Negli ultimi anni ho visitato spesso, dopo molto tempo, Sant’Ivo alla Sapienza. E mi sono accorto – o penso di essermi accorto – di una cosa che non avevo mai colto. Sant’Ivo (forse la più bella architettura di tutti i tempi) dall’esterno, dalla strada non lascia sospettare nulla di ciò che c’è dentro.
Noi ci troviamo davanti a un muro rossastro, piatto, anonimo, il più anonimo che si possa immaginare; all’interno, Borromini ha costruito questo spazio fantastico, questo spettacolo, questa incredibile simulazione di pietra che attraversa i secoli, gli stili e le forme espressive, e che continua a dire: “quello è lo spazio pubblico, lo spazio della strada, lo spazio della politica in cui io artista non posso intervenire (perché so quello che mi succederà se lo faccio, conosco le conseguenze); però, all’interno di questo spazio separato, di questa sorta di eterotopia che è lo spazio della cultura e dell’arte, accetto le condizioni del fallimento e vi faccio vedere quello che è possibile costruire per voi”.
In questo c’è una parte rilevante, segreta e costante dell’identità italiana.
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Tre quarti d’ora fa ho rivisto la Prospettiva di Borromini a Palazzo Spada. Dalla corte, riflessi, la galleria si vede attraverso filtri su filtri, vetro, barriere. I turisti si accalcano insieme alla guida stanca, ma nessuno può percorrere ormai l’illusione. Devi solo ricostruire mentalmente il processo, perché manca completamente la verifica materiale: l’illusione è monca. Il Barocco è raccontato da una guida, e non percepito fisicamente. È un Barocco ascoltato, più che recepito ed esperito visivamente. Questa visione attraversa la prima balaustra di legno con il vetro, l’intera biblioteca, il secondo vetro con i doppi riflessi. E solo dopo, con tutte queste dimensioni appiccicate addosso, l’idea di Borromini. Un lumicino in fondo a un corridoio oscuro, vago di percezioni e di esperienze rifratte, mediate da un biglietto turistico. Ciò che rimane del Seicento per noi: uno spettro in fondo a un cunicolo percettivo.
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Roma, 9 giugno 2016. La pace di San Carlo alle Quattro Fontane: sistema aperto, organico. La cura e l’accoglienza di questo spazio, della sua concezione e realizzazione – foglie e fiori tutti di specie diverse, sembrano veri – conchiglie, forme naturali – il mondo, vivo e sbiancato, è raccolto qui a gloria di Dio – in una costruzione sapiente – la pietra diventa morbida, mobile, flessibile, dinamica (le curve), vivace – vivida – l’architettura e lo spazio sono antiretorici, fuori dal recinto e dalla gabbia che racchiude normalmente l’espressione artistica e culturale in Italia: “è come se la vita italiana, dall’inizio della sua storia, fosse una lunga e barbarica tavolata, piena di cacciagione o vini pregiati, o anche semplici patate e rape, o ciliegie e altra bella frutta, ma, insomma, natura morta.Una immensa natura morta e niente più. Chissà perché mi vengono in mente queste cose sulla natura esteriore e importante (oh, miseria) degli italiani, in storia, cronaca, vita e letteratura, sulla impossibilità della mente – in questo paese – di fermarsi mai sulla interiorità e invisibilità del reale, e sulla tendenza a combattere continuamente per il possesso di beni sempre esteriori, arroganti e insultanti” (Anna Maria Ortese, Piccolo e segreto, neLe Piccole Persone, Adelphi 2016, pp. 52-54).
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Roma, Oratorio dei Filippini, 21 settembre 2016. La mia sconfinata ammirazione per Borromini risente in parte anche dell’oblìo e del degrado che avvolgono inspiegabilmente, in questi anni, le sue architetture.
La facciata di San Carlino è tutta nera, affumicata, stratificata da ere di smog e gas di scarico – così che quella protrusione morbida sulla linea retta della via ha assunto nel tempo un che di canceroso; la superficie della pietra organica è ormai oltre lo sporco.
