[In occasione dell’ottantesimo anniversario del Bicycle Day, pubblichiamo la prefazione di Vanni Santoni alla graphic novel Bicycle Day di Brian Blomerth, da poco uscita per WoM. In copertina e lungo il testo: tavole tratte dal volume.]
Albert Hofmann… chi?
di Vanni Santoni
Chi era, poi, Albert Hofmann? Facile dirlo oggi: chimico geniale in forze alla Sandoz, scopritore dell’LSD, suo primo sperimentatore e autore del decisivo memoir LSD: il mio bambino difficile, primo sintetizzatore della psilocibina, membro del Comitato del Nobel, saggista scientifico di rara sensibilità per le humanities (non a caso autore di carteggi con autori come Jünger, Huxley e Leary finiti dritti nella storia della letteratura), scienziato nominato da un comitato di esperti raccolto dal “Daily Mail” al primo posto tra i geni viventi nel 2007. Insomma, uno dei titani della scienza del Novecento.
Facile dirlo oggi. Ma un tempo le cose erano differenti. Molto differenti. Un tempo, prima dell’avvento di Internet, quando ottenere informazioni affidabili sul mondo della psichedelia era diventato estremamente difficile, anche per l’onda di oscurantismo che aveva fatto seguito a quella, subito precedente, di proibizionismo, facendo sparire dagli scaffali delle librerie i testi affidabili e condizionando anche la produzione saggistica scientifica verso la cancellazione integrale o parziale di un pezzo così rilevante della storia della cultura umana, in quel tempo Albert Hofmann, al di fuori forse di certe nicchie di chimici underground, era poco più che una leggenda. Una figura mitica, vagamente riconducibile all’universo della psichedelia, esistente (nel mondo o nelle nostre menti) al medesimo grado di realtà del Don Juan di Castaneda, dei personaggi di Robert Crumb o dell’alchimista della Montagna sacra.
Ciò che ne determinava ancora con buona certezza l’esistenza erano i disegni su certi blotter, i “cartoni” insomma, ovvero la forma in cui si vendevano più spesso gli acidi negli anni ’80 e ’90 (non era ancora tempo di gocce, geltab o tantomeno orsetti gommosi, mentre le “micropunte” andavano via via tramontando come standard). Su questi cartoni, che andavano via a fogli da 5×5, ovvero a gruppi di 25 (i più attenti e avveduti sapranno che in realtà in ogni foglio c’erano 6 di questi quadrettoni uniti, per un foglio unico da 150 cartoni, ed erano cartoni da 360 microgrammi – per capirci più o meno il triplo di uno di oggi), c’era notoriamente disegnato un omino in bicicletta, tant’è che i meno avveduti li chiamavano proprio “Biciclette”. Eccoli qua: la prima volta li vidi a un campeggio del festival “Arezzo Wave” di metà anni Novanta e i pezzettini che ci offrì il bizzarro giovine in capelli lunghi, sandali di corda e bisaccia ricamata erano rossi, ergo venivano dall’angolo in alto a destra; per vederne uno intero, toccò aspettare il terzo (o quarto, chissà) giorno di campeggio.
Gli avveduti, va da sé, quelle “Biciclette” le chiamavano “Hofmann”, o al massimo, come il giovine di cui supra, “Super Hofmann” (era un’epoca in cui, se si parlava di cartoni, si metteva “super” davanti a tutto, un po’ come “doppia goccia” dopo a tutto un decennio dopo: Super Simpson, Super Mario, Super Hofmann…). Qualcuno, tra cotali avveduti, risultava consapevole dell’iconografia associata al cartone, o almeno di parte di essa. Non dico che riconoscesse, nel posizionamento della luna, delle stelle e del sole (nonché della montagna – o piramide), certe incisioni alchemiche cinquecentesche che facevano riferimento alla trasmutazione della materia e, in fondo, del sé, verso uno stato più elevato di compimento esistenziale. Ma se non altro erano consapevoli del fatto che il tizio in bicicletta era Albert Hofmann, il chimico, e che un giorno del 1943, proprio mentre fuor dalla Svizzera infuriava al suo picco la Seconda Guerra Mondiale, prendevano forza e inerzia le procedure di sterminio di massa, mentre insomma là fuori accadeva il peggio del pegggio, uno svizzero di Basilea, città del Basilisco, città dell’alchimia, città della trasmutazione e del pharmakon – nulla avviene per caso, nulla è per caso, ma in fondo se tieni in mano questo libro immagino tu lo sappia o lo sospetti –, finito di lavorare nel suo laboratorio, partiva per il più assurdo e rivoluzionario giro in bicicletta mai visto o immaginato.
Quel 19 aprile del 1943, nel tragitto tra la sede della Sandoz e la casa di Hofmann, si scriveva una pagina importante della storia della chimica, di quella del costume, di quella della cultura e, in generale, di quella dell’umanità. Tra le tante cose che ci ha reso il cosiddetto “Rinascimento psichedelico” c’è il privilegio non indifferente di poter chiamare le cose per quello che sono o furono, fuori dalle minimizzazioni imposte, a volte scientemente, a volte come mero epifenomeno della loro azione, da oscurantisti e moralisti.
