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Potrei sprecare decine di metafore, immagini più o meno originali per scrivere di Ritorno in Italia: nove racconti e nove regioni che Andrea Caterini mette insieme come un puzzle, come un mosaico, come un cut-up, come un rebus, come una prodotto da bricolage, come delle pitture a olio, come una serie di puntate di un programma Rai sul territorio, come pagine di diario. E mi fermo qui. Perché più della struttura e della lingua, in questa raccolta quel che ci si porta dietro a lettura ultimata è una sensazione – più o meno piacevole – di aver fatto i conti con qualcosa che non si risolve. Al puzzle mancano i pezzi, al mosaico è saltata qualche mattonella, al cut-up si è scollata una parola, il rebus presenta un errore, la colla non ha tenuto e il bricolage si è sfaldato, le pitture si sono danneggiate, le puntate sono andate in onda con evidenti errori di regia, le pagine del diario sono strappate, cancellate, a tratti illeggibili. Quel che mi resta dopo aver accompagnato Caterini per circa 6mila chilometri – tanto dura il suo viaggio in lungo e in largo, dalla Sardegna che apre e al Carso che chiude – è l’impressione che tutto questo racconto, al di là delle belle immagini e delle stupende pagine di letteratura riportate, porti il segno di una mancanza. Ma per vedere cosa manca, bisogna prima parlare di quel che c’è.

Il lettore, qualora dovesse dare un’opportunità a queste pagine, si ritroverà di fronte a nove racconti – questo già l’abbiamo detto – che conducono il narratore/autore/protagonista in giro per l’Italia – e questo pure l’abbiamo detto – per provare apparentemente a raccontare qualcosa di autentico. In realtà ciò che ci ritroviamo a leggere è un racconto del sé, della propria intimità e in qualche modo persino della propria cultura, ingabbiato in una struttura da reportage narrativo. La gabbia, se così vogliamo chiamarla, è una trovata che rende agevole la lettura, scorrevole il viaggio e fornisce l’assist per raccontare la frammentazione dell’Italia attraverso una frammentazione narrativa. Sono un grande amante della forma che rispetta il contenuto, quindi non posso che apprezzare questa scelta – volontaria o meno dell’autore. La frammentazione di una terra che traspare dietro il racconto delle vicende, degli angoli di Penisola, dei momenti di riflessione e di solitudine. La struttura dei racconti è sempre la stessa: Caterini raggiunge i luoghi, con un romanzo del novecento italiano nello zaino oppure in valigia, e alterna il racconto dell’Italia con un racconto del sé, della propria condizione, in un afflato universale favorito anche dalle citazioni. Incontra sempre una guida, qualcuno che gli spalanca le porte di una comprensione, di una maggior e più sincera immersione nelle cose. I romanzi che lo accompagnano diventano pretesto e spunto di riflessione, in una sorta di sincronismo: l’autore si è fatto influenzare dalle letture o le riflessioni dell’autore hanno fatto in modo di trovare sempre la citazione più adatta? Inoltre, e questa è una nota di merito, la narrazione risente – ma non in modo marcato ed evidente, quanto piuttosto in maniera sotterranea, ritmica e di musicalità – della regione che viene raccontata. La lingua si fa ombrosa, schietta, veloce, si perde e si aggroviglia su se stessa, si espande o si sfilaccia, tenendo fede ai luoghi visitati, risentendo dell’influenza naturale degli abitanti e del loro modo di vivere e sentire. Di conseguenza anche la sensibilità dell’autore cambia e cambia il modo di trasmettersi.

