Forse tutto il teatro è, a suo modo, un tentativo di fare i conti con i fantasmi. Fantasmi sociali e fantasmi privati, che filtrano dalle ferite dei traumi individuali e collettivi. È vero che anche altre forme narrative, dalla letteratura al cinema, hanno via via incarnato questa funzione dell’arte. Ma è altrettanto vero che nessun altro dispositivo, come il palcoscenico, è in grado di convocare quei fantasmi che si sceglie di interrogare in modo per così dire “fisico”, concreto, corporale. Questa possibilità è letteralmente l’innesco scenico di «Ancora tempesta», drammaturgia di Peter Handke in cui lo stesso autore austriaco – interpretato con grande intensità da Filippo Dini – che in qualità di personaggio e voce narrante si ritrova a colloquio con i propri antenati sloveni. In un serrato confronto con la memoria familiare e storica, la coralità degli avi del Premio Nobel, sloveni di Carinzia, è a volte una sorta di personaggio collettivo che dà forma alla memoria, mentre altre volte un personaggio si distacca dalla coralità onirica – la giovane madre, lo zio Gregor, la nonna – per raccontare un pezzo della propria vicenda personale che si riannoda, costantemente, con i fili di una trama più grande.
Dai parenti morti al fronte a quelli che scappano sui monti per combattere il nazismo in uno dei rari episodi di lotta partigiana verificatisi all’interno del Terzo Reich, prende forma un’epopea familiare e storica che fa i conti, o cerca di farli, con il tema dell’identità. L’essere minoranza, il parlare una lingua diversa, il senso di assedio e il desiderio di riscatto, il constatare come quella stessa identità finisca per sciogliersi nella propria progenie che, fatalmente, di lingua ne parlerà un’altra; sono tutti elementi in cui, a partire da una storia familiare, prende forma il presagio degli scontri identitari di cui l’Europa post-guerra non si sarebbe liberata con l’avvento delle democrazie occidentali e dei sistemi socialisti (occorre ricordare anche la polemica in cui lo stesso Handke finì per le sue posizioni sul conflitto in ex Jugoslavia) e nei quali affonda tuttora. È un senso di presagio sapientemente dosato dall’autore e riverberato da Fabrizio Sinisi che ha curato la drammaturgia dell’allestimento italiano: non a caso, ogni volta che si affronta il tema del ghenos e del destino, dell’identità e della lingua, sentiamo riverberare con forza le questioni politiche e i conflitti irrisolti che animano l’Europa di oggi.
Per questo, più che un “romanzo familiare”, «Ancora tempesta» di Peter Handke potrebbe essere letto come un trattato sulla Storia, sulle sue illusioni ma anche sulla corrente carsica che la attraversa e che si incarna nelle vite di ognuna e di ognuno, qualche volta le indirizza, più spesso le devia, le spezza. “Da molto tempo leggo solo libri di storia” dice a un certo punto del testo l’io narrante, come se il tentativo di comprendere sé stessi, la propria origine, non fosse (non è) soltanto una questione privata. Non lo è in epoca di guerre e sconvolgimenti, ovviamente – fa eco a questa riflessione di Handke personaggio la considerazione di Gregor, “La Storia si è completamente divorata la nostra vita. Si è mangiata la nostra voglia di vivere”. Ma forse non lo è nemmeno in epoche meno violente, perché quel fiume carsico di traumi, quelle ferite identitarie continuano a scorrere dentro di noi, pronte ad essere portate allo scoperto, a sanguinare nuovamente, quando i nodi tornano al pettine o quando (più spesso) sono i calcoli politici del presente a soffiare sul fuoco mai sopito del passato.
L’unico modo per uscire da questa trappola, sembra dire Handke, l’unica alternativa a questo eterno ritorno, è quello di cercare un senso alle macerie e ai traumi, provare a dare forma al caos. “La Storia potrebbe anche avere una forma”, dice ancora Handke personaggio, “E la forma significa pace. Dare ordine alla Storia facendone una storia; ricomporre la Storia in storia”. Non c’è solo, in questo auspicio, la consapevolezza di come la Storia dei manuali sia composta anche dalle migliaia di storie individuali – un aspetto sempre più al centro dei pensieri e della sensibilità della ricerca storiografica – ma anche la consapevolezza che per disinnescare la Storia degli eserciti occorra tornare alle storie, minuscole e plurali. Ed è chiaro che per Peter Handke, in questo processo che dà forma alla Storia, un ruolo centrale lo gioca il racconto, sia esso letterario o teatrale.
