Un’estate quasi normale. La stagione estiva ha visto il pubblico tornare a teatro e i festival tornare a incontrare il proprio pubblico, tra capienze ridotte, green pass e altri espedienti burocratici pensati per contenere il contagio e permetterci, dopo il covid di tornare alla vita – secondo alcuni –; esperimento di controllo sociale, secondo altri. L’incertezza, la polarizzazione delle visioni che attraversa la società non ha mancato di produrre il suo impatto anche nel “piccolo mondo” del teatro, e non solo per quanto riguarda la pandemia[1]. Viviamo un tempo incerto, ricco di possibili rivolte – ecologiste, femministe, antirazziste – ma privo di vocabolario condiviso, e tutto questo si riflette, sia pure di sbieco, lateralmente, in modo inconsapevole, sui racconti e sugli immaginari che il teatro mette in scena. Tra i linguaggi più vitali, non in grado di risolvere le contraddizioni ma in grado di assorbirle e restituirle, c’è quello della drammaturgia. Scrivere, o lavorare sui testi, è uno dei possibili incipit del teatro, gesto incompiuto, monco, per chi concepisce il momento dello spettacolo come l’unico vero depositario dell’esperienza teatrale; è ovviamente così, ma è vero anche che le scritture, le parole, le storie, sono uno dei reagenti principali in grado intercettare gli interrogativi che agitano il presente, in grado cioè di accompagnarci nella terra dell’incognito come un stalker in giro per la “zona”.
Nel mio racconto, per questioni in parte casuali – si segue ciò che si ha tempo di seguire – e in parte di prossimità geografica – chi scrive vive a Roma –, seguirò una dorsale tirrenica, con deviazione appenninica, tra la Toscana e la Liguria. Di non casuale c’è sicuramente l’attenzione di alcune manifestazioni – FuoriLuogo a La Spezia, Inequilibrio a Rosignano e Castiglioncello, Terreni Creativi ad Albenga, Contemporanea a Prato – per alcuni degli artisti che si stanno confrontando con quegli interrogativi. Con una precisazione: quando dico che alcune scritture teatrali si confrontano con gli interrogativi del presente questo non vuol dire che lo facciano in maniera necessariamente “diretta”, a ricasco o a traino dei dibattiti che animano il confronto pubblico. Anzi, molto spesso le scritture più interessanti sono quelli che fanno il contrario, che si ritirano di lato, si mascherano nello studio o nella storia.
Cominciamo da La Spezia. FuoriLuogo è sia una stagione che un festival, che negli anni ha disegnato un’identità molto forte – ospitando in due lustri artisti come Danio Manfredini, Emma Dante, Antonio Rezza, Babilonia Teatri, Vico Quarto Mazzini – e che quest’anno, per il suo decimo anniversario, ha voluto regalarsi una festa. Non è un fatto scontato, perché una festa significa stare insieme al di là dei contenuti, scambiarsi storie, ascoltare musica e divertirsi, e tutto questo a giugno del 2021, appena liberati dal secondo lockdown, non era più una cosa semplice e quotidiana, come è di solito. Invece è stato un momento catartico, in cui artisti e pubblico si sono ritrovati come in reciproco esorcismo.
