.

Cosa vuol dire Resistenza?

Se proprio vogliamo usare un termine preso in prestito dall’ingegneria, riprendiamoci il concetto di resistenza, cioè quella capacità dei corpi di opporsi al passaggio di una corrente. Chi resiste non si limita ad aspettare che la tensione passi, non fa finta che non stia succedendo niente, ma si oppone attivamente. Un corpo resiliente è un corpo passivo, mentre un corpo resistente è un corpo vivo, che subisce ferite e trasformazioni dalla forza ostile e non fa finta che non stia succedendo niente. Prova dolore e fastidio, e ciononostante continua a resistere.

Resistere significa fare esperienza, rischiare di farsi male e di sparire pur di opporsi alla distruzione generale. Nello scenario italiano attuale, più che di un fronte di resilienti pronti ad assorbire il colpo dell’ignoranza, del razzismo, della soppressione graduale dei diritti sarebbe cruciale l’apparizione di una nuova resistenza che sappia porre limiti invalicabili etici, sociali, politici.

Il nichilismo attivo

La resistenza è il punto di partenza di quello che Nietzsche definiva nichilismo attivo. La tua resistenza potrebbe spezzarti e non cambiare niente, ma tu resisti lo stesso, non accetti la distruzione totale, e in questa tua spinta a resistere non c’è solo il tuo interesse personale, c’è l’aderenza a un’etica nuova e a un sistema di valori condivisi che ti supera. Come i passivi, anche i nichilisti attivi sono consapevoli dell’assenza di senso della vita ma, a differenza dei primi, non si limitano a lasciarsi andare e accettano piuttosto la vita nella sua complessità e nel suo caos, disponendosi a diventare altro da quel che sono già, senza però mai rinunciare a misurarsi con il mondo. La parola resistenza viene dal latino re-sistere, letteralmente essere saldi, forti, stabili senza perdere la posizione acquisita. Perché nessun diritto è mai dato per sempre, e bisogna vigilare costantemente affinché venga rispettato e protetto. Essere resistenti significa non essere mai docili, non smettere mai di essere “infuriati, infuriati contro il morire della luce”, per dirla con Dylan Thomas.

Tu cosa scegli?

Chi è resiliente può evitare di esporsi, può nascondersi, può non sentirsi responsabile di ciò che gli succede intorno. Chi resiste, invece, si prende in carico ciò che gli accade intorno e, dopo aver resistito, non è più uguale a prima. L’abisso tra resilienza e resistenza è quindi l’esperienza, perché l’autentica esperienza ti trasforma, non ti fa mai tornare uguale a prima. La resilienza e la resistenza sono due approcci diversi e irriducibili che hanno molto a che fare con la storia d’Italia: da un lato trasformismo, passività e interesse personale, dall’altro trasformazione, attivismo e bene comune. Come spiegano Evan e Reid in Resilience Life, «la resilienza è parte del passaggio politico fondamentale da regime liberale a regime neoliberale; un nuovo fascismo con implicazioni disastrose e antiumaniste».

Basta osservare l’utilizzo che viene fatto quotidianamente del termine per accorgersi che questa definizione è semplicemente perfetta: la resilienza individuale (ben diversa dalla resilienza delle comunità e delle popolazioni, a cui sono stati dedicati studi antropologici molto interessanti) è l’atteggiamento naturale di chi vive nella rassegnazione e nell’ansia cronica, che ha paura di perdere il controllo delle cose e di costruire un nuovo senso della vita.

Resistere, rischiare, essere antifragili

Quando si attraversano tempi bui quello che i resilienti scelgono di fare è aspettare che passi, in modo da tornare come prima. I resistenti, invece, colgono quella situazione come una sfida e trasformano il trauma in epica. Quando il tornado è passato, i resistenti non devono quindi nascondere il proprio lassismo e l’irresponsabilità, non devono insabbiare la storia, ma possono vivificarla e renderla memoria, cioè strumento condiviso che permetta di mantenere alta l’attenzione.

Se la resilienza è desiderio di mantenere lo status quo, la resistenza è correre il rischio della trasformazione. In questo senso, il filosofo Nassim Nicholas Taleb propone l’espressione “antifragile” in riferimento a tutto ciò che trae vantaggio dagli scossoni, che prospera e cresce quando è esposto all’avventura, al rischio e all’incertezza. L’antifragile migliora di fronte alle difficoltà, non si limita a riprendere la forma precedente. L’antifragilità implica il misurarsi con l’ignoto, affrontare l’incertezza, spingersi più in là.

