Lisetta Carmi lascia un modo di intersecare la realtà, di attraversarla impigliandosi da tutte le parti, di viverla vivendo del suo respiro, di guardarla andandoci dentro, di donarla senza mai smettere di amarla. Nel momento della sua crescita, nel periodo in cui molte domande le si affacciano da un mondo spesso frastornante, Lisetta opta per capire, di esserci, di partecipare alla realtà, e per farlo sceglie una macchina fotografica. In una casa borghese di Genova, di fronte a un pianoforte a cui sembra destinata per sempre, si apre una falla, una crepa: la falla e la crepa sono gli altri, l’umano. A vent’anni torna in città alla fine della guerra, la fuga dalle retate degli ebrei lascia svariati segni su di lei e non ultimo quello di non essere rimasta come staffetta partigiana.
Al rientro la narrazione degli altri e la narrazione dei luoghi stessi di ciò che è stato durante il conflitto allargano quella crepa e in Lisetta l’ascoltare, il vedere, il sentire iniziano a divenire predominanti, dirà infatti “[…] credo di dovere al fatto che sono ebrea la comprensione che in tutta la mia vita ho sempre avuto verso chi soffre”.
Continua la sua vita di concertista mentre il mondo cambia, e cambia nelle vie di molte città, soprattutto nelle strade della sua città che, nei ’60, per mesi saranno occupate dalle manifestazioni con lo scontro tra fascisti, antifascisti, governo, portuali, lavoratori tutti e polizia. Le piazze sono incandescenti e lei decide di andarci, trascinata dai suoi ideali, dalla comprensione verso chi soffre soprusi e patimenti. Il passaggio dal pianoforte alla macchina fotografica è lieve ma comporta una prospettiva interamente ribaltata. La fotografia in lei nasce come desiderio di documentare un viaggio in Puglia, e scaturisce assolutamente digiuna dal fervore che in quei decenni l’arte fotografica vive in Italia, in Francia e via via più lontano; Lisetta invero non segue una moda o un nuovo modo di parlare del mondo, segue il suo modo di stare nel mondo e parlare con lui: “Ho fotografato per capire”, dirà.
Emoziona pensare come tutto ciò che sino ad allora l’aveva toccata personalmente o da oltre la finestra di casa a un certo punto della sua vita si palesasse come necessità di capire, di entrare, di esserci. Documentare è un verbo molto riduttivo riferito a Carmi, lei va a vedere laddove nessuno vuole guardare e da lì ribalta categorie e convenzioni, generi e appartenenze; lo fa spostando ogni confine imposto dall’accettabilità comune, scavalcando i margini imposti da ruoli biologici e sociali, vedendo la bellezza e il riscatto in persone e cose esiliate dalla vita quotidiana, segregate e ghettizzate nel diverso. In grande sintonia di tempi e modi, pur non sapendolo ancora, Lisetta Carmi opera quello sguardo femminista che cerca di spezzare la normatività corporea che non dà sosta e si afferma attraverso “quelle pratiche sociali che costituiscono il corpo come oggetto docile e rassicurante”, come scrive Rosi Braidotti.
Lisetta, su questo percorso, affronta nei suoi lavori fotografici anche la teratologia, quella scienza dei mostri che individua il non conforme come deviazione da sottacere, occultare, far sparire: al contrario, di fronte a tutto ciò che non è socialmente accettato o convenzionale lei punta l’obbiettivo, per capirlo, entrarci, dargli voce. Dagli anni Sessanta e fino quasi agli Ottanta Lisetta Carmi porta lo studio della musica nella fotografia, l’attenzione per il suono e per la voce delle immagini: il cimitero di Staglieno, il teatro, il porto di Genova, i ritratti di Ezra Pound, i Travestiti del decennio dei Sessanta e nel decennio successivo l’Irlanda, l’India, la Sicilia, solo per citare alcuni luoghi. Ogni suo scatto è anticonvenzionale, ogni soggetto messo a fuoco è l’altra parte della vita, quella spesso occultata o da occultare.
Nel progetto dedicato ai travestiti, che la occupa dal 1965 al 1971, Carmi mette sé stessa in una comunità additata e marginalizzata, mette sé stessa dentro ogni scatto, facendo nascere un lavoro che parla del singolo e dell’umanità intera, dell’immagine riprodotta e di tutto ciò che le sta attorno, riverberando in ogni negativo pezzi di società che scalpitano dentro a delle gabbie imposte: “Io stessa a quel tempo ero assillata – forse a livello inconscio – da problemi di identificazione maschile e femminile… E i travestiti (o meglio il mio rapporto coi travestiti) mi hanno aiutato ad accettarmi per quello che sono: una persona che vive senza un ruolo”.
