(fotografia di Claudia Pajewski)
Thomas Ligotti è un autore di culto che solo di recente sta approdando al grande pubblico italiano ma in patria, negli Stati Uniti, è considerato l’erede di Poe e Lovecraft. E in effetti è difficile circoscrivere la sua scrittura al solo ambito dell’horror, come a volte succede, perché gli scenari dei suoi racconti e delle sue storie hanno a che vedere con il perturbante più che con lo splatter, un senso d’angoscia dove l’orrore è tutto interiore, nel personaggio che lo prova e nel lettore che lo legge, un orrore che ha a che vedere con lo sgomento del vivente rispetto all’insensatezza dell’esistenza. Da questo punto di vista, allora, si può dire che Ligotti utilizzi l’orrore in chiave filosofica, come una speculative fiction in salsa weird, creando squarci su mondi che rendono plastico e palese il pessimismo filosofico che innerva la sua visione del mondo. Ed è proprio questo aspetto che Fabio Condemi interroga nella sua versione teatrale dell’universo letterario di Ligotti, «Nottuari», parola che rende al plurale uno dei titoli culto dell’autore, perché in fondo l’architettura da incubo allestita sulla scena non è altro che un’esplorazione di vari scritti di Ligotti, una summa, o un distillato, del suo mondo narrativo e filosofico.
«Nottuari» si compone di diversi quadri, in parte parlati e in parte realizzati visivamente secondo un modello che è allo stesso tempo cinematografico e pittorico, tagliato da luci hopperiane ma carico di piani sequenza – potremmo definirli così – dove la fissità dell’immagine si anima, di un fiotto di sangue che sgorga dalla parete, ad esempio, o di una vibrazione sonora inquietante e ossessiva che scuote, letteralmente, la cassa toracica degli spettatori. La giovane donna che racconta con voce monocorde la propria personale discesa nell’abisso e la morte dei genitori con voce non sua; la bambina vestita da steghetta di Halloween che bussa alla porta e la sua omologa più grande che si sveglia urlando; il filosofo che discetta sull’immagine della medusa decapitata, mito per eccellenza del rapporto ambiguo di attrazione e desiderio di morte che noi (la società) intratteniamo con l’immagine; ogni tassello contribuisce a creare un’atmosfera soffocante dove delirio, disturbo e ossessione sembrano saturare costantemente l’aria, pur non incarnandosi mai in qualcosa di preciso, di macabro, di effettivo. L’orrore di Ligotti, sembra suggerire Condemi, non ha bisogno di manifestarsi in una rottura, perché è innervato nell’esistenza stessa dei viventi, sottende il loro essere stati gettati nel mondo, che è a sua volta fonte di orrore.
Ligotti ha espresso questa concezione di pessimismo estremo non solo nella narrativa, ma anche in una serie di riflessioni raccolte nel volume “La cospirazione contro la razza umana”, e la sua visione finisce per riversarsi nelle teorie antinataliste, nell’estizione volontaria che l’umanità, secondo una certa filosofia delle cose, dovrebbe praticare per diminuire il dolore – inevitabile a causa dell’esistenza stessa, che ne é fonte – presente a questo mondo. È una concezione radicale, che qua e là presenta anche delle fallacie logiche (ad esempio quando postula che il numero desiderabile di esseri umani per il mondo è pari a zero, caricando così l’essere umano di una valenza intrinsecamente maligna per il mondo che invece è, casomai, del tutto indifferente alle passioni umane), ma che affascina proprio per il suo radicale rovesciamento della retorica della vita come bene sommo, di cui religioni, filosofie e luoghi comuni spesso abbondano.
D’altronde a Fabio Condemi non interessa estrarre una verità dalle parole di Ligotti, quanto un’atmosfera e un rovesciamento dei punti di vista del quotidiano. È per questo, probabilmente, che si sofferma sulle implicazioni del mito di medusa, abisso della società iconolatra, dove tutto è spettacolo ma anche tutto anela al proprio disfacimento. Lo scrittore (interpretato da Francesco Pennacchia) lo dice in modo esplicito, quando racconta del perché scrive, un’azione che non è dotata di chissà quale implicito ruolo salvifico, ma che concepisce come una reazione, come qualcosa che è stimolato a fare, non diversamente dal fumo, dall’abitudine di accendere una sigaretta dopo l’altra. Non si vive per scelta, ma per necessità. Ma la necessità è, a sua volta, la prigione che ci costringe a prolungare l’agonia di un’esistenza comunque votata al disfacimento.
Ligotti, che si muove sul solco della natura matrigna leopardiana, non ha però interesse a ripiegare sul lirismo, né a cercare risposte consolatorie che possano mitigare la sofferenza del vivente che nasce per morire. Piuttosto cerca di distillare delle immagini che tale consapevolezza provoca nell’animo al momento dello smarrimento e trasformarle in emblemi. Così fa Condemi, che nel suo spettacolo ci indica che quello smarrimento è, allo stesso tempo una forma di agnizione: è solo dalla lucidità, dallo spogliarsi delle retoriche falsamente salvifiche della religione e del valore intrinseco dell’esistenza umana che ci si può avvicinare alla nuda realtà dell’esistenza. Immagini che Condemi trasforma in dispositivi scenici con la complicità di Fabio Cherstich, sommando visioni oniriche, cupe, in un rebus teatrale, dove le figure si aggirano come in un sogno. Da questo punto di vista sono azzeccatissimi (e bravissimi) gli attori, Francesco Pennacchia e Julien Lambert, che ricordano certi personaggi di Mario Bava in “Lisa e il diavolo”; e il gioco di specchi temporali tra Carolina Ellero e la piccola Ludovica Marsili, la cui somiglianza amplifica la sensazione cinematografica della scena; o ancora certe atmosfere da Loggia Nera lynchiana, espunta, potremmo dire, dai guizzi ironici che il regista statunitense spesso inserisce nelle sue visioni.
«Nottuari» è un’operazione riuscita e non è affatto scontato che lo fosse, perché l’idea di portare l’orrore a teatro – nonostante il precedente storico del Gran Guignol – poteva rivelarsi fallimentare proprio per la differenza di linguaggi rispetto all’horror contemporaneo; mentre rifarsi troppo al cinema poteva significare soccombere ad immaginari già conosciuti e definiti. Fabio Condemi, invece, riesce a creare una scatola onirica che scuote gli spettatori e che, pur rifrangendosi in citazioni letterarie e cinematografiche, possiede una sua potente, livida, autonomia.
[Visto a Roma, Teatro India]
Graziano Graziani (Roma, 1978) è scrittore e critico teatrale. Collabora con Radio 3 Rai (Fahrenheit, Tre Soldi) e Rai 5 (Memo). Caporedattore del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha collaborato con Paese Sera, Frigidaire, Il Nuovo Male, Carta e ha scritto per diverse altre testate (Opera Mundi, Lo Straniero, Diario). Ha pubblicato vari saggi di teatro e curato volumi per Editoria&Spettacolo e Titivillus. Ha pubblicato l’opera narrativa Esperia (Gaffi, 2008); una prosa teatralizzata sugli ultimi giorni di vita di Van Gogh dal titolo Il ritratto del dottor Gachet (La Camera Verde, 2009); I sonetti der Corvaccio (La Camera Verde, 2011), una Spoon River in 108 sonetti romaneschi; i reportage narrativi sulla micronazioni Stati d’eccezione. Cosa sono le micronazioni? (Edizioni dell’Asino, Roma, 2012). Cura un blog intitolato anch’esso Stati d’Eccezione.
