Questo pezzo è uscito su L’Ultimo Uomo. (Foto: una scena di The Act of Killing.)
La vida loca è un documentario uscito nel 2008 che racconta la vita quotidiana delle gang criminali che operano nella capitale di El Salvador, realizzato da Christian Poveda durante un lungo periodo in cui ha vissuto a stretto contatto con i membri di una mara, come vengono chiamati questi ibridi di grande famiglia, cosca e struttura paramilitare che si contendono il territorio dello stato centroamericano. Il regista ci mostra le storie private di alcuni membri della gang, tra poche gioie e molti dolori, le piccole faccende di tutti i giorni, le tensioni, le violenze e soprattutto i funerali dei membri uccisi inesorabilmente lungo le settimane e i mesi che Poveda passa con loro. Ogni morte viene teatralmente annunciata dal rumore di uno sparo, dopo il quale assistiamo all’ennesimo funerale con la salma esposta, le lacrime, la rabbia e i canti.
La telecamera di Poveda è sempre vicinissima ai volti dei ragazzi, anche durante le funzioni funebri: i membri delle gang parlano, confessano le loro paure e speranze, lacrimano a pochi centimetri dall’obiettivo ma mai sentiamo la voce del regista rivolgere loro una domanda, mai guardano in camera, neanche quando sono ripresi durante il commiato dai compagni caduti. La vida loca ci vuole trasportare dentro il mondo violento e suicida delle maras senza l’interferenza della voce del narratore, come se fossimo lì anche noi. Poveda è stato ucciso a El Salvador un anno dopo l’uscita del documentario in circostanze non chiarite, vittima di un agguato, forse ad opera di membri della stessa gang con cui aveva vissuto, in cui gli hanno sparato in faccia diversi colpi di pistola, sembra perché convinti che fosse un infiltrato della polizia, o peggio una spia di una mara rivale.
Nel 1992 un bizzarro mockumentary di due giovani cineasti belgi diventa un caso cinematografico, suscitando al tempo stesso plauso e disagio per la materia trattata: una troupe di documentaristi decide di seguire le gesta di un serial killer, che li porta in giro tra omicidi di ogni tipo fino a coinvolgerli nel suo delirio di violenza e renderli complici, un azzeramento morale in cui la troupe e l’assassino cominciano a uccidere, squartare e violentare insieme. La camera a mano e il bianco e nero sgranato danno alle immagini un effetto di realtà assai disturbante, più forte della consapevolezza che gli eventi a cui assistiamo sono semplice finzione, per quanto molto violenta. Il film è uscito in Italia con il titolo didascalico Il cameraman e l’assassino, l’edizione originale si chiamava C’est arrivé près de chez vous, mentre per l’inglese è stato scelto un più sbrigativo Man bites dog.
La violenza, la morte e il senso della loro rappresentazione sono anche al centro di The Act of Killing, il documentario di Joshua Oppenheimer che ha per protagonisti alcuni tra gli autori delle stragi compiute a metà degli anni ’60 in Indonesia in nome dell’anticomunismo. Come in La vida loca la narrazione si svolge attraverso un rapporto molto intimo con le persone coinvolte nel documentario, uomini che hanno un’esperienza diretta della morte e che uccidono; come con Il cameraman e l’assassino siamo messi di fronte alla descrizione di ogni sorta di efferatezza e crudeltà. Ad esempio il serial killer belga spiega come disfarsi di un cadavere, quali sono le vittime con il miglior rapporto costi/benefici, i vari modi di uccidere. In The Act of Killing abbiamo il personaggio principale, ovvero un settantenne magrolino di nome Anwar Congo, che sembra un vecchio bluesman preso da un episodio di Treme ma che in realtà è personalmente responsabile di circa mille omicidi. Mille.
Anche The Act of Killing contiene una finzione al suo interno: il film che gli assassini decidono di girare con Oppenheimer per reinscenare i massacri degli anni ’60 e che ci viene raccontato attraverso le riprese di diverse scene, tra sangue finto e lacrime vere. Le analogie tra i film però finiscono qui, perché questo documentario va ben oltre il darci l’esperienza diretta della vita di una gang di criminali o dell’efferatezza senza filtri di un assassino, trasformando l’esperienza dell’insostenibile in una sorta di meditazione.
Ci vengono spiegati gli inconvenienti nell’usare uno stesso luogo ripetutamente per uccidere molte persone, perché il sangue è difficile da lavare e dopo qualche giorno resta come una patina maleodorante; allora meglio strangolare usando le corde di pianoforte (la lega con cui vengono costruite si chiama acciaio armonico), il filo affonda nel collo e la morte è veloce e pulita, senza i sanguinamenti delle percosse; sentiamo parlare per due ore di bastonate, decapitazioni, stupri di adolescenti, villaggi bruciati; assistiamo all’elogio dello sterminio di circa un milione di persone in un orrendo salottino televisivo, dove Anwar e compagni vengono invitati a parlare del film che stanno girando, introdotti dalla presentatrice letteralmente come degli “esecutori di comunisti”, come se fosse una professione, un titolo, un premio ricevuto.
L’elenco delle cose di fronte a cui Oppenheimer mette lo spettatore sembra intollerabile, eppure il film è intriso di una dolenza a tratti quasi commovente, e ancora più incredibili sono i momenti comici: uno degli assassini durante le riprese del finto film celebrativo è sempre vestito da drag queen anche se non sappiamo perché, in una scena musical con veneri danzanti una specie di fantasma consegna una medaglia a Anwar, ringraziandolo di averlo mandato in paradiso; praticamente la versione nichilista del finale di Life of Brian, con i ladroni crocifissi che fischiettano e cantano Always look on the bright side of life.
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Fabio Severo copre eventi sportivi e non per agenzie e network internazionali, cura progetti fotografici per l’associazione ZONA e ha un blog di fotografia, Hippolyte Bayard.

Ottima idea regalo il dvd del film di Titeuf, che esce il 4 dicembre anche in blu ray: http://eagledvdshop.it/bluray/animazione/titeuf-il-film.html?id=3373