Torna in libreria con una nuova postfazione di Francesco Codello la lunga conversazione tra Colin Ward, uno dei maggiori pensatori anarchici del secondo Novecento, e David Goodway, Lo sguardo anarchico (pubblicato sempre da Eleuthera con la traduzione di Guido Lagomarsino e con una prefazione di Goffredo Fofi). Ringraziando l’editore per la concessione, pubblichiamo qui le prime battute dell’intenso dialogo tra Ward e il caro amico Goodway, dove vengono ripercorsi i primi incontri di Ward con il mondo dell’anarchismo e la sua idea del pensiero anarchico.

***

D. G.: Prima di tutto vorrei farti la domanda più ovvia: raccontami come sei diventato anarchico.

C. W.: Provengo da una famiglia di laburisti della periferia orientale di Londra, e dell’esistenza di un movimento anarchico ho saputo ai tempi della guerra di Spagna. Mio padre era l’ultimo di dieci figli: la sua famiglia stava nella East India Dock Road dove suo padre era definito un «grossista». Da adolescente era stato uno «studente-insegnante» nella scuola che frequentava e poi aveva ottenuto una borsa per un college dove si formavano i maestri. Dopo la Grande Guerra, mentre insegnava in una scuola del quartiere dei docks a Londra, si era laureato in geografia alla London School of Economics, uno dei pochi istituti che consentivano di studiare e lavorare insieme. Mia madre era figlia di un carpentiere della stessa zona della capitale.

Quanto a me, pur avendo superato l’esame di ammissione alla locale scuola superiore, a quindici anni, nel 1939, avevo lasciato gli studi. Temo di avere deluso i miei e sono sicuro che mio padre pensasse che, se non ero in grado di affrontare il doppio impegno che egli aveva imposto a se stesso, non valesse la pena di spronarmi a farcela. Da ragazzo una delle cose che più mi appassionava era la stampa (nella forma ormai superata con i caratteri mobili in piombo). Mi ero comprato un tornio a pedale e un amico di mio fratello che lavorava per un quotidiano mi portava pacchi interi di vecchi caratteri in piombo. Più tardi, quando avrei voluto mostrargli i risultati della sua gentilezza, ho saputo che era morto durante un bombardamento aereo.

Di trovare lavoro in una tipografia non ci fu verso, ma nel 1941, al mio terzo impiego, fui messo al tavolo da disegno nello studio di un anziano architetto con trascorsi professionali che risalivano all’ultimo decennio del xix secolo, ai tempi di William Morris e dell’Arts and Crafts Movement. La sua attività si era ridotta ai restauri provvisori delle fabbriche dell’East End londinese, una zona che conoscevo molto bene e che era stata devastata dal blitz aereo del settembre 1940.

Come qualsiasi ragazzo che lavorava nel centro di Londra per la prima volta, passavo un sacco di tempo a esplorare la City. Mi ricordo di avere scoperto il Socialist Book Centre di Essex Street, ai margini dello Strand, che era gestito da un amico di Orwell, Jon Kimche. È lì che ho scoperto le opere di Orwell, che non era facile trovare in altre librerie, e riviste come «Tribune» e «New Leader».

Alla pari di tutti i miei coetanei (non conoscevo ancora nessun obiettore), a diciotto anni fui arruolato nell’esercito (era il 1942) e, dato che lavoravo in uno studio di architettura, fui immediatamente destinato al corpo dei genieri. Mi insegnarono a costruire ponti e a farli saltare, ma ci deve essere stata un’improvvisa carenza di disegnatori perché, secondo quel sistema fantastico con cui funziona la strategia militare, fui destinato alla Army School of Hygiene, per fare gigantografie di latrine e insetti velenosi come guida per chi costruiva accampamenti e impianti igienici.

Poi, nell’autunno del 1943, la stessa insondabile strategia militare mi fece trasferire in Scozia, a Glasgow, per lavorare in una tenuta requisita in Park Terrace, con una splendida vista sulla città fumosa sotto di noi, dove, per la prima volta dalla fine della prima guerra mondiale, l’industria pesante era in piena espansione. La domenica avevo un permesso e lo utilizzavo girando per la città o passando ore alla Mitchell Library, la bellissima biblioteca pubblica aperta la domenica, fino al momento in cui potevo andare ad ascoltare i comizi politici in piazza. A Glasgow c’era una lunga tradizione in questo campo e, all’epoca, l’anarchismo era rappresentato da due oratori particolarmente brillanti e spiritosi, Eddie Shaw e Jimmie Dick. In quelle occasioni si distribuivano volantini che invitavano nella libreria anarchica di George Street e nella adiacente sala riunioni sopra il pub Hangman’s Rest di Wilson Street.

