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Trent’anni fa moriva a Parigi lo scrittore e poeta francese Jean Genet: lo ricordiamo con un ritratto di Tommaso Giagni (fonte immagine).

di Tommaso Giagni

È una fatica, confrontarsi con un irregolare. Una fatica studiare la trama dei ricchi tappeti che Jean Genet stende, in prosa, per far camminare comodamente i marginali di cui racconta. La fatica che media fra il prima e il dopo, nella crescita delle persone, e per questo le respinge. Sì, Genet pretende uno sforzo. Dal lettore, al quale offre una scrittura densa, articolata in una perenne alternanza fra registro alto e argot di strada o di prigione. E soprattutto è all’uomo che chiede di sforzarsi, mettendo in discussione i dogmi che ha intorno.

I trent’anni che ci dividono, proprio oggi, dalla sua morte, segnano una distanza che è una frattura. Per come è stata deprezzata la considerazione dello sforzo, celebrare oggi la memoria di Genet sembra una battaglia contro i mulini a vento. Quando i suoi lavori, e la sua vita, sarebbero di vero aiuto per chiunque affronti la scrittura, e la vita.

A voler collocare Genet in un punto, non si riesce. La coincidenza del luogo di nascita e di morte, Parigi, è una stupida beffa per le peregrinazioni che compì nei settantacinque anni della sua vita. Dall’inizio alla fine anzi è stato un vagabondo inquieto, uno che non si faceva trovare dove lo si aspettava. Uno che portava tutti i suoi averi materiali in una valigetta, un “bibliofilo che non possedeva un libro” come lo definisce Edmund White nella sua fondamentale biografia Ladro di stile. Le diverse vite di Jean Genet (il Saggiatore, 1998).

Ha scritto i suoi romanzi imprigionato nelle carceri francesi, ha fatto politica negli Stati Uniti e in Giappone, ha tentato di suicidarsi a Domodossola, ha girato compulsivamente il Medio Oriente, ha voluto e ottenuto una tomba in Marocco davanti al mare. Genet era a Parigi nel maggio ’68, era in America durante le lotte del Black Panthers Party, era a Beirut nei giorni del massacro di Sabra e Shatila (e fu il primo europeo a vederne i cadaveri). Se riusciva a essere sul posto mentre si faceva la Storia, è perché conosceva l’importanza di mettersi in gioco fisicamente. Anche questo, oggi, desueto.

Lasciare il proprio Paese era un sollievo. Nato da padre ignoto, abbandonato dalla madre, si può dire sia stato cresciuto dalla Francia, attraverso le sue istituzioni per gli orfani. Un tutore, la Francia, che non gli è mai piaciuto. Ha lottato per tutta la vita, con tutti gli strumenti che ha potuto usare, per farsi indipendente dal suo Paese. Non è un caso che la prima, vera reazione alla scoperta di avere un cancro, sia stata smettere di pagare le tasse. Non può sorprendere la passione con cui sposò la lotta anticolonialista. La Francia, Genet l’ha derubata, l’ha scandalizzata, si è lasciato avvicinare e celebrare solo per meglio sfruttarla, attraverso i diritti che guadagnava dai suoi libri e l’attenzione che riusciva a guadagnare per la causa dei suoi oppressi.

Genet era uomo di cortocircuiti. Nel lavoro, nella vita, nell’interazione fra i due. Le carceri e i bordelli, le stamberghe e i bagni pubblici, i ladri e i portuali… tutto questo, che era buona parte del suo mondo dentro e fuori le pagine, viene ricoperto d’oro nei suoi testi – capolavori di stile, al servizio della narrazione e mai fredda cerebralità. Zelante fino all’ossessione è la cura nelle indicazioni per i registi delle sue pièce. Come pure ossessiva è la cura che Genet metteva nei rapporti con le varie persone che ha cresciuto nel tempo come figli. Dove la cura sconfinava nel controllo, fino a generare drammi.

Ed era uomo di rinuncia e di volontà, Genet. Assurdo punto d’incontro tra un cardine del cristianesimo e un valore nietzschiano, come ha notato White. Un punto d’incontro dove l’assurdo non c’entra con la rassegnazione dell’esistenzialismo né con l’estemporaneità del surrealismo – si teneva lontano da entrambe le strade.

