di Edoardo Pisani

Qualche tempo fa, in un articolo che trattava di Fleur Jaeggy, ripresi una frase di Cesare Cases che asseriva che dopo la morte di Elsa Morante Jaeggy fosse la nostra scrittrice più grande. Commentai che l’osservazione mi sembrava troppo perentoria e in fondo sbagliata, perché l’unicità stilistica di Jaeggy e la sua mancanza di una certa universalità le impedivano di essere davvero una grande scrittrice. No, Fleur Jaeggy era qualcosa di molto diverso: una scrittrice oscura, una scrittrice di silenzi e di omissioni. Quindi, preso dall’impulso della penna, mi arrischiai a fare il nome di una scrittrice contemporanea italiana che avrebbe invece potuto essere definita “grande”, cioè universale. Feci il nome di Melania G. Mazzucco.

Pensavo al libro che più amo di Mazzucco, Vita, vincitore del premio Strega nel 2003. Non lo rileggevo integralmente da una decina d’anni, ma avevo ancora nel cuore le vicissitudini di Vita e di Diamante e anche della stessa Mazzucco, a sua volta personaggio del romanzo, la voce narrante, che scrive della vita del nonno paterno – Diamante Mazzucco, appunto – emigrato negli Stati Uniti. La settimana scorsa, dopo aver messo da parte un paio di saggi troppo pretenziosi, mi sono infine deciso a rileggere Vita.

Ne sono rimasto incantato, come e forse più della prima volta. In effetti Vita mi sembra, malgrado la vittoria al premio Strega e il successo prima immediato e poi duraturo negli anni, un’opera molto sottovalutata, perché non si tratta soltanto di un grande romanzo picaresco ma anche di una profonda riflessione sulla scrittura e sulla memoria e sul lasciare il proprio Paese per un altrove che potrebbe anche maltrattarci o respingerci o perfino ucciderci. Mazzucco fa qualcosa di nuovo: però lo fa con uno stile a un tempo affabulatorio e investigativo che coniuga i grandi romanzi ottocenteschi con molti capolavori del Novecento che si interrogano sulle tragedie di un passato spesso ripresentatesi nel presente.

Mi limiterò a un esempio, dall’inizio della terza parte del libro. Quando Diamante è impiegato quale waterboy per un salario misero, umiliato, offeso, e Miss Campbell gli regala The Call of the Wild di Jack London per rincuorarlo, un romanzo che il nostro eroe non riuscirà mai a leggere ma nel quale anni dopo nasconderà il proprio testamento, Melania G. Mazzucco compie un’operazione che potrebbe essere definita di “archeologia emozionale”, perché la storia di un cane da slitta maltrattato e ridotto alla fame è anche la storia di Diamante Mazzucco e di Vita e quindi di tutti noi o forse, meglio, di tutti coloro che vivono in un Paese che li umilia e li offende e che talvolta osa ucciderli.

Vita è un grande romanzo contemporaneo e in quanto tale ci costringe a interrogarci continuamente sul nostro presente, su chi ha il coraggio e la disperazione di attraversare oceani e deserti per salvare se stesso o i propri cari. In tutte le grandi stazioni delle città europee ci sono delle Vita e dei Diamante in cerca di ripari dalla miseria e del sacrosanto diritto alla felicità e alla libertà. In questo senso, il romanzo di Mazzucco è anche una grande opera politica e testimoniale.

Vita meriterebbe uno studio ben più approfondito di questi appunti sparsi. Ciò su cui voglio tuttavia insistere, rifacendomi all’universalità di Mazzucco a cui accennavo al principio, è che con questo libro forse si è aperta – a inizio secolo, oltre vent’anni fa – una nuova via al romanzo che verrà e che più conta.

Mi spiego. Recentemente sui social network è infuriata la polemica sulla necessità o meno di scrivere romanzi dalla trama “forte”, scorrevole. Non bisogna chiedere troppo al lettore, affermano alcuni, mentre altri ribattono che la letteratura non può essere mero intrattenimento o calcolo editoriale. Svariati scrittori hanno detto la loro, talvolta riprendendo teorie già vecchie ai tempi del Gruppo 63; fra gli interventi più stimolanti ci tengo a citare quello di Tommaso Pincio, scrittore e traduttore.

Pincio ha scritto: “La cosiddetta trama in un romanzo è come il sale. Dà certamente sapore al piatto; se ne può mettere tanto come poco o anche non metterne affatto, ma non ne rappresenta la sostanza. Se è concepibile immaginare un piatto senza sale, non lo è prepararne uno senza cibo, che sia pasta o carne o verdura, a seconda delle voglie di ognuno. Io, che negli anni mi sono abituato a farne a meno, ho scoperto che il sale, per non parlare del troppo sale, a volte serve a nascondere le magagne della cucina o la scarsa qualità degli ingredienti, e che usare il sale con parsimonia – oltre che un beneficio per la salute – consente di apprezzare meglio il vero sapore del cibo e, più in generale, della vita.”

Mi scuso con Tommaso Pincio, scrittore che amo e che leggo anche online, per aver sfacciatamente ricopiato questo paragrafo dalla sua pagina Facebook. D’altra parte siamo responsabili tanto di ciò che scriviamo quanto di ciò che leggiamo, e il suo intervento mi aveva colpito molto. Rileggendo Vita, infatti, mi sono detto che è proprio nell’equilibrio fra la storia di Diamante e di Vita (cioè il puro narrare, l’affabulazione: per Pincio il sale) e le indagini biografiche di Melania G. Mazzucco (cioè l’interrogarsi su cosa significhino la scrittura e la memoria) che si compie l’ideale bellezza narrativa e estetica del romanzo. E forse la soluzione al problema che tanto ci assilla, la maniera di dare nuova linfa a un romanzo contemporaneo che non sia solamente “trama” o “scorrevolezza” o “vendibilità” ma neanche tedio o caos, è proprio qui, nel dosaggio del sale e dell’olio e di tutti gli ingredienti.

Un romanzo, credo, deve essere un’esperienza sia estetica che narrativa ma se possibile mai prevalentemente estetica e mai prevalentemente narrativa, perché è nell’equilibrio fra le prevalenze che si tocca la vera arte. Il segreto dunque risiede in una struttura solida e originale: è così che potremo forse imparare a salvarci. Eppure bisogna anche rischiare e talora saper cadere, sbagliare, come ci insegnano tanti grandi libri novecenteschi che sono pure dei meravigliosi fallimenti: la Recherche, il Pasticciaccio, L’uomo senza qualità, C’era una volta gli americani, Le onde, I sonnambuli… In ogni caso, io non vedo l’ora di tornare a rileggere Vita.

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

edopisani@minima.it

Edoardo Pisani è nato a Gorizia nel 1988 e vive a Roma. Ha esordito con il romanzo E ogni anima su questa terra (Castelvecchi Editore, 2022, finalista premio Berto, finalista premio Flaiano Under 35). Con Castelvecchi ha pubblicato anche il saggio E libera sia la tua sventuraArthur Rimbaud! (2023) e il romanzo Al mondo prossimo venturo (2024). A gennaio 2026 l’editore Marsilio pubblicherà il suo terzo romanzo.

Articoli correlati