Pubblichiamo, ringraziando autore ed editore, un estratto da “Anni ombra” di Alberto Casadei, uscito nella collana Interzona di Polidoro Editore.
di Alberto Casadei
Dall’alto la parte sospesa, il tondo perfetto; dal basso le forme geometricamente meno nobili, legate alla terra, rettangoli, liste oblique. Lui al centro come un uomo del Rinascimento; ma solo lì, nel mondo da lui costruito, in un cubo da lui abitato, non altrove. Poteva fissare oggetti, come fece da quando aveva cominciato a ricordare e spazio e tempo sorgono insieme. I rapporti geometrici, del resto, costituiscono un dato non accessorio, non plasmabile, condizionano i gesti in modo tale da entrare a farvi parte. I suoi gesti nascono perciò in uno spazio apparentemente rigido, poi vengono modificati adattandoli ad altre circostanze. Ma devo dichiararli, benché siano come quelli di tutti? Sì, bisogna replicarsi ora e sempre.
E quindi, elencare gli stati che identificano il suo passaggio. Il deposito dei vestiti sopra una sedia o sulla poltrona-letto in stoffa ruvida color ocra antistrappo. Su quella poltrona (o sulle sedie) deposita i pantaloni grigi, le camicie a righe, i maglioni di lana grossa, mentre in altre zone rimangono impermeabile giacca sciarpa scarpe calze di varia lunghezza. Per qualche inezia di tempo.
Il letto, un ulteriore catalogo neutro. Il pigiama comprato in svendita, la federa con lenzuola coordinate ma più lise, bianche o al limite a scacchi marroni, piccoli; poi la coperta, la sovracoperta, ogni genere di protezione, sconvolte al mattino e risistemate, senza pieghe, drittamente, con il pigiama nascosto, perché lui-io viveva e mangiava, vestendo altri panni.
Poche cariche da dare (un orologio vecchio ma ben funzionante, colore bordò, regalo di parenti, marca Junghas o simile, tedesca), finestre da chiudere-aprire, sostituire il consumato: fiammiferi familiari, carta scottex, detersivi abrasivi acquistati su consiglio di più esperti, pile inattive ancorché ecologiche. Ma infine di poco si modifica il suo valore complessivo, il suo ecosistema generato lentamente dai bisogni, nemmeno primari. Gli aspetti erano questi, l’ordine e il disordine si assomigliano per la continua e ovvia calma della condizione complessiva. Tuttavia non avrebbe potuto ripetere esattamente, fino all’ultimo dettaglio (la posizione delle vesti – il livello dei liquidi – numero dei fiammiferi – computo delle entrate e delle uscite), un suo giorno.
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Era il riso suo sforzato, nasceva da lontano, quasi privo di legami con gli avvenimenti, al modo di chi si risveglia all’improvviso. Cominciò lentamente, crebbe, lui lo sentì, non ogni parte di un riso è uguale. Una curva, sinuosa, quell’altro diabolicus lo fa procedere verso di lui, a dimostrare distacco superiorità volontà di potenza scherno e tutto quanto ci vuole, superior stabat.
Lui attonito si preparò a resistere, a chiedere spiegazioni, un impiegato del mondo, onesto lavoratore, eppure deriso senza ritegno. Mentre il riso era altissimo, in decibel + ∞, e la bocca larghissima, e gli occhi cattivissimi, e lui bimbo buono e deriso: perché esiste un modo di scomparire totalmente determinato dagli altri.
Denti prima stretti, sbuffi contenuti, occhi divertiti, poi apre i denti prima stretti ed emette suoni gutturali. Sembra lanciare lampettini di gioia.
Ora la bocca larghissima divenne più larghissima, ci vide dentro trenta navi duemila òmini e oltre d’ogni epoca e nazione case con il fòco acceso piante vacche sparse. E un piccoletto-io, che sembrava appena arrivato, frastornato dal rimbombo del riso nella caverna, ovunque ridere, lui nel riso come tutti e tutto, dentro il riso. Corpo sezionato atomo per atomo, poiché il corpo non deve esistere quando si realizza il riso, o io o tu. Ogni uomo che nasce ne uccide un altro: uno che ride, vince.
Ma ecco che si innalza la mia immagine virtuale, la riconosco, ora sbriciolata, gli occhi sotto la linea del mento. Affondata.
È tutto, ride, non occorrono ulteriori spiegazioni, può andare, grazie.
La bocca si richiuse.
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Com’è stata la nostra esistenza nell’Italia post-fascista? Un bambino che giocava col secchiello in riva al mare a metà degli anni Sessanta, e i suoi genitori potevano fare le vacanze con lui e fotografarlo, piccole gioie un tempo riservate a persone ben più abbienti e autorevoli. Un adolescente che vede trasformarsi le rivolte entusiasmanti in lotte sanguinose, culminate nell’assassinio di un leader certo non popolare eppure probo nel suo abile ricamare accordi per uscire dalla sudditanza nella geopolitica. E vincoli esteriori ma continuamente superati nel vivere segreto, il fascismo praticato come semplice sistema di organizzazione protostorica, la democrazia imperfetta il bipolarismo imperfetto e poi lui, il capo imperfetto che incarna i sogni diventati desideri diventati acceleratorini dell’edonismo depotenziato. E ti ritrovi ad accettare ormai un mondo senza possibile riscatto, in cui gli esseri umani non saranno mai uguali, in cui le lotte per i diritti non produrranno che indifferenza, in cui si sostengono le cause nobili per tenere a bada la vecchia coscienza, in cui sei capitato e non hai vie di fuga.
