di Leonardo Strano
Tra le molteplici associazioni visive scatenate nelle camere della mente durante e dopo la visione di “La forma dell’acqua” ce n’è una in particolare che si è rivelata agli occhi di chi scrive attraverso l’aspetto di un assunto dalla logica cristallina. Ha a che vedere con l’elasticità dei liquidi: materiali che si deformano facilmente sotto l’azione di una forza e riprendono immediatamente la forma primitiva appena cessa l’azione della forza deformatrice. Morbidi e resilienti tanto quanto la forma dell’acqua e le curve di una storia leggibile come la favola, la parabola di questa verità fisica invalicabile.
L’ultimo film di Guillermo Del Toro, vincitore del Leone D’Oro a Venezia, del Golden Globe per Miglior Film Drammatico e candidato a 13 Premi Oscar, è la lenta danza espressiva di una passione liquida che si evolve ventiquattro fotogrammi al secondo, l’intreccio dialettico tra forze universali che si riassume in un abbraccio intimo, l’architettura di una fuga sentimentale interpretata da un gruppo di attori – tra cui spiccano Sally Hawkins, Micheal Shannon e Richard Jenkins – coordinati allo stato dell’arte.
Una di quelle opere d’intrattenimento in grado di dare un taglio languido all’escatologico e un’iniezione poetica ad una storia-giostra in cui i generi spy, fantasy, horror, noir e musical si inter-scambiano come fondali scenografici (minuziosamente ricostruiti sbalzando l’impasto citazionistico, l’artigianato demodé e l’archeologia filmica) per esaltare una storia d’amore totale, che è cassa di risonanza di molte altre e contenitore, per leggi fisiche o amorose, destinato ad assumere la forma dei suoi contenuti.
Un lavoro che è soprattutto il precipitato di un’equazione creativa capace di cucire una montagna di gloriosi riferimenti (“Il mostro della laguna nera”, la “Bella e la Bestia”, “Il favoloso mondo di Amélie”, ma anche Mimic, la duologia di “Hellboy” e “Il labirinto del fauno”) sulla veste su misura della personalità del proprio autore.
Dall’approccio derivativo agli spruzzi di originalità, dalle follie di carnalità ai momenti di visionarietà e commozione figurativa: tutto ne “La forma dell’acqua” risponde infatti all’immaginario costruito da Del Toro negli anni, dimostrandosi compendio di un percorso artistico partito dalla passione per i mostri, passato attraverso l’apologia della cultura del multiforme e arrivato alla formazione di sensuali immagini-mondo dal denso impatto cinematico.
Compendio che questa volta ha la forma di un grido sussurrato all’emozione più forte, quell’amore che connette le membra diverse e gli spiriti affini e che è raccontato dal regista messicano attraverso gli occhi senza voce di un adone squamoso e una principessa silenziosa. La loro è un’avventura che fa evaporare il cinismo e ridisegna i confini del cuore, spalancandoli senza mai cedere il passo alla più facile chirurgia del ricatto emotivo, anzi, riscattando le debolezze e la diversità di due esseri costretti al peso della malignità, degli spettri dell’incomprensione e dell’odio.
Ma non è solo una storia infiocchettata di languori salmastri, valzer acquatici e elogi della debolezza: è cinema che fa innamorare; è cinema capace, come un elastico sfuggito all’attrito deformante, di allungarsi fino al torace di chi guarda, sfiorarne il cuore e rimbalzare indietro nelle fibre ottiche dello schermo. Lasciando una traccia fantasma – carica di tutto ciò che la precede e aperta a chiunque la riceva – che prima infuoca tutto il corpo e poi lo condanna a bellissimi cortocircuiti di sistema.
