Di Edoardo Pisani
Alcuni scrittori rivelano universi, narrazioni ambiziose e polifoniche, complesse architetture dell’animo umano, altri nascondono segreti e solo in tali segreti svelano veramente se stessi, le proprie fragilità e paure e i propri incanti. Antonio Tabucchi appartiene a quest’ultima categoria. La sua opera ha i momenti più felici nei dettagli, in brevi frasi amate e mai dimenticate, come dei versi di poesia scagliati al vento, nella saudade di vite e voci che ci sembrano prossime e che pur restandoci vicine si allontanano, che infine devono abbandonarci. Chiudiamo i libri di Tabucchi con il rimpianto di non poter leggere per sempre. Leggiamo i suoi racconti più riusciti con la sensazione di essere stati visitati da un fantasma.
Molte pagine di Antonio Tabucchi sono un dialogo o un raffronto con la morte, con ciò che non è più e che una volta è stato e quindi con la memoria dei morti che ci portiamo dentro. Ne I volatili del Beato Angelico, per esempio, Tabucchi scrive una lettera al padre morto, che poi sognerà in Requiem, il suo Padre Giovane che vuole sapere come andrà a finire la propria vita, mentre in Sostiene Pereira l’indimenticabile Pereira si rivolge spesso al ritratto della moglie morta, consultandosi con lei su cosa fare, e in uno dei più bei racconti de L’angelo nero, La trota che guizza fra le pietre mi ricorda la tua vita, il vecchio e stanco protagonista sogna e parla con diverse donne anch’esse morte e dunque appartenenti al mondo dell’immaginazione e dei ricordi e non della realtà. Ma gli esempi sono molti, non soltanto narrativi. Nel breve pezzo Nostalgia di Drummond, compreso in Viaggi e altri viaggi, Tabucchi si rivolge direttamente a Carlos Drummond de Andrade, morto da anni: “Anni fa, quando ti conobbi, caro Carlos Drummond de Andrade, era una limpida sera di Copacabana. E tu eri un vecchio poeta che mi parlava della cometa di Halley ammirata da bambino nel remoto altopiano di Minas Gerais. Ed eri così esile che temetti che il vento dell’Atlantico ti portasse via. Ora che sono passati degli anni dalla tua morte, devi essere più leggero di una foglia. Perché non approfitti della brezza che la televisione ha promesso per stasera e non vieni a fare due chiacchiere con me in questa domenica di Lisbona?”
Caro Antonio Tabucchi. Come te mi rendo conto che non bisognerebbe scrivere ai morti, e infatti ho cominciato questa pagina come se fosse un saggio e forse come un saggio avrei voluto e dovuto costringermi a finirla, scrivendo non soltanto dell’importanza dei morti nella tua opera ma anche delle magnifiche lettere che si e ci disperdono nei tuoi racconti, fra le tue voci inquiete, o ancora del tema dell’altro e dell’altrove in Notturno indiano o dei memorabili incipit delle tue storie: “E poi l’odore di tutti quei fiori: nauseante”; “Stanotte ho sognato Miriam”; “Come vanno le cose. E cosa le guida. Un niente”; “Per esempio, vedi, questi sono i piedi di mio padre, io li chiamo Costantino Dragazete, che fu l’ultimo imperatore di Bisanzio, un uomo valoroso e infelice, lo tradirono tutti e lui morì da solo sulla breccia della città, ma a te sembrano solo due piedi di celluloide, li ho trovati sulla spiaggia la settimana scorsa, il mare a volte porta pezzi di bambole, ho trovato queste due gambe e ho capito subito che si trattava di papà, che da dove si trovava mi mandava la raffigurazione dei suoi piedi per venire incontro al mio ricordo, l’ho sentito, non so se mi capisci…”
Caro Antonio Tabucchi, non so se mi ascolti e se mi capisci e mi rendo conto che non si deve scrivere a un morto, ma in fondo scrivere a un autore morto che si è letto e amato e che si sente è solo un equivoco del tempo, una maniera di rovesciare gli anni e raggirare la nostra fragile condizione umana, la nostra mortalità e disperante finitudine, e tu – benché affermassi il contrario – amavi molto gli equivoci, se non altro per smascherarli e raccontarli. Sei morto da dieci anni, però è da quasi vent’anni che la tua voce mi conforta e mi accompagna, sulla pagina e nella vita, nell’anima – nel finale di Sostiene Pereira il dottor Cardoso chiede a Pereira di scrivere un articolo sull’anima, “perché ne abbiamo bisogno tutti” – e nella mente, cioè nella memoria, che è il vero rifugio dei nostri cuori, perché i francesi usano l’espressione “apprendre par coeur” per dire “imparare a memoria”, e dunque il cuore è la nostra memoria e io ho nel cuore – cioè nella memoria – molti brani dei tuoi racconti e dei tuoi romanzi.
Non so se il tempo invecchia in fretta e se si sta facendo sempre più tardi, caro Antonio Tabucchi, ma stasera sono trascorsi dieci anni dalla tua morte e leggendoti e pensandoti capisco che di tutto qualcosa resta, fosse anche quel poco che ci fa leggere e scrivere e continuare ad amare e sognare, fosse anche la morte, i morti come te, anch’essi custoditi in questo nostro cuore che un giorno cesserà di battere, in questa nostra mente che un giorno cesserà di farci sognare e scrivere. Scrivere è scavare un buco nella terra, in un formicaio. Ricordo un passo molto bello di Tristano muore, libro che un tempo amavo meno di adesso, attaccato com’ero alla struttura, al “saper scrivere”, dicendomi che i tuoi ultimi romanzi non valevano i primi racconti, caro Antonio, che stavi perdendo la magia e i ritmi degli anni migliori. Sbagliavo. “La vita non è in ordine alfabetico” dice a un certo punto Tristano allo scrittore (a te?), e ha ragione. E altrove: “Ma sotto, la vita… la vita pullula come quando sollevi una pietra e ci trovi un formicaio, e le formiche scappano in tutte le direzioni… noi questo lo chiamiamo formicaio, e con questo ci siamo intesi, ma il formicaio è fatto di formiche, e intanto loro sono scappate tutte. Cosa ti resta? Un buco. Scava, scava pure.”
Continuiamo a scrivere e a scavare, e il buco non finisce mai. Le formiche si arrampicano a centinaia sulle nostre mani; alcune sono morte. Antonio Tabucchi è morto in un giorno di marzo di dieci anni fa, e oggi gli scriviamo questa lettera. Di tutto resta un poco, come diceva lui, o qualcosa, o molto, comunque le parole e i sogni.
Edoardo Pisani è nato a Gorizia nel 1988. Ad aprile esce il suo primo romanzo, “E ogni anima su questa terra” (Castelvecchi)
Edoardo Pisani è nato a Gorizia nel 1988 e vive a Roma. Ha esordito con il romanzo E ogni anima su questa terra (Castelvecchi Editore, 2022, finalista premio Berto, finalista premio Flaiano Under 35). Con Castelvecchi ha pubblicato anche il saggio E libera sia la tua sventura, Arthur Rimbaud! (2023) e il romanzo Al mondo prossimo venturo (2024). A gennaio 2026 l’editore Marsilio pubblicherà il suo terzo romanzo.