Sì, perché l’LSD cambiò il mondo: alimentò in modo decisivo i movimenti pacifisti e rivoluzionari, cambiò per sempre la musica, il teatro, il cinema, l’arte, il fumetto e la poesia (un po’ meno la prosa: troppo lenta), contribuì in modo pure essenziale alla diffusione delle filosofie orientali in Occidente. Scoperta, anzi esperita, la trascendenza, in molti si chiesero: e adesso? Trovate mute le aule di chiese, sinagoghe e moschee, qualcuno provò ad andare a vedere se in India ci fosse chi possedeva la risposta, almeno parziale, alle domande radicali che il mirabolante interruttore del dr.Hofmann aveva acceso nelle loro teste (lo fece anche Richard Alpert, membro della “trimurti psichedelica di Harvard” di cui facevano parte anche Timothy Leary e Richard Metzner, tre professori di psicologica inevitabilmente folgorati sulla via di Damasco – o meglio di Eleusi – dalla psichedelia e passati da sobri docenti a guru spiritati, ognuno a modo suo e secondo la sua personalità); altri avrebbero scelto il Nepal, altri ancora il giappone del buddismo Zen… In molti avrebbero riportato indietro qualcosa, ed era qualcosa che mostrava ogni volta una curiosa sinergia con la molecola scoperta dal dottor Hofmann.
Gli anni ’60 sarebbero purtroppo tramontati, lasciando il posto ai non meno psichedelici ma molto più paranoici, violenti e strani anni ’70 (il “sistema”, del resto, aveva capito che nelle “molecole della pace” c’era qualcosa che rischiava di minarlo da dentro, e aveva provveduto a proibire tutto, bloccando al contempo ogni ricerca sul tema, divenuta impossibile per i complicatissimi protocolli a cui era sottoposto chi avesse avuto bisogno dei campioni originali delle sostanze), che avrebbero poi preparato il campo al “riflusso” degli anni ’80. Altre droghe, come eroina e cocaina, più “cattive” e consumistiche (non a caso, se da noi son dette “pesanti”, in inglese si definiscono hard, “dure”), in grado di scatenare forti dipendenze e pure morti per overdose, avrebbero devastato la neonata cultura dell’alterazione di coscienza – fu semplicissimo, per media e politica, buttare tutto nel generico calderone della “droga” e tanti saluti –, e un’epoca sarebbe finita.
Sembrava davvero finita. Almeno finché, a metà anni Novanta, in certi capannoni fuori dalle metropoli europee, al ritmo di musica acid house, goa trance e tribe tekno, gli acidi non ricominciarono a girare, portando con sé la loro evidenza: la totale, ontologica differenza rispetto alle cosiddette “droghe”, e la loro capacità di condurre in reami definibili solo attraverso le categorie dello spirito.
Sembrava davvero finita. Almeno finché, a metà anni Zero, molti dei ragazzini che avevano ballato in quei capannoni, sarebbero diventati scienziati, chimici, biochimici, psichiatri, psicanalisti e medici, e memori della scintilla prodigiosa a suo tempo esperita, si dissero che era giunto il momento di riportare fuori dal dimenticatoio quelle molecole. Come? Magari ricominciando a parlarne fuori dai soli contesti underground, riportandole nei dipartimenti universitari, negli studi medici e – perché no – pure nei palacongressi.
Il momento convenzionale in cui viene fatto iniziare il Rinascimento psichedelico è infatti il gennaio 2006, quando per il centesimo compleanno di Albert Hofmann, ancora vivo, pimpante e in grado di tenere conferenze, per la prima volta dopo quarant’anni, al palacongressi di Basilea, si tornò a parlare di LSD alla luce del sole, e non come di una pericolosa droga, ma come di un farmaco prodigioso. Era così. Era tutto vero. Nel 2008 partì, anche grazie a quel convegno, la prima sperimentazione, sull’ansia da fine vita dei malati terminali, che risultava alleviabile dalle esperienze mistiche innescate dall’acido; dopo di essa, le sperimentazioni mediche si susseguirono con successo (anzi assommando successi su successi), e così chi fosse, poi, questo Albert Hofmann, tornò a essere piuttosto chiaro a tutti, grazie alla ripubblicazione dei suoi libri e dei suoi paper, e di decine di altri libri dedicati alla sua opera e alla sua eredità. Ma chi vuole saperlo nel modo più poetico, dolce, bizzarro, versicolore (e, naturalmente, psichedelico), chi sia stato, poi, questo Albert Hofmann, non ha che da leggere questo graphic novel capolavoro di Brian Blomerth – e sfidiamo, dopo, ogni lettore, allo scoccare di ogni 19 aprile, a non dedicare un pensiero particolare (se non un piccolo momento di raccoglimento) a quel giorno del 1943. Non era finita, no. In effetti, sta cominciando adesso.
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Vanni Santoni (1978), dopo l’esordio con Personaggi precari ha pubblicato, tra gli altri, Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008, Laterza 2019), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), la saga di Terra ignota (Mondadori 2013-2017), Muro di casse (Laterza 2015), La stanza profonda (Laterza 2017, dozzina Premio Strega), I fratelli Michelangelo (Mondadori 2019), La verità su tutto (Mondadori 2022, Premio Viareggio selezione della giuria), Dilaga ovunque (Laterza 2023, Premio selezione Campiello). È fondatore del progetto SIC (In territorio nemico, minimum fax 2013); per minimum fax ha pubblicato anche Emma & Cleo (in L’età della febbre, 2015) e il saggio La scrittura non si insegna (2020). Scrive sul Corriere della Sera.
Il suo ultimo romanzo è Il detective sonnambulo (Mondadori 2025).
