Pubblichiamo l’incipit di “Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia” di Enrico Macioci, in uscita oggi per TerraRossa Edizioni, che ringraziamo.

di Enrico Macioci

10 giugno 1981

Credo quia absurdum

Nel giugno del 1981 Christian Crèoli era il mio migliore amico. 

Oggi quel tempo mi appare talmente lontano che potrei averlo immaginato. Spesso, ricordo, avevo paura di alzarmi dal letto e scoprire che la mia esistenza fino ad allora era consistita in un sogno, il sogno di uno sconosciuto, e mi sentivo come il modellino di una barca a vela dentro una bottiglia: finto, prigioniero, inerme. Temevo che se avessi rotto il vetro della bottiglia, cioè se mi fossi alzato dal letto, avessi attraversato il corridoio e raggiunto la cucina, avrei trovato al posto di mia madre una donna mai vista, capelli neri e lunghi, alta, fredda, inavvicinabile. Mentre riempiva la tazza di cereali e ci versava sopra un po’ di latte, la donna mi avrebbe dato il buongiorno pronunciando un nome diverso dal mio, pronunciando cioè il mio vero nome che io non conoscevo, e io mi sarei accasciato fra il mobile della tv e la dispensa formulando il mio ultimo pensiero razionale: era stata tutta una bugia. Universi paralleli, dimensioni aliene da cui ci separa lo strato più o meno sottile della nostra incredulità, porte girevoli che ogni tanto si fermano e d’improvviso ripartono, prendendoci con sé o rifiutandoci – o invece semplici, innocenti fantasie. 

Nel giugno del 1981 avevo sei anni e oggi ne ho quarantacinque, ma il tempo trascorso mi sembra più lungo d’un intervallo di trentanove anni. Immensamente più lungo. Il mondo del 1981 non era diverso rispetto al mondo d’oggi, era proprio un altro. Diverso non rende l’idea poiché non parlo di gradazioni, parlo di natura. Accostare il mondo del 1981 al mondo d’oggi è come accostare Pac-Man a Fortnite, Fantastico al Grande Fratello, Maradona a Messi, un diario a una pagina Facebook. Da allora sono successe troppe cose troppo in fretta, e se ficchi troppe cose in un lasso di tempo troppo breve il tempo si sfonda. Noi ci sfondiamo.

Mentre scrivo queste righe, un virus pandemico insidia l’umanità. Il ghiaccio dei poli si scioglie, in Australia gl’incendi bruciano milioni di ettari sterminando miriadi d’animali selvatici, le foreste dell’Amazzonia perdono un lembo al minuto. La democrazia è un’astrazione e i super-ricchi muovono le fila di sette miliardi e mezzo di umani dalle loro caverne cibernetiche. Lo sviluppo è il nostro mantra, la tecnologia il nostro scongiuro, la scienza la nostra religione. La disgrazia si è mutata in apocalisse, l’apocalisse in quotidianità e il pianeta in un’anfora di urla dementi. Non facciamo che sbranarci sui social, e appena ci stacchiamo dal pc o dallo smartphone è l’incantesimo del televisore a tenderci la sua vecchia, infallibile trappola.

Certe volte penso che il mostro sia nato dentro quella scatola dallo spessore sempre minore e dal potere sempre maggiore. Certe volte penso che sia nato il 10 giugno 1981 in un pozzo artesiano della campagna di Frascati, zona Selvotta, località Vermicino, provincia di Roma. Al più tardi potrebbe essere nato il 13 giugno 1981, quando l’inviato della rai Giancarlo Santalmassi inaugurò, recitando una manciata di frasi, un’èra nuova e ambigua, la nostra: «Volevamo vedere un fatto di vita e abbiamo visto un fatto di morte. Ci siamo arresi, abbiamo continuato fino all’ultimo. Ci domanderemo a lungo prossimamente a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare».

Santalmassi parlò attraverso un microfono e venne ripreso da una telecamera, ma le sue furono le frasi di un profeta di sventura, di un moderno e grottesco Geremia. Grazie al suo discorso la tv, per la prima e unica volta, cercò di raccontarci la verità – ma la verità ci risultò insopportabile e noi la rigettammo. Tutti ascoltammo e nessuno volle ascoltare. Tutti capimmo e nessuno volle capire. Il pozzo artesiano c’invitò a sporgerci dal bordo e guardare, e ciò che vedemmo non fu il fondo bensì la sua mancanza. Santalmassi c’invitò a scrutare il nostro abisso. Il pozzo di cui parlava era il medesimo sfidato da Nietzsche prima d’impazzire. Stavolta impazzimmo tutti. 

Se un buco nero del raggio di quattro virgola cinque millimetri pesa suppergiù come il pianeta Terra, quanto pesò nel nostro immaginario il buco nero di Vermicino, il cui pozzo misurava ventotto centimetri di diametro? Dal giugno del 1981 noi osserviamo una realtà ingannevole imprigionata dietro una lastra opalescente – il ventre di una serpe che striscia in un canneto. Tuttavia scrivendo m’impegno a testimoniare solo ciò che mi sembra corrispondere al vero. Non è facile e non so se ne sono capace, poiché il mio impegno esige di tornare nel passato, e tornare nel passato esige di smarrirsi e perdere l’orientamento. Dunque sarò più equanime, con me stesso e con voi, se chiamerò atto di fede ciò che segue.

Credo che nel giugno del 1981 Christian Crèoli fosse il mio migliore amico, e credo di non avere mai più avuto un amico migliore. Credo che il sentimento che nutro verso Christian dipenda da ciò che accadde fra il 10 e il 13 giugno del 1981, e credo che ciò che accadde fra il 10 e il 13 giugno del 1981 determinò ciò che accade oggi. Credo che la sorgente del panico globale iniziò a sgorgare dalle zolle del nostro inconscio la sera del 10 giugno del 1981: in principio un minuscolo fiotto buio, poi un geyser, un fiume, un mare di buio. Erano all’incirca le diciannove. L’aria era mite e l’estate si allungava sulle ombre cineree degli alberi, sulle chiome verdi scosse dal vento, sui campi gravidi e sugli scorci d’azzurro. Un bimbo tornava a casa. Forse aveva fretta di arrivare. Forse aveva fame o paura o invece era contento. Forse correva. A un certo punto mise un piede in fallo.

E noi con lui.

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