Tra gli spettacoli in programma c’era “Disprezzo della donna. Il futurismo della specie” di Elvira Frosini e Daniele Timpano, un lavoro sui testi futuristi dedicati alla donna e al suo ruolo nella società, assemblati con la consueta intelligenza e con un alto tasso di provocazione dal duo romano. Quello presentato al Teatro Dialma era appena uno studio, ma che presenta già in modo forte il suo nucleo dirompente. Le frasi dei futuristi sono irritanti e interamente fuori tempo, come è giusto che sia per qualcosa che risale a circa un secolo fa, ma proprio per questo diventano un reagente potentissimo per tutto il discorso sessista contemporaneo, bandito formalmente dallo spazio pubblico ma di cui il pensiero sociale è ancora fortemente intriso. “Noi disprezziamo la donna, concepita come unico ideale, divino serbatoio d’amore”; “Noi disprezziamo l’orribile e pesante Amore, che ostacola la marcia dell’uomo, al quale impedisce di uscire dalla propria umanità, di raddoppiarsi, di superare se stesso”; “La donna si trova in uno stato d’inferiorità assoluta. Per questo noi difendiamo – pur compiangendolo – il loro entusiasmo infantile pel misero e ridicolo diritto di voto. Siamo convinti che esse se ne impadroniranno e ci aiuteranno così involontariamente, a distruggere quella grande minchioneria, fatta di corruzione e di banalità, che è il parlamentarismo”. Sono enunciati insopportabili, ma che allo stesso tempo raccontano con gusto ironico, e irridente dell’ideale romantico, lo sguardo futurista, che sui paradossi gioca la sua cultura machista (cultura di cui pure il presente è imbevuto e che poggia, guarda casi, sui non detti e sui distinguo).
Al passato, almeno apparentemente, si rivolge anche Fabrizio Sinisi con il suo testo “La gloria”, una drammaturgia originale più “classica” rispetto all’assemblato di testi proposto da Frosini-Timpano, che racconta le vicende del giovane Hitler nella fase della sua vita in cui cercava di affermarsi come artista. Andato in scena a Rosignano, al festival Inequilibrio, con la regia di Mario Scandale e l’interpretazione di Alessandro Bay Rossi, Dario Caccuri e Marina Occhionero, lo spettacolo si concentra su due aspetti vertiginosi dell’animo umano: il bisogno di riconoscimento e la spirale di menzogne che si arriva a costruire per ottenerlo. L’intreccio si sofferma su un giovane Hitler scartato dall’Accademia, che si finge brillante e apprezzato studente, collezionando una serie di bugie con l’amico musicista August Kubizek, con cui condivide un sodalizio fraterno scosso dall’irruzione di una terza figura, Stefanie, che stringe amicizia con entrambi. Siamo nella Vienna di inizio secolo, tra i centri pulsanti di un’Europa ricca di inquietudini che si sarebbero presto infrante nella tragedia della guerra mondiale, ma anche cuore culturale del mondo germanico, ricco di promesse di affermazione per i giovani artisti. Nell’affresco acuto, intimamente teatrale che Sinisi fa di questo triangolo sentimentale, non si può non leggere in controluce le inquietudini che tutt’ora agitano il vecchio continente, dove si torna a parlare di derive identitarie come reazione a un fenomeno migratorio che torna prepotentemente a interrogarci sul nostro rapporto con l’altro. Ma siamo a teatro, e il fatto che si parli di “gloria” e di “fama” non può non ammantare il discorso di una luce particolare.
Il teatro è un po’ la cenerentola delle arti e la notorietà conquistata sul palco non è paragonabile a quella conferita dalla musica o dal cinema. È quindi l’osservatorio perfetto per raccontare quella vertigine narcisistica che attraversa l’odierna società dello spettacolo. Già nella Vienna del giovane Hitler, a fronte della morte di dio, solo l’arte – e poi la politica – sembra in grado di dare un senso alla vita, e per quel senso si è disposti a mentire, a compiere crimini, ad aprire ferite che diverranno poi tra le peggiori della storia. Oggi il pensiero forte (nell’arte, nella politica) ha lasciato spazio al pensiero debole, ma quella spirale narcisistica non è scomparsa; si è spostata sulla dimensione privata ma continua a produrre effetti psicotici nel tentativo di rispondere alle pressioni della “società della stanchezza”, dove performance e riconoscimento sono le principali monete di scambio. C’è poi uno strano cortocircuito che forse non era nelle intenzioni dell’autore, ma che in qualità di spettatore a me subito è balzato all’occhio: la vicinanza antropologica del suo giovane Hitler con il Jean-Claude Romand ritratto da Emmanuel Carrère ne “L’avversario”. Di quella figura tragica, figura ben più “pacata” e quotidiana, il futuro leader nazista condivide l’assoluta negoziazione della realtà, che viene rigettata, manipolata, ricostruita sulla base degli imperativi narcisistici di un io dissociato dal proprio fallimento.