Sugli scalini dell’Oratorio cartacce, giornali, lattine, scarti di vario genere e persino inspiegabili pezzi di legno umile sono infilati un po’ in tutti gli angoli.
La Sala dell’Organo è inaccessibile – da una finestra interna che dà sulla prima rampa di scale si intravede un angolo malinconico e desolato di questo spazio abbagliante. La trascuratezza non diminuisce affatto la magnificenza di queste opere – nonostante le renda parzialmente inavvicinabili e irraggiungibili – anzi, in un modo abbastanza strano le rende ancora più fulgide.
Nel momento cioè in cui questa architettura rischia penetrare, in maniera solo apparentemente definitiva, in una zona di marginalità urbana e culturale, si moltiplicano i messaggi metafisici che essa emana. Ogni reale valore più è sconsolatamente in vista più si nasconde – e diventa segreto.
Christian Caliandro (1979) è storico, critico d’arte contemporanea e curatore. Insegna presso l’Accademia di Belle Arti di Foggia. Tra i suoi libri: La trasformazione delle immagini. L’inizio del postmoderno tra arte, cinema e teoria, 1977-‘83 (Mondadori Electa 2008), Italia Reloaded. Ripartire con la cultura (Il Mulino 2011, con Pier Luigi Sacco), Italia Revolution. Rinascere con la cultura (Bompiani 2013), Italia Evolution. Crescere con la cultura (Meltemi 2018), Tracce di identità dell’arte italiana. Opere dal patrimonio del Gruppo Unipol (Silvana Editoriale 2018), manuale Storie dell’arte contemporanea (Mondadori Education 2021) e L’arte rotta (Castelvecchi 2022). Dirige la collana “Fuoriuscita” per l’editore Castelvecchi. Dal 2004 al 2011 ha diretto le rubriche inteoria e essai su “Exibart”; dal 2011 cura la rubrica inpratica su “Artribune”. Collabora inoltre con “minimaetmoralia” e “che-Fare”, e dal 2017 dirige insieme a Angela D’Urso La Chimera–Scuola d’arte contemporanea per bambini presso TEX, ExFadda, San Vito dei Normanni (BR). Ha curato numerose mostre personali e collettive in spazi pubblici e privati, tra cui: The Idea of Realism/L’idea del Realismo, American Academy in Rome, Roma (2013); Concrete Ghost/Fantasma Concreto, American Academy in Rome, Roma (2014); Amalassunta Collaudi, Museo Licini, Ascoli Piceno (2014); Sironi-Burri: un dialogo italiano (1940-1958), CUBO-Centro Unipol Bologna (2015); Cristiano De Gaetano: Speed of Life, Fondazione Museo Pino Pascali, Polignano a Mare (2017); Now Here Is Nowhere. Six Artists from the American Academy in Rome, Istituto Italiano di Cultura, New York (2017); le quattro edizioni de La notte di quiete, ArtVerona, Verona, quartiere Veronetta (2016-2019); le sei edizioni del progetto Opera Viva Barriera di Milano, Flashback, Torino (2016-2021); il progetto Artista di Quartiere, Torino (2020); Z/000 GENERATION. Artisti pugliesi 2000>2020, AncheCinema, Bari (2020); Fragile, galleria Monitor, Roma (2021); Cantieri Montelupo, programma di residenze artistiche, Museo della Ceramica, Montelupo Fiorentino (2021).


Dell’articolo mi lascia perplessa il “mi sono accorto” dell’incipit. E’ ben strano detto da un critico d’arte che nel proprio curriculum dovrebbe avere qualche lettura anche di storia dell’architettura.
Le meraviglie di Borromini, sicuramente quelle narrate e molte altre di più, si trovano già commentate da una miriade di autori.
Bello dell’articolo è, comunque, l’entusiasmo quasi da neofita, dell’autore, che condivido in toto e la capacità di godere e condividere nel riscoprirlo, quanto le pietre, anche se sommerse da smog e incuria, continuano a “raccontarci”.
Il ‘mi sono accorto’ è relativo alla ‘cosa che non avevo mai colto’, relativa a Sant’Ivo. Dunque sono al primo dei quattro ‘episodi’ da cui è composto il pezzo.