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Quando Beppe Viola scrisse il racconto Slungatti immaginava un uomo tormentato dal proprio vizio, destinato inesorabilmente a perdere ogni scommessa all’ippodromo di San Siro ma in fondo mosso dalla malcelata speranza di trovarsi davanti all’occasione della vita, quella “annunciata, sussurrata, segretissima ed esclusiva, dunque accolta con un guizzo estremo di scelleratezza”, come ricorda Giorgio Terruzzi nel volume Sportivo sarà lei, Quodlibet.

Chissà in che modo uno tra i più noti giornalisti sportivi e umoristi italiani avrebbe guardato alle vicende tragicomiche narrate da Nicola Muscas (Isla bonita, 66thand2nd), e in che misura avrebbe riconosciuto quel feroce desiderio di rivalsa che accende chi vive nell’attesa dell’unica occasione, spesso inconsapevole delle dinamiche sotterranee, dei retroscena e degli interessi a cui si lega.

Il brivido e la possibilità di cadere nello sfiorare una vittoria muovono le stelle del circo del calcio costruite nel romanzo. La convinzione condivisa e irragionevole di raddrizzare esistenze misere aggrappate strenuamente a un’illusione prende forma nell’intrico di storie che gravitano attorno a quella principale: la folle, assurda, patetica – e a tratti inaspettatamente tenera – visione del mondo di un uruguagio al Cagliari calcio. Tra incoerenze, contraddizioni, tradimenti, incontri mancati e colpi di scena continui, le vicende di Santiago Ramiro Rodríguez “il Gordo” generano una sottile familiarità nel lettore, un riconoscimento delle altrui disgrazie in quelli che Terruzzi definisce soggetti teneramente disperati, “poveri sacramenti a prescindere”.

È un mito barcollante, vizioso, inaffidabile, il Gordo. Tra una cumba e una serie infinita di rum e cola prova a maneggiare la perenne malinconia che lo accompagna nel ricordo dei drammi dell’infanzia. Giunto a trentacinque anni con traguardi e fallimenti (l’ultimo nel Barcellona), trova in questo nuovo ingaggio la sua ultima occasione di riscatto, affrontato però con la stessa irresponsabilità con cui vive il matrimonio. Su di lui investe l’astuto direttore sportivo Firicano, un sessantenne dissoluto dal carisma oscuro. Abile nell’alimentare una rete di favori a manager e vescovi, è intenzionato a imprimere un segno attraverso il talentuoso e indolente Ramiro per dimostrare al mondo di essere ancora il migliore. Far sognare i tifosi, far splendere di nuovo il Cagliari a decenni di distanza dal suo glorioso passato con Gigi Riva pare un miraggio forse troppo lontano.

La “grandiosa decadenza” del Sant’Elia necessita un nuovo vigore, e il prescelto si dimostra fedele solo alla palla, incapace di portare avanti alcunché senza tradire le attese, con paure remote che prova a camuffare, a partire dall’incapacità di guardare realmente al futuro e mettere radici. I debiti di gioco, le minacce del Carnicero e il coinvolgimento di un faccendiere livornese in una truffa scoperchiano nel sottile filo del giallo un vortice tossico con risvolti inaspettati nel passo incalzante di una prosa spiccatamente descrittiva.

Il sapiente bilanciamento del comico trova nella scelta formale e nell’impasto linguistico – un ispanoitaliano posticcio che rende bene la percezione di sradicamento – l’artificio per allestire il tragico. La levità della narrazione cela il tratteggio emotivo di figure soggiogate dall’esitazione tra impulsi e compromessi rispetto alle aspettative degli altri. È il caso del mite addetto stampa Aresu che faticosamente proverà ad affrontare desideri repressi, o del medico sociale Morelli, incapace di vivere appieno il presente, perso tra relazioni distruttive e sensi di colpa nei confronti dell’anziana madre. Ogni personaggio, persino quello all’apparenza più spietato e crudele, sembra destinato a fare i conti con l’incompiuto e arrendersi di fronte all’imprevedibile, tra le intermittenze della rabbia e della paura, dell’orgoglio e del prestigio, delle ambizioni e del disprezzo.

La storia dell’uomo che “ha violato almeno nove dei dieci comandamenti” rivela un’incapacità comune di gestire il successo. Quando il talento diventa più un fardello che un dono, l’unico antidoto per riappropriarsi della libertà è sperperarlo, abbandonandosi a peccati, angosce oscure e farneticazioni. La ricerca di nuovi tempi eccitanti altrove contempla però come unica condizione la possibilità di cadere rovinosamente.