Si passa al presente, e a una temperatura completamente diversa, con gli spettacoli di Francesca Sarteanesi presentati ad Albenga, al festival Terreni Creativi. Con il monologo “Sergio” e con lo spettacolo “Bella bestia”, scritto e interpretato assieme a Luisa Bosi, Francesca Sarteanesi fa il suo ingresso potente nel mondo della scrittura teatrale. Dopo anni di lavoro con la compagnia Gli Omini, formazione per cui il quotidiano e la materia prima delle interviste sui territori è stata per diverso tempo l’argilla su cui plasmare le drammaturgie, Francesca Sarteanesi si lancia in un processo di metabolizzazione di quell’immaginario in una chiave tutta personale, tutta autorale. “Sergio” è la storia minuta, comica e delicata, di un’attempata coppia di provincia raccontata dalla prospettiva della moglie, che rivolgendosi al marito lo esorta con una serie di “ti ricordi”, inneschi di altrettanti affreschi di vita quotidiana. Considerazioni che spaziano dalle libertà dei piccoli piaceri – “Siamo in quella fase, Sergio, in cui ci si potrebbe concedere, a un certo punto della mattina, anche una seconda colazione” – alle brucianti sconfitte sociali, come la scena esilarante degli amici presso cui si recano a portare un regalo i quali fingono di essere usciti, si rintanano in camera da letto e fanno dire alla figlia che i genitori non ci sono. Una scena drammatica e divertente allo stesso tempo, che Sarteanesi gestisce coi tempi comici della dilatazione (i due non hanno intenzione di andarsene finché gli amici non ritornano) e con il tono bruciante della delusione, della paura di essere oggetto di epiteti infamanti come quello di “pallosi”.
Non esiste una formula magica del racconto, se non quella dello sguardo curioso di chi osserva e poi racconta, suscitando interesse in chi ascolta. È per questo che ogni storia, per quanto minuta, può consegnarci qualcosa di universale; così come vicende più grandi ed eccezionali, se non raccontate a dovere, possono franare sotto il peso dei luoghi comuni. La cosa straordinaria del teatro di Francesca Sarteanesi – oltre a una recitazione capace di incarnare, abitando la lingua parlata del dialetto toscano, i propri personaggi e le proprie storie – è la capacità di trasformare quello sguardo curioso sulle cose dell’umano in uno strumento affilato, allo stesso tempo crudele e ricco di compassione. Ma di una compassione senza infingimenti.
È questo stesso strumento, questo sguardo oscillante tra cinismo e compassione, che emerge con forza anche nella scrittura di “Bella bestia”, storia doppia – scritta e interpretata con Luisa Bosi – ben più acida e “contemporanea”. È un intreccio che orchestra in più modi il tema della solitudine, quella che può scaturire attorno a una diagnosi per tumore, in una società che non si ferma nemmeno davanti al dolore e al senso di caducità, che impatta solo su chi lo prova in quel momento; oppure nel vicolo cieco delle relazioni sentimentali. Anche in questo lavoro si alternano momenti corrosivi a momenti comici formidabili, più spesso le due cose si sovrascrivono, sono due facce della medesima storia, come i messaggi vocali di uomini incontrati via social che risultano allo stesso tempo ridicoli e improbabili, ma anche fragili in modo fenomenale, espunti come sono dalla loro maldestra grammatica di seduzione e riproposti nudi e crudi sul palco, mentre la voce femminile di Sarteanesi mette il sigillo sull’improbabilità di quella relazione – anzi, la pietra tombale – recitando un elenco di approcci maschili seguiti, quasi come in una giaculatoria, dalla secca considerazione “no davvero!”. È un teatro di solitudini, forse di miserie, di storie minimali, ma decisamente ricco perché in grado di distillare la comicità dalla disperazione.
