Il titolo del nuovo libro di Goffredo Fofi, Il secolo dei giovani e il mito di James Dean (pubblicato da La nave di Teseo), svela tutta la sua intelligente problematicità sin dalle prime pagine, dove Fofi si chiede se si possa definire “secolo dei giovani” il Novecento, che ha falcidiato milioni di persone, soprattutto giovani, in due guerre talmente estese da poter essere definite “mondiali”, e dove gli «immensi progressi della scienza e della tecnica» si sono concretizzati, tra le altre cose, nell’invenzione del secolo, la scissione dell’atomo, usata sotto la forma di una bomba dagli effetti devastanti. Chi ha definito il Novecento “secolo dei giovani”, riferendosi così al loro nuovo protagonismo, chiude gli occhi volontariamente sui modi attraverso i quali questa spinta spontanea è stata volta volta neutralizzata per farla rientrare nel grande alveo dei modelli occidentali e capitalisti: «il dominio parte sempre dai giovani, si serve dei giovani» chiosa Fofi.
Eppure resta indubitabile che nel Novecento, soprattutto a partire dalla violenta presa di coscienza a seguito della Prima e della Seconda guerra mondiale, i giovani hanno avuto un ruolo centrale di opposizione rispetto al mondo borghese – e basta pensare, per esempio, al mondo delle avanguardie artistiche e letterarie –, ma il rischio è sempre stato quello di una normalizzazione successiva destinata a sopire ogni spirito rivoluzionario. Un ripiegamento individuale, nel periodo tra la seconda guerra mondiale e gli anni Settanta, ha in un primo momento dato ai giovani gli strumenti per conoscere dove andare, quale strade percorrere per dare seguito a un desiderio di centralità nel mondo, dire “io” e rifiutarsi di «asservire la propria ispirazione alla ragion di stato»: questa generazione del secondo dopoguerra, come sottolinea Fofi nel libro, fu mossa «da un individualismo ben lontano da quello cui oggi assistiamo (dominato da un”io” chiuso e conformista)», arrivando a unire questa spinta dell’io «con quelle di un’epoca, di una generazione, degli oppressi». In questo senso il Novecento è stato allora il secolo dei giovani, che ebbe però una vita breve lunga qualche decennio, prima che il culto del «narcisismo», inteso in chiave ampia come nelle definizioni ancora ineluttabilmente profetiche di Christopher Lasch, segnasse una sconfitta definitiva e «l’attenzione spasmodica del capitale alle forme della comunicazione e del controllo compissero l’opera».
All’interno di questo scenario, che Fofi tratteggia con consueta e spietata precisione nella prima parte del libro, si inserisce la vicenda di James Dean, tra gli anni Cinquanta che lo vedono attore iconico, il futuro Sessantotto fino alle sconfitte degli anni Settanta e Ottanta dove diventerà il simbolo che resiste ancora oggi. Nato nel 1931 dentro la furia della Grande Depressione e morto nel 1955 a seguito di un incidente stradale con la sua macchina da corsa diventando ancora di più l’emblema di una rivolta adolescente, l’attore americano figura nell’argomentazione di Fofi come esempio rivelatore di questo movimento, per la sua esistenza tormentata dentro una società che faceva del benessere il suo vessillo principale. Oltre a ricostruire il significato del cinema americano negli anni Cinquanta, nominare attori, produttori e registi protagonisti di questa fase di “evasione” della storia del cinema («il cinema “tira”, la novità è che ormai “parla” e la gente fa le code per distrarsi sognando») e ripercorrere le fasi iniziali delle carriere di Marlon Brando e di Montogomery Clift, Fofi racconta i primi ruoli di James Dean (tutti e tre gli attori ebbero a che fare con Elia Kazan, altro protagonista del libro), gli incontri con registi che sapevano leggere in lui un disagio che necessitava di essere accompagnato, la sua incapacità di entrare in un mondo in cui non si riconosceva e come i suoi personaggi suggerissero ai giovani degli anni Cinquanta «una psicologia e un’immagine, modi di muoversi, gestire, parlare ed esprimere una propria diversità».
Il disagio avvertito dai giovani in quegli anni, spinta ai movimenti che li resero i protagonisti di quei decenni, ha un debito verso le immagini di questi attori proposti dal cinema, come suggerito anche da Paul Goodman, autore che insieme a Lasch compare spesso in queste pagine, in Gioventù assurda (il titolo in lingua originale, Growing up absurd suona ancora più incisivo) dove il sociologo analizza il disagio di una generazione e le potenzialità di rivolta collettiva. Nei film con Dean protagonista – ma anche in Fiume rosso dove Clift si ribella alla padre interpretato da John Wayne –, La valle dell’Eden (incentrato sulle incomprensioni tra l’introverso e «mal amato» Cal Trask/James Dean e il padre) e, soprattutto, l’iconico Gioventù bruciata, con quell’identificazione tra l’attore e il personaggio che «ha qualcosa di morboso che si comunica allo spettatore, figuriamoci dunque a uno spettatore adolescente», emerge l’immagine di una famiglia che non comprende i suoi figli e della frustrazione che nasce da questa incomprensione (e sempre Lasch in Rifugio in un mondo senza cuore. La famiglia in stato d’assedio avverte sui pericoli nella dissoluzione della famiglia, ultimo rifugio). In Gioventù bruciata, nonostante la questione “giovanile” non abbia un ruolo preponderante, viene descritta con arguzia, e con un attore che vive quasi in maniera mitica la parte, il disagio che nasce da «un’adolescenza senza più modelli famigliari e comunitari accettabili, in una società dove la retorica e il consumo hanno sostituito l’attenzione alla formazione del carattere e alle stesse possibilità di maturare».
In apertura a un suo libro di quasi trent’anni fa, Benché giovani, incentrato sulla «difficoltà di crescere» negli anni Novanta, ma ricco di esempi a cui guardare, Fofi scriveva: «è difficile parlare di giovani o a giovani senza paternalismo, senza nulla nascondere delle brutture del mondo, eppure senza spingere al cinismo o alla disperazione, alla paura. […] Nello stesso tempo occorre però reagire e molti di noi reagiscono». Quest’ultimo piccolo libro su James Dean, oltre a essere una miniera di informazioni sull’attore e sul cinema americano degli anni Cinquanta, prosegue questo discorso nella convinzione che possibili modi di reagire esistono e che sia possibile farli propri restando in guardia rispetto agli errori e le furie del passato, perché speranze nel futuro devono sempre esserci e «anche quando non ce ne fossero, è dalla disperazione che può e deve nascere la ribellione». Edgar Morin ha scritto, in un libro citato da Fofi, I divi, dove trova spazio anche un’analisi della figura mitologica di James Dean, che «l’adulto delle società burocratiche e imborghesite è colui che accetta di vivere poco per non morire molto, il segreto dell’adolescenza è che vivere significa rischiare la morte, che la rabbia di vivere è l’impossibilità di vivere» e sta in questo, sicuramente, il segreto e la forza simbolica dell’adolescenza.
Matteo Moca è dottore di ricerca in italianistica e insegnante. Scrive, tra gli altri, per Il Tascabile, Il Foglio, Domani, L’indice dei libri del mese, Blow Up e il blog di Kobo. Ha pubblicato le monografie “Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett”, “Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi” e “Un’esigenza di realtà. Anna Maria Ortese e la dipendenza dal fantastico”