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Necessità di passare sempre dal minimo all’astratto. Cubo di plexiglas con dentro micro-mondo e poi massimi sistemi su cosa percepiamo della realtà. Inserire ricordi precisi di microeventi, invenzioni di ricordi ecc. Potresti interpretare immagini youtube su nascita universo ecc. Solo interpretando l’Universo come insieme si può sperare di capire qualcosa in più: forze intrinseche al sistema, intelletto possibile, e azione qui e ora: esporre le nostre vite come sceneggiature.
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Questa volta solo lui, che è più o meno un altro, e si ritrova a connettere la sua vita a quanto sta succedendo in televisione, a Nembro, per esempio, dove non è mai passato in vita sua e dove stanno morendo uno dopo l’altro, come nelle pestilenze medievali, e vedeva camion pieni di bare che sfilavano per andare in un luogo imprecisato, come dev’essere quando non sai nemmeno come approntare una difesa dal virus che ti ha colonizzato. La paura è tutta implicita, sai che potresti morire ma ascolti un Primo Ministro che parla di cautele e di salvaguardia in maniera ben recitata, non un dramma bensì una relazione a un’assemblea in tele-visione. E poi un Papa che prega da solo nella Piazza di tutta la sua Chiesa, e si appella alle immagini, e poi lo inquadrano di spalle con la casula bianca e oro che solleva un ostensorio raggiato, controluce e controbuio, barocco il giusto come un’inquadratura di Sorrentino, e incapace però di certificare il sacro, solo la sofferenza residua. Così si perdono gli ultimi segnali superni.
E lui aspetta quindi qualunque indizio terreno, quelli cui ormai deve per forza credere, andando avanti perché ci sono persone da proteggere, senza essere travolti da quel male, che può arrivare nei pochi istanti passati vicino a un amico a un conoscente almeno da salutare a un parente da accudire con affetto. Il virus ha disgregato il tempo carnevalesco in cui si viveva perennemente, rovesciato e godibile, dando importanza a ciascun momento, quando accarezza un volto e temi di produrre un male per quel corpo, caro e giovane, o quando prende in fretta quello che resta al supermercato, guardando con sospetto l’anziano che ha toccato le maniglie dei surgelatori, untore senza saperlo, o quando ha la mascherina FP2 un minimo sotto la punta del naso e la vicina sul tram, da un metro di distanza, gli urla che la vuole ammazzare: e lui sa che è vero.
Dopo tanti mesi, dopo aver percepito l’importanza e la vacuità di ogni atomo di vita, dopo aver fatto parte di una sceneggiatura mondiale, magari una serie distopica con il virus sfuggito al controllo dei cattivoni e diventato minaccia in ogni zona del mondo, e poi si scopre che forse un miliardo di persone o forse più si sono ammalate ma il Covid-19 ne ha fatte fuori una minima parte, 99% di guarigioni, e tuttavia lui è cambiato dentro, la sua testa non più lucida, le sue paure cresciute per qualunque inezia, fobie, manie, solitudini non necessarie, e la sensazione di aver fatto parte di un altro esperimento di quanto non siamo tenuti a conoscere, sebbene ci costringa a conoscerci.
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Lontane analogie
La tua immagine ripresa su un maxischermo
sembra sorriderti senza esserti.
Cosa fa e come vive nelle masse cerebrali
di chi ti ha visto e non riconosciuto
come accade 10 alla enne volte ogni giorno?
Piccole perturbazioni ininfluenti, o quasi.
Tuttavia quella tua involontaria icona
magari si è inoculata nel corpo di un bimbo
che l’ha accolta virus-like, e da grande
persino al di là dei traumi o delle paranoie
tu-quella sarai il suo oscuro perturbante
irriconoscibile e misterioso come un dio.
Quel tetto turbolento dove ruotano le masse
di bosoni, poi particole poi atomi poi
sfere spirali onde buchi cerchi ellissi
o semplici stringhette ricomposte in un gioco
abnorme, fuochi con troppa materia, da consumare-
-trasformare in ferro, in oro, in questa pelle
fra poco defedata, quel tetto dove si muovono
senza muoversi tutti i tuoi componenti
è anche l’immagine della tua morte?
La signora anziana che procede con l’ombrello rosso
mattone aperto ben sotto la pensilina, il vigilante
che cambia all’improvviso direzione, la tovaglia
a larghi fiori rosa che cade per errore volando
per un po’, le lame di luce nei tunnel
della linea Genova-Monterosso, l’esplosione
più bella di una supernova non vera da sé
eppure vera, il tuo primo ricordo, magari indotto,
un camioncino verde militare che tanto desideravi,
il veliero blu nel bacino di carenaggio di Chiavari…
No, niente di ricco e strano, nessuno stampo.
Dentro l’acqua, ora. T’immaginavi fluttuante
nel liquido amniotico, ti collocavi in spazi
virtuali e vividi, e volevi viverci, viva
la tua vita decenne, e così ti tuffi nell’onda innocua
solo per i più grandi, superbamente forte
per te, travolto ruotato apneico, no,
non puoi respirare quel liquido, non
rilascia il suo ossigeno, non consente ai tuoi polmoncini
di agire.
Forse sei morto allora, il resto è un’esistenza pseudola
di zombie che è cresciuto, ha mangiato, vestito panni,
anche cagato e pisciato, per dirla tutta, o meglio
per aggiungere alcune altre parole là dove ne mancano
troppe, e tu non sai e non saprai come analogizzano
la liscia infinità di quello schermo e la falsa infinità
del tetto universale e la piccola finità del tuo io rimasto nell’onda.
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