
Pubblichiamo, ringraziando l’editore Eleuthera, un estratto dalla prefazione dello scrittore svedese Björn Larsson alla nuova edizione del libro di Marcus Rediker Canaglie di tutto il mondo. L’epoca d’oro della pirateria.
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Un giorno del mese di febbraio del 1991 uscii dall’imponente edificio dell’editore Bonnier a Stoccolma. Mi sentivo leggero e sollevato. A ragione: avevo appena consegnato all’editore il manoscritto definitivo del mio primo romanzo, Il cerchio celtico. Fuori nevicava, il cielo era grigio, il vento gelato. Dovendo aspettare una decina d’ore prima di prendere il treno notturno per Malmö e rientrare a casa, che all’epoca era la mia barca, il Rustica, girovagavo per le strade della capitale ammazzando il tempo.
Per riscaldarmi entrai in un bar. Mentre aspettavo caffè e cornetto tirai fuori quaderno e matita. È stato allora che, senza alcuna premeditazione, senza alcun preavviso, ho cominciato a scrivere il romanzo che anni dopo sarebbe diventato La vera storia del pirata Long John Silver raccontata da lui medesimo. Nel giro di qualche ora, e con mia grande sorpresa, Silver mi aveva spiegato come avesse perso la gamba e perché avesse assunto il soprannome di «Barbecue», aggiungendo altri elementi autobiografici mai inclusi in L’isola del tesoro. Ma soprattutto mi sembrava di aver trovato la voce di Silver, quella voce senza la quale il romanzo era condannato a naufragare prima ancora di essere assemblato.
Rientrai a casa colmo di speranza, anche se mi rendevo conto che cercare di eguagliare un capolavoro come L’isola del tesoro era al tempo stesso una sfida presuntuosa e un’ambizione smisurata. Di certo, dare una voce al leggendario pirata di Stevenson non era sufficiente; era anche necessario immaginare una vita dall’inizio alla fine. Le difficoltà sono cominciate proprio allora.
Da una parte dovevo rispettare il personaggio così com’era nel romanzo di Stevenson. Dall’altra dovevo renderlo credibile come se fosse davvero esistito all’epoca dei grandi pirati, a inizio diciottesimo secolo.
Tuttavia Stevenson, che la sua storia di pirati la raccontava innanzitutto a suo nipote, si preoccupò molto poco della verità storica. Infatti, quel che si può apprendere concretamente della vita di Silver in L’isola del tesoro occupa meno di una pagina: ad esempio, sapeva parlare latino, gestiva un pub con la sua compagna di origini africane e aveva navigato sotto il comando di due capitani, Flint ed Edward England, il primo personaggio di finzione, il secondo storico.
Dovevo quindi documentarmi prima di proseguire. Scovai qualche titolo sui pirati, in svedese e in francese, ma sfogliandoli mi resi conto che ripetevano più o meno il racconto degli stessi abbordaggi e degli stessi personaggi. Era come se i pirati fossero già entrati nella leggenda, cosa che rendeva difficile separare la verità dall’immaginazione.
Mi serviva qualcosa di più sostanzioso, qualcosa che mi consentisse di distinguere i miti dalla realtà. Ma come trovarlo? All’epoca, va ricordato, internet non esisteva: non c’era Google, non c’era Wikipedia, non c’erano siti dedicati agli argomenti più vari. In quel periodo navigavo fra la Scozia e l’Irlanda ed entrai in ogni libreria incontrata sul percorso, a Oban, a Dublino, a Cork, alla ricerca di documentazione, ma senza grande successo.
Mi serviva quindi una documentazione storica più affidabile. A salvarmi, o almeno a salvare il romanzo, fu la scoperta di Marcus Rediker, storico statunitense che aveva dedicato buona parte delle sue ricerche alla pirateria. Grazie al primo dei suoi due testi dedicati all’argomento, pubblicato nel 1987 con il titolo Between the Devil and the Deep Blue Sea: Merchant Seamen, Pirates, and the Anglo-American Maritime World, 1700-1750 [Storia sociale della pirateria, Shake, 2015], sono venuto a conoscenza delle condizioni miserabili dei marinai nella marina mercantile dell’epoca e del commercio marittimo, in particolar modo inglese, fonte di enormi ricchezze a vantaggio del futuro impero britannico. Ad esempio ho potuto constatare il potere assoluto del comandante, sostenuto dal cappellano di bordo, il quale, se così gli garbava, disponeva dei marinai comuni come se fossero una risorsa sacrificabile. Non c’era dunque da stupirsi se tanti marinai sceglievano di diventare pirati alla prima occasione.
In Storia sociale della pirateria c’era anche un capitolo dedicato ai corsari, ai bucanieri e ai pirati propriamente detti, nel quale Rediker forniva il contesto generale della pirateria. Ma è soprattutto in Villains of All Nations: Atlantic Pirates in the Golden Age, pubblicato negli Stati Uniti nel 2004 e in traduzione italiana nel 2005, che Rediker racconta più o meno tutto ciò che sappiamo sui pirati e sulla pirateria dell’epoca d’oro.
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Come nota Rediker, i pirati classici erano in primo luogo marinai che cercavano di sfuggire alla tirannia dei capitani della marina mercantile. E se hanno inventato un sistema che si configura come una democrazia diretta – e che in quanto tale appare come un precursore dell’anarchismo e dell’anarco-sindacalismo per quanto riguarda, ad esempio, la distribuzione del bottino, le quote supplementari riconosciute a feriti e medici di bordo, l’elezione dei propri capitani – non l’hanno fatto perché propugnavano un egualitarismo radicale, ma perché volevano assicurarsi di non ricadere nella schiavitù da cui erano fuggiti. Per riprendere la distinzione di John Stuart Mill in On Liberty [Saggio sulla libertà], per i pirati si trattava più di una libertà from, da qualcosa, e molto meno di una libertà for, per qualcosa.
Altra differenza cruciale rilevata da Rediker è che i pirati classici non avevano né patria, né nazione né lealtà nazionalista, mentre i pirati moderni sono legati al loro territorio e al loro paese, se non altro per proteggere le ricchezze accumulate. Quando i pirati classici dovevano dichiarare da dove venivano, rispondevano sempre: «Dal mare, dal mare».
Senza dubbio è per questo che i pirati, una volta a terra, sperperavano in fretta e generosamente il loro oro e le loro pietre preziose. Sapevano che per loro non c’erano oasi di pace, né rifugi sicuri; erano condannati e dannati. Difficile fare statistiche, ma per Rediker la speranza di vita per chi si faceva pirata era mediamente di due-tre anni: morivano di malattie o durante gli abbordaggi, oppure venivano impiccati. Non stupisce dunque che bruciassero le loro vite come una candela che arde da entrambi i lati e che tagliassero ogni ponte con la loro vita precedente. Non stupisce nemmeno che siano diventati degli antieroi per tutti coloro che ne hanno avuto abbastanza di una vita senza futuro e che sono tentati di lasciarsi alle spalle ogni cosa, costi quel che costi.
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