Allora è stato quasi naturale immaginare di completare tale struttura inserendo anche qualcosa di mio, per ogni regione. Un elemento naturale che ben identifichi la scrittura e il racconto di Caterini, e di conseguenza i luoghi, ma anche un libro – non un classico, ma proprio un libro che ho letto in quelle terre. Per vedere cosa succedeva. E qualcosa è successo. Si parte dalla Sardegna, dalla terra che porta dietro l’odore del vento: una terra prima di attese, come scrive l’autore a pagina 17. La prima volta che ho raggiunto l’isola è stato poche settimane fa, proprio mentre leggevo questa raccolta e mi infilavo in due aerei a distanza di 23h. Leggevo Caterini e facevo conoscenza con la Sardegna e non è stato casuale, quindi, che la raccolta partisse proprio da questa terra per poi spostarsi nelle Langhe, vita di nebbia. Ogni volta che finisco da quelle parti avverto un’incredibile insofferenza: non a caso, forse per difendermi da quella realtà insopportabile perché così uguale a se stessa, pagina 26, ho sempre letto i miei autori preferiti. Adams, Campanile, Moore. Per mettere un po’ di risata nella realtà. In queste pagine si nasconde una riflessione tanto crudele quanto vera sulle assenze e sulla morte, sul nostro senso di perdono necessario e di una colpevolezza che spesso ci trasciniamo sempre come via di fuga. Poi tocca alla Sicilia lavica e alla Lucania rocciosa, alla Toscana albereggiante e alla Napoli marina. Ci sono luoghi piccoli e città ingombranti, un’isola bollente dove ho letto le Anime Morte e pare di sentirsi sempre stranieri, la Basilicata con altro nome – pag.58, terra più desolata della solitudine – dove ci sono capitato a 17 anni per lavoro e non facevo altro che leggere Bukowski. Mi sono messo in pari con quello che accadeva fuori e, come Caterini racconta, non c’è esigenza più umana che quella della completezza: ci manca sempre qualcosa per sentirci adeguati e a posto, letteralmente e metaforicamente. Sulle tracce di Campana, in giro per la Toscana, mentre a me capitava di filosofeggiare con Amleto e – ammessa la sconfitta, avevo neanche vent’anni – di litigare con il Boccaccio – prima di perdere di nuovo. Poi Napoli, la mia Napoli dove ho letto tutto e non ho letto niente, che non so raccontare e non posso commentare: l’immagine di Caterini mi risulta quasi fastidiosa, posticcia, novecentesca, straniera, a tratti direi invadente e offensiva. E mi è venuto in dubbio? Che anche le altre terre, la Puglia delle stelle dove leggevo Donaera e Gala, l’Umbria avvinazzata dove mi faceva compagnia lo Sputacchiera di Ravasio, o persino il Carso impolverato dove non ci sono mai stato e che chiude il libro, che anche le altre terre risentano di tale offesa invadente? E quindi, finalmente direi, posso scrivervi di ciò che manca. Della mancanza che guida questi racconti.

La scrittura di Caterini prova a ricucire il novecento con l’oggi, di incollare tra loro le mille parti in cui l’Italia è disintegrata. Un tentativo di coesione che forse appartiene alla vita stessa dell’autore, girovago e senza casa alla ricerca di un centro, che è uno, che unisca. Una scrittura al servizio di una ricerca, di un pentimento e di una forma di scusa, di una confessione per un lavoro che ha permesso una narrazione bella, efficace, illuminante ma forse semplicistica. Un tentativo di raccontare ciò che le immagini non avevano, per loro natura, potuto raccontare. Infatti, se bisogna trovare un difetto a quest’opera, è la presenza delle foto: un po’ aliene al racconto, a dimostrazione che la separazione cercata da Caterini non è così semplice da realizzare. L’autore è riuscito a raccontare non tanto il suo vagare quanto il nostro necessario bisogno di un luogo. Si percepisce la frustrazione di uno scrittore costretto a lavorare per immagini. Asservendo la parola all’attenzione limitata dello spettatore. Ma è davvero così diverso con i lettori? Caterini, a un tratto, parla della necessità di una seduta scomoda per favorire la concentrazione e la lettura. E allora anche qui al lettore si consiglia attenzione e una poltrona che non stimoli il sonno, ma quasi spinga alla difficoltà, all’allerta, alla concentrazione di chi con la mente deve tornare in un luogo e provare a vedere ciò che non si può raccontare. E proprio per questo merita un tentativo.

 

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Autore

yy@hi.com

Francesco Spiedo (1992) nasce a Napoli, da madre ansiosa e padre operaio, sperimentando fin da subito le conseguenze dell’iperattività. Cresciuto a San Giorgio a Cremano, studia per diventare ingegnere anche se non praticherà mai. Precedentemente animatore, cameriere, concierge, addetto alla sicurezza e ad altre attività non riconosciute dal Ministero del Lavoro, inizia a scrivere su commissione e su riviste, sotto falso nome e come ghostwriter. Stiamo abbastanza bene (Fandango Libri, 2020) è il suo primo romanzo. Crede in Maradona e Woody Allen.

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