Breve riflessione che ci riporta in Liguria. Di Terreni Creativi e del suo modo prezioso di abitare il territorio si è parlato molto questa estate, anche per il mancato riconoscimento da parte del Mibac della richiesta di “prima istanza”, ovvero di accesso ai finanziamenti ministeriali. Il festival si svolge nelle serre di Albenga, motore imprenditoriale della zona e anche principale sostegno in termini e economici e di spazi di una manifestazione sostenuta soprattutto dall’iniziativa dei privati. L’esclusione dal sostegno economico di un progetto come Terreni Creativi, che in dodici anni ha saputo intercettare un nucleo importante di mondo teatrale, animando attraverso di esso un territorio periferico e convincendo le energie produttive della città a scommettere su questo incontro, la dice lunga sulle scarse capacità delle istituzioni di intercettare quello che nasce dal basso e lontano dalle centralità istituzionali.
Kronoteatro – compagnia animatrice del festival albenganese – è anche al centro di un incontro artistico, ancora una volta imperniato sulla drammaturgia, che è stato in programma a Prato, al festival Contemporanea. “La fabbrica degli stronzi”, spettacolo all’insegna del grottesco e del dialogo surreale, è scritto e recitato da Luciana Maniaci e Francesco D’amore, della compagnia Maniaci D’amore in scena con Tommaso Bianco e Maurizio Sguotti (ovvero Kronoteatro). La scena si apre su una particolarissima riunione di famiglia, quella di tre figli al cospetto del cadavere della madre (interpretata da Maurizio Sguotti). Un cadavere parlante, che si insinua in modo improvviso nel dialogo dei figli, fatto di terrificanti ricordi di infanzia e digressioni che rivelano con linguaggio asciutto, come si parlasse d’altro, una dinamica ferocemente disfunzionale. La parentela tra i personaggi è sottolineata dal rosso dei capelli e della barba, che sfoggiano tutti – cadavere incluso –, un colore innaturale ma identificativo, come se ci trovassimo a cospetto di una tribù. La tribù degli “stronzi”, come recita il titolo? Può darsi. Oppure, meno prosaicamente, la tribù di chi commisera se stesso, soffermandosi sui torti che ha subito, senza rendersi conto di essere, in altri momenti e contesti, lo strumento del sopruso altri. Forse è questa la sintesi dell’intreccio surreale che si snoda lungo una riunione di famiglia sospesa tra il lugubre e il bizzarro, dove appare evidente che ognuno può essere lo “stronzo” di qualcun altro. Lo spettacolo, molto divertente ma non privo di tinte livide, funziona non soltanto perché il lato grottesco è sempre contrappuntato da una sfumatura amara, ma anche perché questa spinta agrodolce è il frutto di incontro artistico riuscito.
Non era scontato che due compagnie, entrambe con una cifra espressiva molto netta e una pratica di scrittura consolidata che ne delinea l’identità artistica, fossero in grado di trovare un punto di incontro dove parlare una lingua comune. Così è stato, e “La fabbrica degli stronzi” è forse persino un passo avanti interessante nel percorso delle due compagnie, entrambe impegnate sul fronte del grottesco, perché nel confronto con l’altra formazione i quattro artisti hanno saputo far uscire una vena leggermente malinconica, un contrappunto amaro che accende di toni poetici la loro critica del presente, ancora una volta livida ma questa volta più attenta ai contorni emotivi dell’infelicità.