La rinuncia va intesa come rinuncia al possesso (la sua valigetta, la sua generosità estrema), rinuncia alla pacificazione, e anzi dedizione al conflitto e spavalda assunzione del ruolo di Caino. Genet è il ladro, l’omosessuale, il traditore. Sartre trovò in lui la ribellione dell’ascesi, quando nel ’52 gli dedicò l’analisi psicanalitica di Santo Genet, commediante e martire. Nel lavoro di Genet in una cella di prigione, Sartre scorse il lavoro certosino del monaco in una cella monastica. Non è un caso se i suoi cinque romanzi siano stati scritti prevalentemente in carcere, nell’arco di pochi anni. Gli servivano a uscire di lì, come spiegò lui stesso, e una volta uscito non trovò più i motivi per occuparsi di narrativa.

La volontà l’ha fatto diventare quel che è diventato. Uno scrittore apprezzato in tutto il mondo, lui, il trovatello, il giovane reietto del poverissimo Morvan. Un insegnante tra i soldati, lui che aveva interrotto gli studi a tredici anni. Un difensore degli oppressi di qualsiasi regione del pianeta, lui che mai si era sentito difeso dall’oppressione. Volontà che è bisogno, mai dimostrazione: non danzare per noi, ma per te, raccomanda al suo funambolo.

Nella sua vita ha attraversato confini illegalmente, derubato i ricchi omosessuali con cui si prostituiva, teorizzato la grandezza di chiunque venisse additato come espressione del male. Per un lungo periodo fu convinto della superiorità dell’estetica sulla morale. Una porzione, questa, dello scientifico rovesciamento delle convenzioni, politicamente consapevole ma anche orgogliosamente rivendicativo in chiave difensiva. Genet invitava a cercare la bellezza nella propria, individuale ferita – quella che per altri è il demone, o il trauma. Entrare nel proprio dolore è anche entrare nell’ombra, col fine di metterla, per così dire, in luce.

L’attraversamento dei confini è stata una sua pratica in termini più generali. Aveva bisogno di rapportarsi a qualsiasi strato sociale. Frequentava intellettuali, capi di polizia e ministri, soprattutto per usarli, a volte per il gusto di un confronto, raramente per ammirazione. Frequentava, per scelta, i diseredati. Era dalla parte degli ultimi anche a costo di abbandonarli non appena smettessero di essere ultimi – come promise ai palestinesi.

Sta di fatto che portava i suoi amici scassinatori negli stessi cafè dove incontrava Sartre, Giacometti, Cocteau, Picasso e gli altri. Rubava libri e pubblicava per Gallimard. Una sera poteva andare a cena con Faulkner (senza quasi parlare) e quella dopo mangiare col funambolo semianalfabeta Abdallah (uno dei suoi grandi amori). Se con l’aristocrazia, intellettuale e non, giocava al naïf per imbarazzo, per attitudine socializzava con i marginali. Forse è in questa capacità di farsi ponte tra ambienti che non si parlano, la vera grandezza di Jean Genet.

Pochi mesi prima di morire, Il balcone venne rappresentato alla Comédie française. Era il massimo onore che il teatro potesse tributargli, ma lui non si presentò, come non era mai andato a vedere la rappresentazione delle sue pièce. Sapeva che il perfezionismo e il fastidio di apparire gli avrebbero fatto viver male lo spettacolo.

Aspettava la morte senza paura e col solo fastidio di doversi sbrigare a scrivere. Arrivò il 15 aprile 1986, la morte, nella stanza di un albergo a una stella, il Jack’s, che non era il solito albergo a una stella dove alloggiava. Per un soffio aveva fatto in tempo a concludere la stesura di Un captif amoureux. La rinuncia, la volontà, di nuovo.

Il Jack’s è ancora là, dietro Place d’Italie. Adesso però ha tre stelle, e c’è una stanza “Jean Genet” costellata di libri e quadri che lo ritraggono. Si può immaginare l’orrore che gli avrebbe suscitato. Come anche l’orrore che gli avrebbe suscitato questo pezzo – sentirsi dare della guida per uscire dalla stasi. Diceva che l’arte è un’offerta ai morti, non si rivolge al futuro. Si chiedeva: “A quale scopo le generazioni future dovrebbero servirsi di un’opera? Non capisco”. E invece, nel suo caso, nel nostro caso, sarebbe bene fare lo sforzo di salire sulle sue spalle.

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8 commenti

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