Il suo rapporto con la fotografia diviene il rapporto con i suoi soggetti e all’inverso, con i soggetti si rapporta con la fotografia. Contro ogni premeditazione o voglia di seguire una moda, ma attraverso un procedimento del tutto autentico e personale, Lisetta Carmi restituisce in fotografia anni di filosofia femminista, si affianca senza saperlo ad artiste e artisti, a filosofe e filosofi, che negli stessi decenni cercano di dare luce anche a un’altra parte di mondo, quella spesso lasciata al buio. Il lavoro fotografico al Cimitero di Stagliano, per il quale aveva scelto il titolo “Erotismo e autoritarismo a Stagliano”, era stato definito anticonvenzionale, quello dal titolo “Travestiti” aveva faticato a vedere un editore e uno spazio per la portata rivoluzionaria: gli interni, le feste, gli abiti, i corpi, il mobilio, la gioia, le strade, i ninnoli di una comunità che viene ricacciata in un’altra parte di mondo.
Carmi, senza espedienti estetici e con sguardo diretto e curioso, ha avviato e dato il passo a nuovi soggetti, uscendo dall’immaginario del vecchio patriarcato e della vecchia società blindata, portando alla luce corpi e vite altre, corpi dediti o schiavizzati dal lavoro, corpi che vivono una loro identità altra, corpi segregati.
Nel ‘76, dopo aver svelato a noi tanto mondo, l’incontro con Herakhan Baba, Babaji – lei è fotografa, viaggia molto e vive tra Genova e Cisternino – che le rivela la sua vita successiva. Nel ritorno in Puglia fonda un ashram, Bhole Baba, che diviene un centro spirituale riconosciuto dallo Stato italiano e lascia la fotografia. Negli anni ’90, orami pratica di grandi evoluzioni, torna al pianoforte seguendo un medico psicoterapeuta che era stato suo allievo di pianoforte da bambino: lascia l’ashram e riprende a suonare. Nel Duemila, grazie a un altro propizio incontro, inizia a rimettere mano al suo archivio fotografico, riordinando, schedando, datando; dando così un nuovo corso alla sua fotografia che inizierà a venire esposta e studiata.
Il quotidiano, lo scorrere ordinario della vita delle esistenze che hanno meno corpo, meno voce, gli altri, l’umano, i “compagni corpi” – come scrive in versi Anna Maria Carpi – di cui in fotografia si occupa, ma di cui continua a dedicarsi attraverso l’ashram e attraverso la musica, sono il marchio di una donna, un’artista, che nell’arco di tutta la sua lunga vita ha voluto entrare in contatto con i compagni corpi e le sorelle vite, intersecarli, attraversarli, sapendo, come scrive Alda Merini, che “Per evolversi la vita deve fare male./ Il dolore è una terraferma”: guardare al dolore delle vite degli altri, al loro disagio, e parlare con loro e di loro ferma la terra, dà voce a chi non ne ha.
Anna Toscano vive a Venezia, insegna presso l’Università Ca’ Foscari e collabora con altre università. Un’ampia parte del suo lavoro è dedicato allo studio di autrici donne, da cui nascono articoli, libri, incontri, spettacoli, corsi, conferenze, curatele, tra cui Il calendario non mi segue. Goliarda Sapienza e Con amore e con amicizia, Lisetta Carmi, Electa 2023 e le antologie Chiamami col mio nome. Antologia poetica di donne vol. I e vol. II. Molto l’impegno per la sua città, sia partecipando a trasmissioni radio e tv, sia attraverso la scrittura e la fotografia, ultimi: 111 luoghi di Venezia che devi proprio scoprire, con G. Montieri, 2023 e in The Passenger Venezia, 2023. Fa parte del direttivo della Società Italiana delle Letterate e del direttivo scientifico di Balthazar Journal; molte collaborazioni con testate e riviste, tra le altre minima&moralia, Doppiozero, Leggendaria, Artribune, Il Sole24 Ore. La sua sesta e ultima raccolta di poesie è Al buffet con la morte, 2018; liriche, racconti e saggi sono rintracciabili in riviste e antologie. Suoi scatti fotografici sono apparsi in guide, giornali, manifesti, copertine di libri, mostre personali e collettive. Varie le esperienze radiofoniche e teatrali.