Fa bene la regia di Fabrizio Arcuri a non soffermarsi soltanto sull’aspetto onirico del paesaggio simbolico e mentale immaginato da Handke, ma anche su questa tensione tra cosmos e caos. Perché per dare senso alle macerie e ai traumi occorre fare i conti con l’infranto: il desiderio di ricomporre questo infranto – come diceva un altro pensatore di lingua tedesca, Walter Benjamin, alla cui concezione della storia sembra essere debitore questo lavoro di Handke – può scaturire solo da una rigorosa presa d’atto delle meccaniche della Storia, a cui occorre provare a contrapporre l’angelus dell’empatia (quell’intelligenza opposta al cinismo che sembra scarseggiare, oggi, non solo nelle élite politico-militari, ma anche e disperatamente nel dibattito pubblico e social che accompagna i conflitti odierni, sempre più dominati dall’opinabilissimo fantasma della real politik). Questa scelta registica sembra emergere non solo dal contrasto tra macerie e geometria, casa e famiglia, guerra e macello di corpi affastellati, che condividono la scena (curata da Daniele Spanò); ma anche dal senso di “posterità” che la abita, evocata anche dalle parole del testo – “A volte mi sembra che la fine del mondo sia già arrivata” – che oscillano tra approdo ideale, la Storia che si dà forma in quanto pace, e la constatazione delle condizioni che dominano il presente.
Quale altro antidoto può darsi, per governare le forze ingovernabili della Storia, se non quello del suo racconto letterario, della sua spasmodica eviscerazione? Ciò che è avvenuto è inafferrabile, se non nel racconto. Sarà per questo che Handke evoca doppiamente Shakespeare, non solo nel Re Lear che affronta la tempesta, quella stessa tempesta evocata dal titolo; c’è anche il personaggio del Nonno che, facendo il verso a Prospero e ribaltandone la celebre frase, apostrofa il nipote: “Che cosa vuoi da noi? Abbiamo perso. Non siamo argomento di dibattito. Né tantomeno materia di sogni. Cercati un altro argomento, più attuale. Il passato ci caccia via, fuori dai suoi rimpianti e dai suoi rimorsi. Resta solo il presente”. Se è vero questo, ciò vuol dire che oggi il presente svolge quel ruolo distruttore che Benjamin assegnava al futuro. Un’ulteriore presa di coscienza di un’epoca, la nostra, dal fiato corto. Eppure, di fronte a questa constatazione, per continuare a cercare di dare una forma alla Storia, come fa Handke personaggio, non si può che continuare a sognare.
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In scena: Filippo Dini, Margherita Mannino, Simone Pedini, Jessica Sedda, Michele Guidi, Isacco Bugatti, Tommaso Russi
Graziano Graziani (Roma, 1978) è scrittore e critico teatrale. Collabora con Radio 3 Rai (Fahrenheit, Tre Soldi) e Rai 5 (Memo). Caporedattore del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha collaborato con Paese Sera, Frigidaire, Il Nuovo Male, Carta e ha scritto per diverse altre testate (Opera Mundi, Lo Straniero, Diario). Ha pubblicato vari saggi di teatro e curato volumi per Editoria&Spettacolo e Titivillus. Ha pubblicato l’opera narrativa Esperia (Gaffi, 2008); una prosa teatralizzata sugli ultimi giorni di vita di Van Gogh dal titolo Il ritratto del dottor Gachet (La Camera Verde, 2009); I sonetti der Corvaccio (La Camera Verde, 2011), una Spoon River in 108 sonetti romaneschi; i reportage narrativi sulla micronazioni Stati d’eccezione. Cosa sono le micronazioni? (Edizioni dell’Asino, Roma, 2012). Cura un blog intitolato anch’esso Stati d’Eccezione.