La vicenda di un uomo profondamente fragile permette all’autore di interrogarsi sul significato di un mito, su quel che occorre non solo per conquistare l’immaginario collettivo ma soprattutto per raggiungere la consacrazione. Il costante riferimento a Gigi Riva non si riduce al tributo a un uomo dall’infanzia difficile che trova nel calcio un affrancamento, ma si colloca nel solco di una condivisione generale. Quella terra straziata dal piano rinascita e dall’industria pesante ritrova la fierezza nel valore sociale e simbolico dell’identificazione complice e collettiva per la vittoria dello scudetto del 1970.

Tra le fugaci apparizioni fa capolino anche Gianni Mura, furiosamente intento a battere sui tasti della sua Lettera 32 per raccontare quel che accade quando la geometria diventa bellezza. Rifuggendo qualsivoglia retorica, sono i luoghi a raccontare la presa su vite ordinarie. Smarrirsi tra i quartieri spagnoli per chiedersi dove finisca il pittoresco e inizi la vita conduce l’autore a scorgere nel volto di Diego Armando Maradona dipinto sui pannelli il bagliore del riscatto che illumina una miseria esistenziale diffusa e tormentata “in una maniera che né la grande musica, né la grande commedia, né la storia gloriosa dei re borbonici sono mai stati in grado di rappresentare”.

E ancor prima che attraverso le storie narrate, è il significato del calcio reso tra “fugaci momenti di perfezione condivisi”, a fornire il senso e la direzione a esistenze che trovano, in quel gioco, un momentaneo “sollievo dalle miserie della vita, brivido e bellezza”.

Le descrizioni memorabili di luoghi resi per forti contrasti rendono in modo sottile i sentimenti che dividono i protagonisti, dalla Torino di Pavese – la cui enorme piazza rende ancora più piccola una madre profondamente sola che cerca nel futuro di un figlio una luce per il proprio – ai luoghi del barrio Borro a Casavalle che ricordano a Santiago Rodrigo di continuare “a pensare da povero”. Immagini che si sovrappongono al degrado postindustriale dei capannoni della periferia cagliaritana, al dedalo di vie del litorale che non portano al mare, “avamposto di costruzioni non finite, di stucchi dimenticati, di edilizia creativa e picaresca”, al melting pot del Poetto, una “succursale di Malibù indolente e viziata”.

Fuori è quasi buio, quasi ora di cena. Dall’altra parte della strada, accanto a una macchina bruciata, a ridosso di una tettoia in eternit, un gruppo di persone fuma e stappa qualche birra. Stesse facce affilate, stesse canottiere, stessi tatuaggi. Stanno arrostendo muggini su uno scaldabagno aperto a metà, usato come barbecue. Si avverte nell’aria il primo tepore della primavera, e al Gordo sembra di essere a casa, in Sudamerica, tra la polvere di uno sterrato, le vie piene di gente che vive di quel che offre la strada, le partite di pallone all’imbrunire e facce da poveri, alcuni furbi e cattivi, altri onesti e perbene. Più o meno tutti dignitosamente girati di palle. Più o meno tutti con qualche conto aperto con la vita.

In quelle che all’apparenza risultano scene minime rispetto all’evolversi della vicenda emerge l’intento di offrire un possente ritratto sociale attraverso un uso sapiente di quello che Pirandello definì in un saggio del 1908 il sentimento del contrario, l’umorismo. Può allora succedere che siano proprio gli episodi marginali al limite del caricaturale e per questo profondamente realistici – come un pranzo natalizio in una famiglia “sardissima e indolente” – a innescare una riflessione sulla condizione umana nel tratteggio del ridicolo.

Tra note dissacranti e accenti surreali, sono le cadenze liriche ad annunciare la furente necessità di un risarcimento dalle angustie del vivere. Lo stupore rinnovato è affidato allora alla scoperta che la vera occasione della vita può non risiedere nell’ottenere l’ingaggio più prestigioso o nel rincorrere desideri vacui nell’insidiosa strada per il successo, ma nel sapere di poter ancora contenere la propria deriva: gettare nuove basi a partire dalle attese più semplici.

Non resta che abbandonarsi, come sostiene Pirandello, al divenire molteplice, caotico e impetuoso dell’esistenza per celebrare tra le pagine di Isla Bonita quella imprevedibilità del gioco e del vivere, perché “poche rarissime volte c’è qualcosa di sovversivo in certe vittorie, come rare dolci e preziose sanno essere certe rivoluzioni”.

 

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Autore

a.pisu@minima.it

Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all'Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

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