Suppongo fossero operai che riuscivano a coniugare ideologicamente l’individualismo alla Stirner con il sindacalismo.

Sì, hai ragione. Tutti e due i personaggi che ho citato riunivano in sé le versioni dell’anarchismo in apparenza più incompatibili. L’anarchico di Glasgow che più mi affascinava era però Frank Leech. Era un irlandese, ma non veniva dall’Irlanda, bensì dal Lancashire, ed era stato campione di pugilato della Marina nella prima guerra mondiale. Aveva una posteria in uno di quei quartieri residenziali ai margini della città. Lì ospitava profughi dalla Germania e dalla Spagna e lavorava con un tornio a stampa. Quando gli parlai delle pubblicazioni ufficiali americane, da me lette alla Mitchell Library, che descrivevano i piani per l’Europa del dopoguerra, mi sollecitò a condensarli in articoli per la rivista londinese «War Commentary – for Anarchism» e a spedirli alla signora M. L. Richards. Gli diedi retta e il materiale fu pubblicato, mi pare, nel dicembre del 1943.

In quel periodo Leech ebbe guai con la legge e decise di dar vita a un’azione di propaganda iniziando uno sciopero della fame nel carcere di Barlinnie. Era un personaggio assai popolare e i suoi amici, preoccupati per la sua salute, mi spinsero a fargli visita in prigione per cercare di convincerlo a desistere (pensando che un soldato in uniforme, con un accento londinese e non scozzese, avesse più probabilità di avere un permesso dal direttore del carcere). La mia visita fu evidentemente notata, perché subito dopo l’esercito mi trasferì in un’unità addetta alla manutenzione sulle isole Orcadi e Shetland, nella zona remota all’estremo nord-est della Scozia.

In questa vicenda c’è un aspetto ironico: la mia sospetta inaffidabilità mi ha tenuto lontano dai guai per il resto della guerra, mentre molti altri coscritti della mia generazione sono caduti in battaglie dimenticate e senza senso nel Sud-est asiatico.

Ma quegli anarchici impegnati e autodidatti di Glasgow mi avevano ormai conquistato alla causa anarchica, facendomi conoscere la loro libreria, vendendomi tutta la stampa anarchica che avevano a disposizione e mettendomi in contatto (postale, per il momento) con Freedom Press a Londra.

Che cosa ti attraeva dell’idea anarchica in un’epoca in cui l’entusiasmo per il comunismo sovietico era all’apice?

Non sono del tutto sicuro di come io sia riuscito a non essere infettato dall’idolatria per Stalin che affliggeva la sinistra britannica. Ma tra le pubblicazioni in vendita nella libreria anarchica di Glasgow c’erano gli scritti di Emma Goldman e di Alexander Berkman. Frank Leech stesso aveva stampato e pubblicato il pamphlet di Emma Goldman Trotsky Protests Too Much. Mi avevano colpito, molto presto, anche le opere di Arthur Koestler e di George Orwell. Lilian Wolfe, una veterana dei primi anni di Freedom Press, aveva messo il mio nome nell’elenco dei destinatari di vari giornali del dissenso, per esempio di «politics», che Dwight Macdonald pubblicava dal 1944: tutte quelle pubblicazioni avevano come tratto comune una dichiarata avversione nei confronti dello stalinismo onnipresente sulla stampa della sinistra «regolare». Sempre nel 1944 Freedom Press aveva pubblicato il libro di Maria Luisa Berneri, Workers in Stalin’s Russia, che avrebbe visto più ristampe negli anni del dopoguerra. Vi si sosteneva che il criterio fondamentale per giudicare qualsiasi regime politico era: «In che condizioni si trovano gli operai?», e che, secondo questo criterio, il regime sovietico era un disastro, con gli stessi estremi di ricchezza e di povertà del mondo capitalista. Il libro era uscito in un momento in cui, per tacito accordo, la stampa britannica non criticava l’Unione Sovietica. Sono sicuro che le generazioni a venire non riusciranno mai a capire fino a che punto le idee marxiste e staliniste abbiano condizionato le teorie degli intellettuali inglesi ed europei.

Come spiegheresti questa infatuazione quasi religiosa?

Per molti è stata una specie di conversione: la ricerca di certezze estreme. Forse è stato Orwell che l’ha definita «patriottismo dislocato», riferendosi con questo a quanti, avendo abiurato a una lealtà incondizionata per il paese di nascita, l’andavano applicando, come un cerotto, a un altro paese. Lo abbiamo visto bene nei decenni del dopoguerra in cui i marxisti inglesi, delusi dallo stalinismo, hanno offerto la loro lealtà prima alla Jugoslavia di Tito e, delusi ancora una volta, sono poi passati immediatamente alla Cuba di Castro. Non conosco armi capaci di sconfiggere questa tendenza, se non quella del ridicolo.

