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Oggi La Biennale di Venezia attribuisce il Leone d’Oro alla carriera per la Musica alla compositrice e performer statunitense Meredith Monk. In occasione del premio pubblichiamo, ringraziando l’editore AnimaMundi, un estratto da Irradianze, una serie di conversazioni tra Monk e Bonnie Marranca (l’edizione italiana, che sarà disponibile in libreria dal 31 ottobre, raccoglie le cinque conversazioni tra l’artista e la studiosa di teatro ed è curata da Piersandra Di Matteo, che ha curato anche l’apparato iconografico che accompagna i testi) in cui l’attività performativa e il lavoro artistico di Monk si intrecciano ai temi della trasformazione, della contemporaneità, della natura, della vulnerabilità, della pratica artistica come pratica spirituale, dello spazio creativo e della meditazione.

Per l’immagine: “Meredith Monk (Loft di Meredith Monk, 9 Great Jones Street, New York, NY, 1971). Foto: Jack Mitchell”

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Attualmente stai lavorando a Songs of Ascension. Qual è il significato del titolo? Sembrano esserci riferimenti alla tradizione ebraica dei Cantici delle Ascensioni e al cristianesimo che celebra l’Ascensione quaranta giorni dopo la Resurrezione di Cristo. Ma non mancano legami con il buddismo. Come hai lavorato sul concetto di “ascensione”?

Il miglior modo di rispondere è raccontarti il processo che ha dato inizio all’opera. L’incontro da cui prende avvio è quello con un caro amico, Norman Fischer, in passato abate dello Zen Center di San Francisco. Nato ebreo, ha trascorso anni praticando lo Zen, ora è tornato a una pratica meditativa per la comunità ebraica. Sta cercando di integrare entrambe le dimensioni. In una conversazione, molti anni fa, mi ha parlato del poeta Paul Celan, che non conoscevo. Nella sua produzione Celan ha fatto riferimento ai Cantici delle Ascensioni, che corrispondono ai Salmi 120-134. Si racconta che tante persone si radunavano da diverse zone limitrofe per salire sulla montagna, portando con sé i raccolti migliori, pregando o cantando lungo la salita. C’erano quindici gradini che conducevano in cima. A quanto pare, su ogni gradino veniva intonato uno di questi Salmi. Non conoscevo tutti i dettagli ma ne sono stata molto colpita. Ho pensato: non è interessante che molte culture si dirigano verso l’alto per pregare? Mi affascinava comprendere come questi canti potessero suonare e anche investigare la combinazione di salire e cantare. Ho cominciato a pensare ad altre culture, come quelle Maya e Inca, e anche al buddismo, con i suoi stūpa da scalare, tenendo conto anche del rito della circumambulazione. A essere sincera non avevo in mente l’Ascensione cristiana. Tuttavia è innegabile che tutte le chiese siano protese verso l’alto. In quel momento pensavo in termini scultorei e formali sul significato di “sopra”, “sotto” e “attorno”. Ero immersa in tali riflessioni e sentivo che era giusto percorrere questa strada.

[…]

Parliamo di Songs of Ascension a partire dalla prima versione realizzata al Dartington College of Arts, nella Great Hall della scuola, a Devon, in Inghilterra. Era una sorta di concerto con luci fisse. Il pubblico era posizionato su due lati, mentre i musicisti si trovavano a un’estremità della stanza.

Erano le undici del mattino, quindi la luce naturale entrava dalle finestre. Mi piace l’idea di performare durante il giorno. Il pubblico assiste al pezzo e poi prosegue con la sua giornata. C’era una piccola piattaforma alta circa 15 centimetri, una sorta di base naturale per i musicisti. Con l’Elysian String Quartet ho potuto lavorare solo una settimana, quindi non c’era stato il tempo di memorizzare il materiale. I musicisti avevano quindi i leggii, in modo molto funzionale. Nella versione più teatrale al Walker Art Center di Minneapolis, gli archi avevano imparato a memoria tutta la musica, pertanto potevano muoversi nello spazio in diverse direzioni.

Si ha l’impressione che i performer agiscano non solo per il pubblico, ma anche per i propri compagni, perché musicisti, cantanti e danzatori condividono lo stesso spazio. In alcuni dei tuoi lavori, sembra che sia in gioco una comunità piuttosto che una semplice squadra di collaboratori.