Chi parla una lingua smaccatamente emotiva, ed è in grado di farlo senza cadere nella retorica ma pure senza paura di apparire troppo sentimentale, è certamente Oscar De Summa, che torna con un monologo intenso e toccante, che a Prato ha riscontrato un grande successo di pubblico. Con “L’ultima eredità” l’attore pugliese fa i conti con la morte del padre, un passaggio doloroso ma inevitabile dell’età adulta, che Oscar De Summa sa cogliere anche a partire da condizioni laterali, come la distanza geografica. Per chi decide di lasciare il sud e trasferirsi a Bologna, per lavoro, la famiglia di origine è sempre un eco lontana, remota eppure presente, ammantata di un alone di eternità che è ovviamente illusorio, ultimo residuo dell’infanzia. Quando un padre sta male è il caso di lasciare tutto e scendere? Cosa succede al flusso della nostra vita frenetica, se accettiamo questa cesura? È chiaro che quando la situazione precipita il dovere di un figlio, la pietà umana, perfino le convenzioni sociali impongono di correre al capezzale, ma “quando” è quel momento? Come facciamo a riconoscerlo? Con piglio narrativo che a volte oscilla tra la comicità e il malinconico, Oscar De Summa mette in fila una serie di questioni che parlano al nostro presente, anche al di là della storia che racconta. In questo anno e mezzo di pandemia la distanza dai propri affetti è stata una condizione sperimentata da molti, e non solo da chi lascia le regioni del sud per il nord.
Il tema della cura, ma anche l’importanza di riuscire a congedarsi dai propri cari quando stanno per andarsene, sono questioni che hanno investito con forza la quotidianità di questi anni difficili. Senza evocare il presente pandemico, ma con una sapienza drammaturgica che riesce ad aprire una vicenda personale, personalissima, e a presentarcela come universale, De Summa riesce quindi a far vibrare delle corde che sono le nostre, pur parlando, e con dovizia di particolari, di sé. In questa sapienza sta la bellezza di un testo che diventa subito – anche grazie alla recitazione – uno specchio per chi guarda. Uno specchio in cui osservare l’arroganza, ma anche la paura, con cui mandiamo avanti le nostre vite “come se niente fosse”, impreparati sempre ad affrontare l’estremo tabù della nostra società che crede di esorcizzare il dolore con il commercio dei piaceri: la fragilità e la morte. E forse il momento in cui l’attore e drammaturgo apre una crepa poetica in questo muro di spaurita illusione non ha nemmeno a che fare con la morte del padre, centro pulsante di questa preghiera laica che è “L’ultima eredità”; bensì con la morte di una zia. Una morte registrata velocemente, in una parte del cervello, durante una telefonata, come se si parlasse di un fatto qualunque, di una notizia tra le tante; salvo che poi, poco dopo, il cuore salta un battito, un battito solo. “Lui, non io”, ha premura di specificare l’autore. La velocità con cui si ascolta una notizia come questa è il simbolo del mondo che prosegue, e noi con lui, incuranti di quello che accade, fiduciosi che la rimozione della morte possa a suo modo salvarci, ma anche complici di quel meccanismo di accelerazione. Il battito che salta, formidabile immagine poetica, è il residuo di umanità che ci resta, il meccanismo che si inceppa, il ritorno – luminoso, e fragile – alla qualità delle relazioni che solitamente sacrifichiamo all’altare del tempo rovinoso che viviamo.
[1]Viviamo tempi accelerati, che cambiano in fretta: mentre correggo questo pezzo è arrivata la notizia che dall’11 ottobre teatri e cinema potranno finalmente tornare alla capienza del 100%.
Graziano Graziani (Roma, 1978) è scrittore e critico teatrale. Collabora con Radio 3 Rai (Fahrenheit, Tre Soldi) e Rai 5 (Memo). Caporedattore del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha collaborato con Paese Sera, Frigidaire, Il Nuovo Male, Carta e ha scritto per diverse altre testate (Opera Mundi, Lo Straniero, Diario). Ha pubblicato vari saggi di teatro e curato volumi per Editoria&Spettacolo e Titivillus. Ha pubblicato l’opera narrativa Esperia (Gaffi, 2008); una prosa teatralizzata sugli ultimi giorni di vita di Van Gogh dal titolo Il ritratto del dottor Gachet (La Camera Verde, 2009); I sonetti der Corvaccio (La Camera Verde, 2011), una Spoon River in 108 sonetti romaneschi; i reportage narrativi sulla micronazioni Stati d’eccezione. Cosa sono le micronazioni? (Edizioni dell’Asino, Roma, 2012). Cura un blog intitolato anch’esso Stati d’Eccezione.