Come definisci l’anarchismo? Sei socialista? Il tuo essere anarchico include quello dei sindacalisti, degli individualisti, dei pacifisti…?

Per dare una definizione di anarchismo ricorro sempre alle parole di apertura di un articolo scritto da Kropotkin per l’undicesima edizione dell’Encyclopaedia Britannica nel 1905, in cui spiega che è

“il nome dato a un principio, o a una teoria della vita e del comportamento, in base al quale la società è concepita senza governo: l’armonia al suo interno si ottiene non per sottomissione alla legge o per obbedienza a una qualsivoglia autorità, ma per libero accordo stipulato tra i vari gruppi, territoriali e professionali, liberamente costituiti per fini di produzione e consumo, come pure per la soddisfazione dell’infinita varietà di bisogni e di aspirazioni di un essere civile”.

Io sono completamente d’accordo con questa definizione, che altrove Kropotkin estende. Ciò significa che io sono, per definizione, un socialista o quello che Kropotkin avrebbe definito un anarco-comunista. Ma allo stesso modo sottolineo sempre che esiste un terreno comune per persone che sono arrivate a un approccio anarchico attraverso percorsi differenti. Credo che il gruppo di Freedom Press degli anni della guerra riunisse persone che esprimevano tutte le tendenze che citavi e che questa sia stata una caratteristica di quelli legati alla testata «Freedom» per tutto il periodo della sua storia. E in effetti non mi fido di quegli anarchici che passano il tempo a demolire le posizioni di un’altra frazione anarchica.

Capisco ciò che vuoi dire, ma devo insistere su un aspetto. Io non vedo alcun riferimento al socialismo (la proprietà comune dei mezzi di produzione, di distribuzione e di scambio) nella definizione che hai preso da Kropotkin.

Perché la maggior parte delle versioni del socialismo che conosciamo implicano l’attività di un governo centrale o locale. Ma il movimento cooperativo mette in campo in tutto il mondo una molteplicità di forme di proprietà comune dei mezzi di produzione, di distribuzione e di scambio, senza dipendere dallo Stato.

Certo, ma ritengo che la definizione di Kropotkin attenga allo specifico campo dell’anarchismo e non del socialismo, anche se ha forse implicazioni socialiste. In che rapporto ti metti, personalmente, con il sindacalismo?

Mi sembra che il controllo operaio della produzione industriale sia l’unico approccio compatibile con l’anarchismo, per questo sono automaticamente un sostenitore degli obiettivi del sindacalismo. Tuttavia, ho visto spesso come una minoranza militante tentasse di alimentare conflitti di importanza secondaria fino a farli diventare lotte estreme, perdendo inevitabilmente l’appoggio della maggioranza e facendo sì che i normali operai temessero l’impegno militante. I sindacalisti, come i romanzieri e i sociologi, tendono a sopravvalutare la presenza delle grandi fabbriche fordiste, organizzate con precisione militare, nel settore manifatturiero, quando, come Kropotkin rilevava un secolo fa, il posto di lavoro tipico è in una piccola officina. Forse, quando i sindacalisti riusciranno a fare a meno di un certo romanticismo storico, sapranno sfruttare appieno le nuove tecnologie della comunicazione per combattere il capitalismo internazionale su scala globale.

E l’individualismo?

Non c’è bisogno che ti dica che le persone più individualiste che ho conosciuto erano tra quelle che respingevano l’ideologia dell’individualismo e credevano fermamente nel comunismo anarchico. Non è una battuta, ma un’osservazione che faccio quasi ogni giorno.

E il pacifismo?

Anche qui ho potuto osservare varie generazioni di anarchici che hanno avuto posizioni diverse riguardo alla violenza e alla nonviolenza. Mi ricordo di un simpaticissimo vecchio irlandese, un anarchico dei tempi andati, Matt Kavanagh, che ripeteva spesso (parlando di persone che tu e io conosciamo bene): «Il guaio dei pacifisti è che ti mollerebbero un bel pugno sul naso senza starci a pensare due volte!». Ma a chi considera ingenuo o semplicistico il pacifismo contemporaneo, io consiglierei di leggere il libro del mio amico Michael Randle, Civil Resistance, che discute le potenzialità e i limiti dell’azione pacifista.

Sono sicuro che George Orwell – il quale durante la seconda guerra mondiale ha dedicato tantissimo tempo ad attaccare la posizione pacifista dei suoi amici Alex Comfort e George Woodcock – osserverebbe, nonostante tutto, che coloro che sono più proni a criticare l’ideologia della nonviolenza sono anche quelli che hanno meno dimestichezza con la natura orribile, squallida e arbitraria della violenza.

Condividi

1 commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

redazione@minimaetmoralia.it

Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente

Articoli correlati