Un resiliente può isolarsi e pensare al proprio puro godimento, mentre un resistente ha sempre bisogno di una dimensione collettiva. Il pensiero comune ci fa pensare che questa sia debolezza, invece è forza. Come cantava De André in La mia ora di libertà, un singolo resistente può al massimo rinunciare alla propria ora d’aria senza cambiare le cose, mentre se un gruppo di resistenti si unisce può arrivare a imprigionare simbolicamente i secondini.

Lasciamo quindi gli Sbullonati alle persone prive di fantasia, e per riconoscerci resistenti riprendiamoci la meraviglia dei Lego: che possono trasformarsi continuamente, diventando un castello, un leone, una nave, che amano la sfida dell’immaginazione e che possono diventare qualcosa di incredibile solo quando costruiscono insieme.

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18 commenti

  1. Ah, complimenti e grazie per questo articolo! Continuate così. Una vostra resistente lettrice.

  2. Ma siete fuori. Guardate che resilienza non significa quello che è scritto nell’articolo. Basta fare una ricerca su Google per rendersene conto.

  3. Interessante riflessione che illumina una zona d’ombra. Dopo aver letto, mi considero una resistente acchiappaparole, perché le parole possono essere armi o strumenti di pace e di resistenza. Non lo sapevo ma avevo bisogno del vostro articolo. grazie!

  4. È molto suggestiva l’immagine del resistente capace di trasformare una esperienza traumatica in situazione “epica”. Questo credo che aiuti molto a comprendere il senso dell’intero articolo. Che è politici, etico, sociale. Dunque, necessario.

  5. Resilienza è un’altra cosa. Per quello che descrivete – assorbire le botte di un reale che non riusciamo e non vogliamo cambiare, fino ad annullarci – funziona meglio il termine anestesia, o letargia.
    Né mi entusiasma molto il concetto di resistenza, messe da parte le suggestioni storiche.
    Vorrei rivendicare l’essere felice qui, adesso, nonostante l’odio e la miseria intorno. E questo benedetto altro mondo possibile, voglio averlo già , esserlo già, sennò che ci sto a fare.
    Resiliente, resistente, già oggi faccio quello che è giusto. E mi diverto pure.

  6. In sintesi, il senso dell’articolo: ‘resilienza’ non fa parte del corredo lessicale della nostra parrocchietta, quindi la identifichiamo con la Lingua del Nemico e le preferiamo ‘resistenza’.
    Sull’uso a c.d.c. delle metafore scientifiche, suggerisco il meritorio ‘imposture intellettuali’ di Sokal e Bricmont, ahimè quasi introvabile nell’edizione italiana (indovinate un po’ il perché).

  7. Allora ok, in effetti dipende dal termine, se non intendiamo resilienza in termini del tutto passivi, potremmo parlare anche se saper ascoltare, riuscire a parlare in certi termini per far passare un messaggio, rimanendo sè stessi. Però mi è sembrata una critica poco costruttiva. Adattare un linguaggio in un momento in cui la propaganda ha reso settori della popolazione in parte resistenti e restii a certi moti di impostare il discorso.
    Ancora non ho capito bene il post ideologico, nel senso che sembra che in teoria si riconosca alla sinistra un ideale, ma che o questo sia utopistico o che comunque chi la rappresenta non ne sia all’altezza, facendo però cadere il tabù di eleggere un ex missino, salvo che però comunista sembra un marchio di infamia e fascista non più, quindi si contraddice, in questo senso.

  8. Prima di scrivere inesattezze pseudo-intellettuali, il mio professore di metodologia mi insegnò a prendere in mano il vocabolario, meglio se etimologico e studiare il significato delle parole che intendevo usare . Resilienza deriva da “resalio”, quarta coniugazione latina, iterativo di “salio”, ovvero l’atto del naufrago di risalire sulla barca rovesciata dal mare. Un atto tutt’altro che passivo.