È proprio così. Questo lavoro non è affatto concepito in senso teatrale. Si potrebbe parlare piuttosto di un rituale o di un’offerta. Al Walker Art Center abbiamo lasciato le luci accese durante tutta la performance. Ricordo che qualcuno mi disse: “Oh, sai, forse avrei preferito che le luci si spegnessero, così avremmo potuto entrare in quel mondo”. Risposi: “Tu e quel mondo siete lo stesso mondo”. È stata una scelta consapevole. A livello visivo, Ann ha voluto collocare i suoi video su piattaforme girevoli. In questo modo il video si sposta lentamente attorno al pubblico e attraversa lo spazio. Il concetto di cui abbiamo parlato fin dall’inizio, e che Ann ha poi realizzato, si fondava sull’idea che tutti gli elementi, tranne la musica, avessero una qualità atmosferica. La musica, il movimento e le interazioni tra i performer, creano un senso di comunità e il pubblico si può immergere nell’esperienza.

L’atmosfera è un concetto interessante, determina il clima e l’ambiente del lavoro. Come ci sei arrivata?

È come il sole che entra dalle finestre. Il sole non è qualcosa che trovi in un teatro, lì ti devi confrontare con un pavimento nero. Al Walker Art Center abbiamo rimosso tutte le quinte. In molti teatri cercheremo di fare lo stesso, rendendo l’ambiente il più possibile simile a uno spazio nudo.

Come hai trasformato il concerto con le luci fisse, che hai realizzato in Inghilterra, nella versione teatrale con i video di Ann, che ha debuttato negli Stati Uniti?

Avevamo parlato di collaborare anche prima di Dartington. Ci siamo fatte un sacco di domande, cercando di capire cosa avremmo potuto fare in teatro. Come possiamo animare uno spazio teatrale senza cadere nell’impianto illustrativo, senza assecondare l’orientamento frontale? All’inizio ero preoccupata delle immagini che Ann avrebbe utilizzato, anche per il loro contenuto. Alla fine, però, ha capito che il contenuto delle immagini – e me ne sono resa conto anch’io –, il loro portato specifico (il cavallo, l’uccello, ad esempio) non era poi così importante. Ann ha scelto vecchi filmati in bianco e nero, che pensava funzionassero visivamente; anch’io pensavo fosse il modo migliore di procedere. Inizialmente ho creduto che il cavallo dovesse restare in una sezione precisa, o che quell’immagine dovesse cadere in un’altra, ma non avevamo davvero il controllo tecnico delle piattaforme. Dipendeva dal momento in cui i tavoli iniziavano a girare e dall’arrivo del pubblico. Ricordo che a un certo punto mi sono detta: lasciamo perdere questi aspetti. Si tratta, in fondo, di un lavoro installativo. Dovrebbe avere una sua vita propria.

[…]

Mi interessa capire come un’opera con connotazioni liturgiche o spirituali, legata all’ascensione, si esprima nel metro della composizione musicale.

Wow.

A livello puramente tecnico, come tratti la voce, il movimento e l’immagine nello spazio per ottenere quella sorta di luminosità?

Songs of Ascension è un’opera guidata dalla musica, ma considero tutto il lavoro come una composizione, un modo di intrecciare o distillare elementi percettivi. Per esempio, il gesto toglie o aggiunge alla musica? Questa è una delle domande fondamentali. A livello spaziale, non mi sarei mai limitata alla sola azione di salire per tutta la durata. Nell’opera è presente anche un movimento verso il basso, ma c’è pure la circonambulazione. È più un’idea scultorea di su e giù. Sono molto affascinata dal fatto che nelle forme arcaiche di culto l’impulso sia quello di salire. Perché i partecipanti non si rivolgono verso la terra?

In effetti mi sembra interessante che alla fine i performer siano a terra, mi riferisco all’immagine insolita di musicisti distesi con gli strumenti sopra i loro corpi. Mentre ad esempio nel lavoro precedente, ATLAS, i performer salgono chiaramente una scala. Songs of Ascension presenta un esito diverso. Non è esaudito nell’orizzonte ideale dell’ascesa, ma è anche radicato nella terra, come in una tensione irrisolta.

C’è un livello ulteriore. Non credo sia esplicito e non so ancora come svilupparlo, ma all’inizio riflettevo sul mio interesse per l’ecologia. Avevo appena finito di leggere La strada di Cormac McCarthy. Nell’immagine finale, mentre canto accovacciata con lo shruti, mi sento una donna di trecento anni che scava letteralmente nel terreno. C’è l’idea di una memoria della terra, come se fosse arrivata la sua fine. Emerge una sorta di tristezza, come quando pensi: Oh sì, c’erano le oche, oh sì, c’era la terra…

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