Un serpente attorcigliato tra mandibola e occhio, una fitta acuta e incessante che sembra non trovare soluzione. È questo tormento inspiegabile il punto di partenza di “Pathemata. O, la storia della mia bocca”, opera evocativa e multiforme di Maggie Nelson (secondo tassello di un percorso iniziato idealmente con Bluets) pubblicata da Nottetempo, sempre nella sapiente traduzione di Alessandra Castellazzi.
Nell’intreccio di osservazioni intime e riflessioni teoriche, Nelson plasma una forma ibrida di scrittura che si snoda tra poesia, saggio e diario filosofico. L’intelaiatura di Pathemata è costituita dall’annotazione degli innumerevoli tentativi di interventi clinici per alleviare il dolore cronico alla mascella: dall’infanzia caratterizzata dalla tendenza a “parlare troppo e troppo rapidamente”, all’intervento dell’ortodontista che le applica una punta di metallo dietro i denti per scoraggiare la spinta della lingua, fino al presente della scrittura in cui il dolore è elemento onnipresente, sfiancante.
Ovviamente io mi capivo alla perfezione – e pure mia sorella mia capiva – perciò una parte di me si chiedeva se non fosse qualcos’altro che volevano aggiustare, quella che chiamavano eufemisticamente “la mia bocca”.
Nel suo peregrinare senza sosta tra cliniche, dentisti che si lasciano andare a commenti sessisti e presunti specialisti di ogni sorta, Nelson ricostruisce lungo un decennio il suo personale diario di paziente e nel frattempo a questa condizione se ne affiancano altre: l’isolamento forzato del covid, le incomprensioni di un rapporto di coppia, i tentennamenti della maternità, lo squarcio profondo del lutto passato (la morte del padre, che l’autrice definisce “ombelico della mia solitudine”) e perdite più recenti, come la fine dell’amica e mentore C.
Il dolore per Nelson non è semplice oggetto di narrazione, ma fornisce una nuova grammatica all’esplorazione personale. Un patimento che pare trasfigurare la realtà, facendosi veicolo per un’analisi abissale dell’esperienza traumatica, portale d’accesso a un’altra forma di conoscenza. È il titolo stesso a suggerirlo con il richiamo alla radice greca del patire e l’eco del “pathei mathos” di Eschilo. Il male fisico diventa presupposto per scandagliare i punti di contatto (simili ai minuscoli punti di contatto tra i denti di una bocca, “cugini perduti della stessa stella”) tra il logos della vita quotidiana e l’incoscienza onirica. A dircelo è la stessa Nelson: il suo scritto si colloca lungo il crinale tra sogno e realtà e in quest’ottica va dunque interpretata ogni sua rappresentazione.
L’opera assume allora i contorni di una forma estrema di lucidità e di un’anamnesi allucinata: lo vediamo nei sogni spesso angoscianti (un cranio si trasforma in “fosfeni radianti con orribili denti cavernosi”) che l’autrice registra fedelmente e che informano di continuo il suo vissuto. Mentre l’inconscio si tende tra reale e irreale, penetra nell’ordinario e nel dato quotidiano per tentare di portare alla luce paure e timori trattenuti, ferite più profonde.
È questa la dimensione bicuspide in cui Pathemata si muove, investigando le ampie e intime conseguenze della sofferenza sulla nostra vita e sulla nostra esperienza del tempo, dello spazio fisico che occupiamo, del corpo proprio e altrui, inteso non solo come territorio di patimento ma anche collettore di forze simboliche. Soffre e tuttavia è anche un organismo che “significa”, che destabilizza le condizioni stesse del linguaggio e offre i presupposti per crearne di nuove. La bocca, origine della parola e sede del guasto, diventa rappresentazione di questa tensione: è il luogo in cui il linguaggio nasce, è anche il luogo dove si lacera e si spezzetta.
Non è un caso se Nelson affida le sue riflessioni a una struttura frammentaria ed essenziale, di estrema musicalità. Non siamo di fronte a un libro che si offre passivamente: sfida il lettore con la sua densità, la struttura disarticolata, il rifiuto della narrazione lineare. Le impressioni si accumulano, si confondono tra loro e la scrittura è cristallina, esatta, eppure non semplice. Ogni frase è calibrata e finemente cesellata come se Nelson si muovesse su di un filo, e in fondo è proprio così: il suo è un esercizio di equilibrio tra l’afflizione e la presenza di spirito, tra testimonianza e analisi. Tra la spinta della voce (e di una lingua) che desidera dire il dolore e l’impossibilità di dirlo fino in fondo, di dirlo tutto. In questo solco si fa largo anche una certa fragilità, una forma di verità che non sta nell’intero e che nello scarto trova una nuova collocazione, una forma espressiva ancora incontaminata.
Sarebbe inconcepibile per l’autrice, per la postura etica e filosofica con cui si pone di fronte alla sofferenza e alla scrittura stessa, rinunciare all’enigma del dolore:
Il dolore esige urgenza: bisogna diventare insensibili alle sue suppliche
Quello di Nelson è un testo obliquo, commovente e insieme disturbante. Si lascia attraversare, pur dandoci la sensazione di trovarci sempre sull’orlo dello svelamento di un segreto. La ricognizione intima del soffrire è anche una riflessione profonda sulla vulnerabilità e sulla perseveranza con cui cerchiamo di ristabilire una connessione con noi stessi e con gli altri durante ma soprattutto dopo e oltre il dolore. O nonostante il dolore.
L’unica cosa che mi spaventa più del dolore e della sua ferocia è il torpore, la paralisi
Allora quella di Nelson è anche una posizione che reca in sé un preciso valore politico: la sofferenza non è mai soltanto danno e frattura. Se il male è in qualche modo inevitabile (e lo è), la scrittura si tramuta in un processo analitico e al tempo stesso generativo. Non è stasi, ma sempre anche un tentativo di ritrovarsi e saper cogliere il momento in cui avviene uno slittamento, l’attimo in cui ci si riconosce in grado di restituire qualcosa. Dove, infine, “come un piccolo fascio di luce” la lezione di tanto patire si delinea e si fa nuovo punto di partenza.
Milena Sanfilippo traduce narrativa e saggistica dall’inglese per diverse case editrici, tra cui Nottetempo, Sur, Fandango, Accento, Bompiani, 66thand2nd, Mercurio, Moscabianca. Cura la realizzazione di sottotitoli per alcune rassegne e piccoli festival cinematografici. Ha collaborato come traduttrice con alcune testate giornalistiche occupandosi anche di revisione dei testi. Suoi articoli sono apparsi su “Altri Animali”.