  9. Carlo il 13.4.2020 e Bandini il 15.6.2019 ribaltano totalmente la tesi del documento. io sarei propenso a dire che la posizione di Carlo e Bandini sia piu giusta rispetto agli altri commenti e allo stesso documento principale. intanto mi chiedo, se avessero ragione Carlo e Bandini, come sia possibile che Linus prima e “minima & moralia” poi prendano un tale abbaglio. ma a questo punto andrebbe aperto un dibattito e andrebbero coinvolti, oltre agli autori del documento principale, soggetti più attendibili e preparati come docenti, accademici ecc. per una questione di verità e onestà intellettuale. e per ristabilire la corretta versione.

  10. Penso che sia vero soprattutto che la parola “resilienza” negli ultimi anni viene usata moltissimo e a sproposito: tutti amano riempirsi la bocca di questo termine, che fa tanto colto, più o meno con l’accezione citata nell’articolo.
    Credo che in realtà resilienza abbia un significato molto diverso in fisica e in ambito psicologico e che con un vago significato che assomma alcuni dei sensi che ha in questi due ambiti sia stata adottata nel parlare comune.

  11. gentile Valentina mi piacerebbe avviare un dibattito
    che coinvolga docenti e opinionisti per approfondire. come si potrebbe fare? lei che ne pensa?

  12. ….direi molto bello l’articolo a prescindere dal vero significato delle parole, non trovate ?
    Un dibattito sul giusto modo di affrontare un problema, un disagio , una avversità .
    Fino a che punto possiamo sopportare un vivere resiliente e quando è necessario resistere?
    Quando vale la pena lottare?
    Quando e inutile immolarsi per una causa morale , etica o sociale?
    In fondo a prescindere dal dibattito puramente lessicale del giusto significato delle parole , la vita ci mette in circostanze strane e controverse , sola una coscienza di massa rende la resilienza troppo blanda e la trasforma in resistenza.
    Consideriamo anche il fatto che la resilienza è un concetto utopico , perché niente ci calpesta senza crearci ferite , al massimo possono essere cicatrici profonde non visibili , nascoste o anche ignorate , ma esse ci cambieranno in modo conscio o inconscio, a prescindere se noi lo vogliamo o no .
    Questo non è un dibattito che deve essere tenuto da esperti , ma deve essere una introspezione della singola persona ,che deve essere conscia del suo vivere attuale e consapevole di tutto ciò a cui è sottoposta .

  13. È da tempo che quando sento la parola resilienza sventagliata come fosse il santo graal delle qualità umane provo un senso di fastidio e di sfiducia nella conoscenza condivisa in questo caso sponsorizzata da psicologi che a quanto pare non sapendo più che pesci pigliare sono arrivati a promulgare concetti che, prendiamo appunto la resilienza, rappresentano l’antitesi di un vero percorso di conoscenza di sé. Sono molto contento di avere trovato questo interessante articolo e di osservare che non sono l’unico che si sdegna per l’utilizzo pervasivo di questo concetto che temo possa in futuro acquisire sempre maggior eco. La mia idea, e spero che qualcuno arrivati a questo punto possa mai leggerla, è che l’elogio della resilienza, intesa nel modo sopra esposto nell’articolo, sia l’elogio assenza di sensibilità. La sensibilità è percezione e la percezione è il nutrimento della coscienza, se un’ esperienza negativa non modifica la nostra coscienza sarà che non l’abbiamo nemmeno realmente percepita. Non l’abbiamo percepita perché non l’abbiamo sentita. Se non sento cosa potrò mai imparare? Certo agli occhi della società sarò apprezzabile perché più adattabile, ma in realtà sarò soltanto un pesce il cui subconscio non emerge a coscienza perché se fosse alla luce non sarei nemmeno in grado di affrontarlo.

  14. Siamo proprio come le canne al vento, (…) siamo canne, e la sorte è il vento.”
    “Sì, va bene: ma perché questa sorte?”
    “E il vento, perché? Dio solo lo sa.”
    (“Canne al vento” – Grazia Deledda – 1913)

    Ecco l’esempio perfetto per descrivere una persona resiliente: quello del giunco o della canna che si piega sotto la forza del vento, delle intemperie, e poi torna a svettare ancora più forte di prima!

    Perchè questo termine tecnico – proprio della tecnologia dei materiali – oltre alla rottura dei piloni in cemento armato per sollecitazione dinamica, indica la capacità di affrontare e superare le avversità grazie alle risorse intriseche dell’animo umano. Risorse capaci di farci reagire davanti a qualsiasi caduta, sopportare qualsiasi carico. E questo spesso lo scordiamo, quando cediamo il passo allo sconforto, allo scoraggiamento, alla paura…

    Sono certo che la Deledda (se fosse venuta in contatto con questo termine) avrebbe chiamato le cose descritte nel suo romanzo elegantemente col loro nome, appunto, la resilienza.

    Venendo all’articolo e alla contrapposizione che viene fatta fra “Resistenza” e fru”Resilienza”, io mi sono occupato di lingue (e di parole) per tutta la mia attività lavorativa e ce n’è una – giapponese – che prende i “cocci” prodotti dalla resistenza e li trasforma in “qualcosa d’altro”.

    Qiel termine è “kintsugi” (金継ぎ) [letteralmente oro (“kin”) e riunire, riparare, ricongiunzione (“tsugi”)] e descrive un arte millenaria chee prescrive l’uso di un metallo prezioso – che può essere oro o argento liquido o lacca con polvere d’oro – per riunire i pezzi di un oggetto di ceramica rotto, esaltando le nuove nervature create.

    La tecnica consiste nel riunirne i frammenti dandogli un aspetto nuovo attraverso le cicatrici impreziosite e ogni pezzo riparato diviene unico e irripetibile, per via della casualità con cui la ceramica si frantuma e delle irregolari, ramificate decorazioni che si formano e che vengono esaltate dal metallo.

    Il kintsugi spega che la rottura di un oggetto non ne rappresenta più la fine. Le sue fratture diventano trame preziose. Si deve tentare di recuperare, e nel farlo ci si guadagna.

    Ed è l’essenza della resilienza…

    Nella vita di ognuno di noi, forse, si deve cercare il modo di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di crescere attraverso le proprie esperienze dolorose, di valorizzarle, esibirle e convincersi che sono proprio queste che rendono ogni persona unica, preziosa.

  15. Resistenza \ resilienza.

    Mi sono fatto l’idea che con il termine resistenza debba intendersi la capacità di una persona di opporsi ad un evento estraneo ed avverso non controllabile ne controllato dalla persona in questione. Parlo in generale della capacità di una persona di relazionarsi genericamente con un'”avversità”. Non è casuale il riferimento “alla capacità di una persona” poiché ritengo di difficile comprensione il semplice adattamento di leggi fisiche e\o tecniche in generale alla condotta umana. Questo semplicemente perché non credo che le leggi della fisica possano adattarsi sic et simpliciter alla natura umana. In essa c’è qualcosa di più!
    Cent’anni (forse più, scusate l’ignoranza assoluta nel campo) di fenomenali scoperte nel campo della fisica quantistica non ci hanno minimamente avvicinato alla comprensione effettiva del mistero della vita. E’ vero che adesso l’uomo (inteso come appartenente al genere umano senza distinzioni di sesso, genere, ecc.) vive più a lungo. Ma il percorso è sempre lo stesso, si nasce, si vive, si muore. In mezzo si ride, piange, soffre, gioisce. Ecco mi viene in mente che queste ultime azioni rappresentino il personale atteggiamento di resistenza di ciascun essere umano.
    Per resilienza mi sembra, invece, debba intendersi l’atteggiamento di colui che di fronte ad una avversità cerca di adattarsi ad essa anche modificando le proprie caratteristiche.
    Volendo dare un contenuto “etico” ai due termini in questione, mi viene da dire, dunque, che i due termini sono profondamente diversi – se non del tutto opposti – laddove per resistenza si debba intendere l’attaccamento a determinati valori condivisi da un determinato gruppo di persone disposte a difendere e “proteggere” gli stessi.
    Per resilienza intendo, invece, la capacità degli uomini di adattarsi ai cambiamenti. Ma così mi viene il dubbio che per essere resistenti (dal latino resalo, cioè risalgo sull’imbarcazione dopo esserne caduto fuori per qualsiasi causa) si possa sacrificare tutto anche i propri valori.

    Concludo dicendo che mi sembra del tutto preferibile il concetto di resistenza. E’ proprio questo che ci rende appartenenti al nostro genere. Non vorrei modificare i miei valori per adattarmi ad una avversità.
    sino certo che questi (libertà, solidarietà, ecc..) mi sopravviveranno e sinceramente è l’unica cosa che mi interessa.

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